Ricette Immateriali. Testi, testaroli e testimoni 

7 Febbraio 2023

Quando entro in una nuova classe di liceo per introdurre la disciplina che insegno, amo citare un testo edito per la prima volta nel 1950, La storia dell’arte raccontata da E. H. Gombrich: in apertura al piccolo volume, che da più di sei decenni continua ad essere un affascinante riferimento della disciplina, ineguagliato per semplicità e chiarezza narrativa, l’autore sostiene che l’opera d’arte non esista, mentre esistono gli artisti e la loro produzione che, semplicemente, è qualcosa fatto dall’uomo per l’uomo. Continua poi dicendo che non c’è “l’arte con la A maiuscola, che (…) oggi è diventata una specie di spauracchio o di feticcio”. 

Una sensibilità comune a diversi intellettuali del dopoguerra, se accostata al pensiero di Italo Calvino o Pier Paolo Pasolini che negli stessi anni o poco dopo, con diversa formazione, puntano i riflettori sul rischio di veder perduta gran parte di quell’espressione umana caratterizzante la società preindustriale, soffocata e distrutta dal progresso e dal benessere del boom economico.

I muretti a secco, i selciati delle mulattiere, la forma delle città: espressioni del “fare dell’uomo per l’uomo” che intreccia il materiale e l’immateriale, il sapere e il saper fare di una intera comunità diacronicamente estesa nei secoli. 

Proprio un visionario Pier Paolo Pasolini chiederà conto e impegno all’UNESCO (ben prima della nascita, nel 1972, delle liste dei Beni Patrimonio dell’umanità) della tutela dello spazio delle città storiche, contribuendo in Italia al dibattito che porterà all’istituzione del Ministero dei Beni Culturali, dedicato a conservare e valorizzare tutte le testimonianze materiali aventi valori di civiltà e a tutelare il paesaggio. 

Di nuovo l’agenzia Unesco nel 2003 spingerà avanti il confine della tutela: valorizzandone il carattere trans-nazionale, inserisce nelle sue liste ad esempio, le tradizioni popolari e canore, la transumanza, i muretti a secco, la dieta mediterranea.

Se accogliamo questa definizione di arte, potremo sederci attorno a un tavolo e osservare con occhi nuovi ciò che ci circonda e diventare, come mi è capitato per sorte, consapevoli testimoni di ciò che accade.

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Nel vivace caos di una bella casa in Val di Vara, un’intera famiglia partecipa alla preparazione dei Panigacci, semplice piatto della tradizione locale: il capo famiglia accende il fuoco con discreto anticipo mentre la moglie prepara l’impasto di farina, acqua e sale per un intero reggimento; i tre figli maschi della coppia sono tutti a vario titolo coinvolti: si alternano nel riporre e prelevare dal forno a legna i testi senza i quali l’impasto non potrebbe cuocere. Mentre fidanzate, mogli e amici aiutano apparecchiando la tavolata sotto il portico, una piccola ma perfettamente oliata catena di montaggio dà inizio alla cottura: un mestolo di impasto piuttosto liquido si sparge sul piccolo tegame incandescente; ad esso se ne sovrappone un altro permettendone la cottura e così via, ripetendo l’operazione più volte fino a quando la piccola torre resta in equilibrio (o fino a quando terminano i tegami).

In pochi minuti il panigaccio è cotto e, semplicemente smontando la piramide di testi impilati, riposto in cestini di vimini è pronto ad essere farcito e gustato. Le difficoltà della ricetta e la bravura di chi la realizza si nascondono proprio nel calibrare ottimamente il tempo di cottura in relazione alla quantità di pastella e al calore del tegame: una perizia frutto di esperienza, capacità manuali e intelligenza pratica. Seduta accanto al capo famiglia scopro anche come un tempo, all’interno del focolare acceso, i testi fossero sempre pronti ad accogliere un visitatore improvviso. 

Un cibo, alcuni oggetti semplici, uno stare insieme che lega in maniera indissolubile valori concreti e astratti; una cottura così antica che prevede insieme una convivialità ancestrale.

Fu per primo un lunigianese, Tiziano Mannoni, a comprendere come i testi meritassero di essere indagati alla stregua di un reperto di archeologia antica: pubblicò già alla metà degli anni Sessanta uno studio sull’uso e produzione, tipica della Liguria orientale e della Lunigiana, dei testi in terracotta, accompagnandolo da un video dimostrativo dell’antica arte della loro produzione. Tra i fondatori a Genova, tra gli anni Settanta e Ottanta, dell’Istituto di Cultura Materiale, Mannoni dedicò tempo e attenzione alle produzioni legate alla vita alimentare: ceramiche di uso comune, recipienti, strumenti della cucina e della mensa, giare da olio.

