Notti bianche a Stoccolma
Dopo la fine della guerra si partiva per la Svezia alla ricerca di un esemplare nuovo di umanità, prodotto da una civiltà che aveva assorbito la modernità nelle sue tradizioni. Si tornava in Italia con pezzi di design, esempi di urbanistica e di uno stato sociale modello. Erano gli anni Cinquanta e sulle nostre riviste apparivano articoli ammirati in cui erano, per una volta tanto, soppresse le note di costume e si indicavano esempi di crescita armonica della società, nella speranza che potessero essere seguiti anche da noi. Già negli anni Sessanta le cose cambiarono: i rapporti senza complessi tra i sessi vennero tradotti dalle nostre parti in libertà sessuale, le applicazioni della socialdemocrazia come indizi di totalitarismo. I film di Bergman continuavano a essere ammirati e discussi, ma i giudizi sul paese si formavano su Il diavolo (1963), film scritto da Rodolfo Sonego con un Alberto Sordi d'annata, che rivela questo mondo nuovo attraverso i tic italioti, oppure con un reportage di Mario Soldati, I disperati del benessere, che, a fine decennio, faceva i conti con la fine di un modello.
Nel secolo scorso (ebbene finalmente si può scrivere!) ero stato un paio di volte in Svezia, e mi era parso una sorta di socialismo compiutamente realizzato, ma non avevo visto Stoccolma. Così, ero molto curioso di visitarla nelle giornate infinite di fine giugno. Ero col mio solito amico, zelante (e indispensabile) lettore di guide e del catalogo di Iperborea, che mi informava che il buio sarebbe arrivato verso le 21.30, mentre avrebbe albeggiato alle tre del mattino. Verso le 22.30, in piena luce ma troppo stanco per contraddirlo, mentre consumavano una frugale cena a base di Smorgasbrod (le tartine di pane nero con salmone, gamberetti) in un chiosco nel parco di Fafängen, con l'arcipelago cittadino che si affacciava nella luce di un tramonto al ralenti sotto di noi, fui abbastanza clemente da non chiedere un'autocritica. A che ora venisse poi buio è rimasto un mistero per tutta la vacanza anche perché, provati dall'estenuante professione di turisti, collassavamo ben prima di mezzanotte, nonostante il ritorno degli hot pants non sfavorisca le ragazze di qui. Anzi!
Ad ogni modo, appena fuori dalle vie più animate, ho ritrovato la metafisica del quotidiano, una collezione di silenzi che dilatava ogni piccolo rumore (e questo in una città di più di un milione e mezzo di abitanti) verso una dimensione simbolica. Non ci siamo sottratti a musei, biblioteche, parchi, al Palazzo reale, alle viuzze di Gamla Stam, al maestoso vascello Vasa che, nell'immaginario, sta dalle parti di Walt Disney. Abbiamo eletto a nostro eroe Gunnar Asplund (1885-1940), architetto della circolare Biblioteca civica di Stoccolma e soprattutto del meraviglioso cimitero di Skogkyrkogarten (cimitero del bosco), esempio forse massimo di una civiltà dove la vita prosegue oltre la morte nell'intensa, inscindibile, comunione tra uomo e natura.
Il rapporto tra uomo e natura è anche alla base dell'alimentazione svedese. Al mercato ho notato frutti di bosco (con le fragole al posto giusto), finferli e asparagi a mazzi, ma direi che l'Homo nordicus, per cavarsela a queste latitudini, doveva essere cacciatore e pescatore, più che contadino, o forse le tre cose insieme. Gli svedesi sono nazionalisti anche a tavola, anche se hanno un pessimo ambasciatore nei ristoranti dell’Ikea. Ho voluto perciò assaggiare il salmone marinato (che con quello che si trova da noi ha in comune soltanto il colore), le polpette di manzo, e, frutto di maggiore elaborazione, un merluzzo stufato con verdure o, di maggior esotismo, un antipasto di carne di renna. Poi torte di mele, modello applecrumble, le inevitabili e succosissime fragole. Tutto questo in due ristoranti nel cuore di Gamla Stam: Tradition (il migliore) e Kryp In, sempre nella città antica. Per un pasto completo si spende l’equivalente di 50 euro.
Vorrei tornare a Stoccolma nel cuore dell’inverno per cronometrare le ore di luce con implacabile esattezza e comunicarle al mio amico Alessandro.