Berlino, Jüdisches Museum

26 Luglio 2012

Arrivandoci a piedi attraverso le strade animate di Kreuzberg, tra parchi colorati di hijab leggeri e bambini in canottiera, qualche educato graffito, biciclette e pannelli solari, il Jüdisches Museum di Libeskind, già tante volte incontrato nei libri e sulle pagine patinate delle riviste o dei lussuosi cataloghi di architettura, non fa poi tutta l’impressione che ti aspetti. Sarà forse per la presenza vistosa della vigilanza, o per l’accenno ordinato di coda, di qui le scolaresche, di là i visitatori singoli, o forse per il senso di precarietà dato dalle alte transenne che chiudono il cantiere della piazza di fronte, rumore di scavi e voci straniere, ma l’ingresso al museo attraverso la sua parte antica è più una formalità aeroportuale (apra la borsa, prego) che l’attesa emozione.

Una volta entrati poi, navigare a vista tra biglietteria, infodesk e guardaroba seguendo il flusso regolato della folla ancora vociante contribuisce alla sensazione di percorrere l’ennesimo non luogo e la delusione è lì lì per affiorare, tenuta fortunatamente a bada dalla serietà e dall’abbigliamento singolare del personale di sala, una pattuglia rigorosamente addestrata di cui si avverte tutta l’attenzione, la tensione, persino, con cui assolve il compito esclusivo di vigilare non sulla conservazione delle collezioni ma sulle reazioni (le relazioni) che il museo sa e vuole sollecitare. 

 

 

Monta così una sottile apprensione, più che un vero e proprio timore una vaga forma di incertezza, quando si imboccano finalmente le scale e s’inizia la discesa.  Sì, la discesa, perché, una volta superata la dissonante e pur necessaria confusione dei servizi al pubblico, opportunamente accolti nella originaria costruzione barocca, quello che il nuovo museo offre a chi finalmente penetra per irresistibile attrazione nella sua potente macchina teatrale è un percorso fatto di sprofondamenti e riemersioni, di cadute e rinascite, penombre e illuminazioni, un viaggio e uno spazio immaginati alla fine del secolo scorso dall’archistar americana (ma d’origine polacca) Daniel Libeskind ad ampliamento (e rifondazione) del preesistente museo della città di Berlino.

Più che un luogo di pura esposizione, il nuovo edificio, inaugurato nel 2001 senza presentare collezioni, è un ordigno simbolico di introvertita eloquenza, mausoleo e, a tratti, anche camera dell’orrore, un’architettura che non può essere fraintesa, ricca di segni, indicazioni spaziali ed emotive che orientano in maniera quasi autoritaria l’esperienza di chi s’incammina, senza apparente via d’uscita o facile deviazione, lungo un itinerario che, fin dagli esordi, si mostra inquietante ed anche sofferto, forse fastidioso, comunque mai indifferente.

 

 

Nelle stanze ipertecnologiche destinate alla documentazione, ombre e proiezioni che rallentano il passo e smorzano le voci, nei corridoi sbilanciati che s’incastrano nel cuore sotterraneo del museo, le assi asimmetriche che danno il ritmo spezzato all’intera costruzione – l’asse dell’esilio, l’asse dell’olocausto, l’asse della continuità – in cui ci si muove incerti, smarriti dal gioco delle prospettive e delle quote, negli ambiti vuoti che si aprono all’ascolto dell’indicibile ( uno per tutti, la torre dell’Olocausto) o negli spazi che hanno carattere più esplicitamente monumentale – il giardino dell’esilio, con i suoi pilastri che opprimono e la sua rigenerante terra di Israele o, fin troppo didascalica, l’installazione Schalecet, fotografatissima – il visitatore non legge solo con gli occhi ma percepisce allarmato col corpo la complessità impossibile di una vicenda che sembra superare i limiti stessi della storia umana.

Una intensità d’esperienza che viene temperata e resa conoscenza però proprio dagli oggetti che il museo accoglie (e non poteva che accogliere, nonostante le tesi contrarie), proponendo ora microstorie che individuano e rendono reali persecuzioni e salvezze, ora esibendo documenti rari della vita della comunità ebraica a Berlino e in Germania, materiali eterogenei allestiti forse con troppa intenzione partecipativa nelle sale superiori.

 

 

L’aria da science center sembra, a volte, persino stucchevole (premi il pulsante, gira la manopola,  segui il percorso luminoso, ascolta le voci in cuffia, fabbricati la tua medaglietta con Mendelssohnin effige) ed è però un antidoto efficace, irrinunciabile, agli eccessivi turbamenti, alle ferite aperte dell’architettura, che proprio nel fragile equilibrio con le collezioni riacquista il suo significato più autentico. Non monumento, quindi, ma davvero museo ebraico, e per ciò in grado di costruire nuova memoria e, quindi, di restituire parole all’indicibile, perché questo non diventi mito ma sia sempre più passato, remoto e recente, che ci riguarda, nelle bacheche oblique che conservano lettere, fotografie, orologi, ditali, giocattoli e candelabri, così come lungo le  impenetrabili mura rivestite di zinco,  improvvisamente squarciate dalla luce di una città che cambia senza nascondersi.

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