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Prodotto alimentare per certi versi simile al Panigaccio, ma cotto in tegami di ghisa con coperchio a campana, sono i Testaroli, che all’incirca nella stessa zona geografica hanno ottenuto il titolo di presidio Slow Food: partendo dalle case, passando alle Accademie e tornando infine al consumatore, questo è uno dei modi attuali per cercare di valorizzare e tutelare non solo la tradizione gastronomica locale ma anche di preservare le rare produzioni materiali di oggetti legati alla loro realizzazione. Lo straordinario valore identitario di questi antichi e semplici piatti, e degli oggetti a loro legati, è testimoniato dalle dispute sui nomi, sulle ricette e sui modi di cottura che è possibile rintracciare nel caos del web: sommessamente, ci urlano come il fare, il saper fare e il riconoscersi siano alla base dell’essere comunità.

E se vorrai far cosa galante poni una moneta d’un soldo infra pasta e bichiero, e sovra d’essa percuoti a cagione ch’essa moneta lassi alla pasta l’impressione sua. E cotali tondi di pasta in guisa di monete li cuocerai et imbandirai come detto per li maccaroni” sono le parole di un trattato seicentesco riportato da Gianluigi Bera che descrive una preparazione diffusa nel basso Piemonte, attestata in Provenza e che troviamo, in Liguria, in un altro territorio appenninici di confine.

I Croxetti legano indissolubilmente nel nome oggetto e prodotto alimentare: i piccoli dischi di pasta venivano realizzati attraverso stampini in legno con i quali si imprimeva loro, su un lato o su entrambi, una decorazione a croce, da cui deriva il nome. 

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I corzetti, curzetti, cruxetti (varianti locali per indicare un semplice impasto di acqua farina e sale) sono ancor oggi diffusi in Valle Scrivia nel territorio del Parco dell’Antola e nell’entroterra levantino della Val di Vara; zone tra loro abbastanza lontane ma storicamente accomunate per essere state lungo tempo possedimento dei Fieschi, famiglia di feudatari genovesi che garantiva il controllo di importanti assi viari della Repubblica. Entrambi i territori, alle porte di Genova, più e più volte furono teatro di incursioni, lotte e rivalse tra potenze straniere e locali, o di feudatari diversi che ambivano a controllare quelle specifiche aree strategiche su cui transitavano uomini, animali e ricchezze.

Legati a filo doppio alla Repubblica Genovese e alle sue alterne vicende, i Fieschi ovunque amministrassero portavano anche l’uso della moneta genovese, riconoscibile per una croce coniata su un lato. 

Se davvero in origine i Croxetti venivano impressi mediante una moneta, affascina l’idea che anche nel cibo di questi territori di confine, dovesse essere evidente l’appartenenza politica e la fedeltà al potere centrale delle famiglie che li abitavano. Un’immagine replicata infinite volte e lentamente modificata nei secoli attraverso l’uso di stampigliare sui Croxetti non più solo croci ma anche blasoni e simboli familiari, mentre il mondo medioevale sfumava nell’età moderna, e mentre progressivamente la pietanza usciva dalle residenze nobiliari per diffondersi anche nelle case più umili. Una diluizione estetica e politica che narra di territori progressivamente più marginali e del mutare di tempi e valori.

Questa pasta, oggi facilmente reperibile, rimane ancorata nella memoria degli anziani come un piatto delle feste: si tramanda come in occasione delle nozze il padre dello sposo omaggiasse la nuora, insieme a un piatto di Croxetti, di uno stampino di famiglia intagliato in dure essenze lignee da esperti artigiani, oggi rarissimi.

È ancora una volta la condivisione, la circolarità e la ritualità a dare un valore aggiunto a questi semplici beni. 

Cosa rimane oggi di quell’essere comunità che questi oggetti raccontano? E’ di poco tempo fa un articolo del Corriere che indica il 2030 l’anno in cui, secondo gli esperti del mercato immobiliare, la cucina intesa come luogo fisico nel quale si preparano i pasti progressivamente sparirà dalle nostre case, e sarà sostituita da un ambiente multifunzione dove consumare cibo prodotto altrove e portato da fuori; uno spazio adibito sempre più a vivere esperienze immersive e virtuali. Tutto questo, assicurano i visionari imprenditori del Megaverso, ci consentirà di risparmiare tempo.

Un tempo libero che forse impiegheremo per cercare di capire e consumare prodotti certificati e marchiati, quando un tempo invece stavano lì accanto a noi, come patrimonio comune e condiviso, quotidiano ed inesauribile.

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TAGGED: gastronomia , cucina