1913. L’anno prima della tempesta
Bella idea, di quelle che fanno invidia, scrivere un libro su un anno, e un anno d’effetto come quello che precede una grande guerra, abbastanza lontano da essere ammantato di storia, ma anche abbastanza vicino da evocare situazioni che interessano a tutti, cento anni fa, così è anche un anniversario tondo.
È l’idea di 1913. L’anno prima della tempesta di Florian Illies (trad. it. Marsilio, Venezia 2014). Un libro piacevolissimo, scritto con eleganza, senza pedanteria, pieno di fatti, narrazioni, aneddoti, citazioni, curiosità, incentrato sui fatti artistici, letterari e visivi, ma anche storici naturalmente e con finestrelle che aprono su ogni altro aspetto del vivere sociale. Un anno fantastico: la Vienna di Freud, Schnitzler, Kokoschka, Krauss, Trakl, Hitler e Stalin; la Parigi di Picasso, Duchamp, Diaghilev, Proust; la Monaco di Marc, Macke, Kandinskij; la Berlino di Kirchner, Corinth, Liebermann, Benn, i Mann, Jünger, e delle esitazioni di Kafka con Felice, il girovagare di Rilke, il viaggiare di molti altri. Capolavori di ogni genere, avanguardia e no, psicanalisi e impero, nevrastenie e grandi amori...
Brevi racconti, di mezza paginetta, raramente fino a due pagine, in scioltezza ma con competenza e acume quanto basta. Si legge d’un fiato, o si degusta pian piano, lasciando depositare la curiosità. Oggi lo si può fare con un tablet a portata di mano per cercare immagini delle opere, notizie supplementari su qualche personaggio o evento che non si conosce.
Un’idea che mi ha fatto venire in mente l’altro grande libro degli anni recenti basato sulla stessa idea di fondo, cioè quell’Arte dal 1900 degli americani Krauss, Buchloh, Foster, Bois e Joselit (trad. it. Zanichelli, Bologna, nuova edizione 2013) che sconvolse nel 2004 il modo tradizionale di raccontare la storia dell’arte contemporanea proprio perché era impostato per anni invece che per movimenti o altro. Alcuni protestarono che si perdeva il lato didattico e ordinato del racconto della storia; ad altri, tra cui il sottoscritto, apprezzarono molto l’idea di raccontare per eventi, mostre, opere, pubblicazioni, convegni, dibattiti, e di dare maggiormente il senso della complessità e dell’intreccio delle faccende, rompendo il fronte delle definizioni per movimenti e delle sintesi spesso senza riferimento effettivo. Certo la lettura ne risulta meno facile, richiede un’elasticità e dei riferimenti e sintesi già acquisiti, ma il senso di realtà e di precisione ci guadagna certamente, e gli affondo analitici e teorici possono essere restituiti come parte del racconto, in forma di argomenti di colui di cui si parla o interpretazioni di colui che scrive o di altri.
Ora evoco quel libro perché, insomma, mi sono chiesto: possibile che questi due mondi proprio non si tocchino? Che la sensibilità di un Illies venga snobbata come irrilevante e mistificatoria da una Krauss o un Buchloh (si legga quello che scrivono dei testi “poetici”, per loro “da pasticceria”, degli scrittori sull’arte, o i giudizi sprezzanti su chi non fa come loro), mentre gli argomenti di questi vengano considerati esasperazioni analitiche e specialismi da evitare dall’altra parte?
Non è solo una questione di audience, di mercato, che spesso sono le scuse dietro le quali ci si nasconde per non chiedersi altro, ma c’è una vera e propria diffidenza e contrapposizione che può essere il sintomo di qualche problema irrisolto. Gli uni rimproverano agli altri mancanza di rigore, gli altri rivendicano una sensibilità che va al di là delle tesi abbracciate per distinguersi nella bagarre internazionale. Che l’una vada necessariamente a scapito dell’altra? Non si può essere sensibili e rigorosi insieme? O equilibrati e avanguardisti? O altro ancora? Il dualismo è un dato di fatto?
Intanto sarebbe già interessante vedere come questa possa essere la variante attuale della contrapposizione tra storici e teorici (o filosofi, se si vuole tornare alla famosa vicenda di Heidegger-Schapiro-Derrida all’insegna delle “scarpe di Van Gogh” – che peraltro abbiamo appena ricostruito e sviluppato, Riccardo Panattoni ed io, in un volume con questo titolo per l’editore Marcos y Marcos) –, ma che cos’è questo rigore e che cosa questa sensibilità? Il rigore deve necessariamente andare con un argomentare a tesi, con una finalità di utilità riconoscibile e riconosciuta, un esito progressivo rispetto agli argomenti discussi? La sensibilità deve necessariamente essere vista come soggettiva, fine a se stessa, compiaciuta? O forse in realtà hanno un ulteriore nemico comune, come si dice brutalmente, o un rimosso comune? André Breton lo indicava nel “lirismo”, ma si dirà che sta tutto dalla parte della letteratura, della sensibilità? Oppure veramente hanno un fondo comune? Quale? E allora non sarà proprio la paura di toccare tale fondo comune a contrapporli?
O forse davvero è impossibile essere due cose insieme. E non è né utile né necessario, e sono piuttosto quelli che pretendono di esserlo a mentire o a essere strani, fuori dalla regola, perversi. È normale essere o l’uno o l’altro, solo così si è realmente equilibrati, e il mondo vive di queste differenze, agendole attivamente al di là degli eventuali tormenti o velleità di ciascuno.
Io per me sto dalla parte di Jean Baudrillard, per così dire: l’illusione non si contrappone alla realtà, scriveva il filosofo a proposito di fotografia, il rigore non si oppone alla sensibilità, parafrasiamo noi a proposito di storia e teoria. Occorre uscire da queste contrapposizioni e dar torto alla sensibilità quando rischia la superficialità o il compiacimento, e al rigore quando è presuntuoso e supponente, a entrambi quando sono semplicemente interessati. Ma anche dar merito alle altre profondità della sensibilità e alla determinazione del rigore.
Conclusione scontata? Solo apparentemente, dal di fuori, perché dal di dentro significa un esercizio in cui i due si intrecciano, senza la ricerca di un equilibrio ideale, ma con la naturalezza di una convinzione. Ci sono autori così? A noi piacciono tutti, non perché lo sono, ma perché è così che li leggiamo.