Le belve feroci della vita / Il domatore, di Vittorio Franceschi
Per comprendere uno spettacolo a volte bisogna abbandonare la suggestione di quello che hai visto, i colori della scena, le risate che le battute del testo hanno scatenato, i tempi perfetti con cui l’attore e l’attrice hanno recitato, e perfino quel nodo che a poco a poco la storia ti ha fatto crescere dentro, fino a farti ritrovare una parte nascosta di te, delicata o stridente, nascosta a te stesso. Bisogna abbandonarsi a un dettaglio apparentemente insignificante, colto in qualche margine, fuori anche da quello spettacolo che ti ha colpito e commosso.
Una pomeridiana a Parma, a Teatro Due. In scena ci sono due “novità italiane”, vecchia dizione ministeriale per dire che il teatro ha bisogno di linfa nuova, di storie e visioni dei nostri giorni. Uno è Bestie incredule, testo di Simone Corso, classe 1990, scelto tra altri trecento copioni presentati al concorso Mezz’ore d’autore, una sfida dello stabile parmigiano per ripartire, dopo la pandemia, da due fondamentali, la drammaturgia e l’arte dell’attore. Parla di Covid, ma lo fa proiettandosi sessant’anni dopo, in un futuro in cui una giovane danese rievoca i maledetti giorni del 2020, quando furono sterminati i visoni perché infettati dal virus e possibili vettori di contagio.
Non riesco a vederlo, purtroppo: è in contemporanea con l’altra novità, Il domatore, di un autore e attore classe 1936, Vittorio Franceschi, una gloria del nostro teatro, uno che ha recitato con Benno Besson, Luca Ronconi, Massimo Castri, Marco Sciaccaluga, Aldo Trionfo, Andrzej Wajda e molti altri registi. Parla anche questo di animali: un vecchio domatore viene intervistato da una giornalista all’indomani dell’approvazione della legge che vieta l’uso di animali nei circhi. Addio così ai suoi numeri con i leoni; addio a una storia familiare che ha visto un padre domatore di tigri, ucciso dalla belva con cui intratteneva un rapporto quasi d’amore, e uno zio, Anatema 1, grande nel suo mestiere, che lo ha strappato al trauma della morte del padre, a cui il bambino aveva assistito, mandandolo settenne in pista, trasformandolo in uno splendido uomo di spettacolo che in marsina rosso scura con alamari faceva giostrare belve nella gabbia evocando paesaggi esotici, paure ancestrali, profonde relazioni tra uomo e animale feroce.
Giudicare questo spettacolo è facile. L’ho fatto, appena ripreso il treno, con un breve post su Facebook: “Andate a Parma, Fondazione Teatro Due, a vedere Il domatore di Vittorio Franceschi, con Franceschi e Chiara Degani, regia, scene, costumi di Matteo Soltanto: una lezione di teatro, un testo allegro e malinconico, uno sguardo profondo sulle cose che passano, su vite marginali e incrinate da qualche dolore segreto come quelle di tutte e tutti noi. Da un luogo fuori centro come un circo in smantellamento. Da non perdere”.
Bene. Andiamo al dettaglio marginale. Riguardo il testo, pubblicato con Raffaelli editore di Rimini, e leggo la paginetta di introduzione premessa da Franceschi. E attraverso un suo ricordo lo vedo, lui che di anni ne ha quasi 86, e che Il domatore lo ha scritto a 83 durante la pandemia, lo vedo ragazzino davanti alla gabbia dei Giardini Margherita di Bologna, incantato e certo un po’ impaurito, a guardare i due leoni in gabbia, Reno e Sasha. E lo immagino in gabbia, lui, durante la pandemia, quando le sale teatrali sono state chiuse, quando non poteva recitare e neppure insegnare recitazione alla scuola fondata dall’adorata moglie, scomparsa anni fa, Alessandra Galante Garrone. Un leone in gabbia, che può affidare solo alla pagina i propri ruggiti, le proprie malinconie per un’arte, quella della recitazione, del teatro, che sente negata e comunque in forte cambiamento, nella quale, come è ora, non si ritrova forse più.
Il domatore è ‘vecchio’ teatro di testo, parola, recitazione. Vecchio, splendente teatro d’intelligenza, dolcezza, scavo nel cuore umano. È una pièce che cattura il pubblico a poco a poco: divertendolo, tirandolo in un mondo estraneo, conquistandolo con battute pungenti, con una schermaglia sempre in punta di fioretto tra i due personaggi. A poco a poco, sotto lustrini e malinconie di un mondo che sta scomparendo, messo a confronto con l’‘arte’ vincente dei nostri tempi – il giornalismo, la comunicazione, la spettacolarizzazione della vita, che cancella il sogno per sostituirlo con l’intrattenimento e l’illusione ingannevole – quello a cui partecipiamo risplende come un meccanismo che rivela crepacci umani di dolore, di solitudine, di finzioni messe in atto per sopravvivere.
Franceschi è bravo a trascinare in apparenze e poi a mostrare il lato oscuro, fuori scena, della maschera, quella parte sudata, invisibile al pubblico, a diretto contatto con il volto. Il vecchio domatore, rievocando la sua storia familiare, il rapporto con le bestie del circo, bevendo whisky, lentamente costringe la giornalista a spegnere il registratore, a riavvitare la stilografica con cui dovrebbe firmargli il cospicuo assegno promesso dal giornale per l’intervista, e a parlare di sé. Mentre la donna sta registrando dalla voce del vecchio circense il dolore per la scomparsa di un mondo, lui la mette alle corde, spingendola a rivelare la propria segreta sofferenza. Un po’ la corteggia, prendendosi pure accuse di maschilismo, venendo ripreso per gli errori, gli eccessi compiuti con il suo amore per Veronique che, sommersa di fiori e di disattenzione, lo ha abbandonato, diventando a sua volta una grande domatrice. La giornalista lo riprende, gli spiega che forse sarebbe bastato un mazzetto di mughetti e più delicatezza…
Non è lecito raccontare oltre la trama, per non svelare, a chi vedrà lo spettacolo, il suo cuore segreto. Ma non posso non registrare che qualcosa accade nel rapporto tra i due, si accende una corrente che cambia entrambi. “L’intervista non doveva prendere questa piega. Non era previsto…” si sente, mentre la malinconia, lo svelamento delle menzogne che si dicono per vivere, o almeno per sopravvivere, dilaga sotto il mezzo tendone dai toni pastello pieno di panche, sedili, attrezzi per i numeri degli animali e per quelli degli acrobati. Nella bella scena disegnata dal regista Matteo Soltanto (luci, d’atmosfera, di Luca Bronzo, begli interventi sonori e musicali di Guido Sodo), di volta in volta uno dei due personaggi prende il centro e l’altro gira intorno, sui margini, rimanendo a vista si nasconde dietro scalette e attrezzi, esce, nelle trasparenze del tendone, verso il tramonto e poi nella notte, che sarà chiara o rannuvolata o tempestosa, dice Cadabra, il domatore, che alla fine rivelerà il vero nome, Abra, e come ha dovuto truccare, per anni, la macchia rossa che l’uccisione del padre gli aveva lasciato indelebile.
Come in altri bei testi di Franceschi (il suo teatro è leggibile sul sito), come soprattutto nei suoi due capolavori, Il sorriso di Daphne (2002), e A corpo morto (2008), siamo di fronte a un delicato affondo nell’umano, nella perdita, nell’isolamento, nella fine di un mondo amato, sentito come irrecuperabile. Tutto con delicatezza. Scriveva Daniele del Giudice nell’introduzione di A corpo morto (Il Melangolo, 2009): “Il punto, nel teatro di Vittorio Franceschi, è una franchezza precisa e mite, mai gridata e invadente eppure implacabile nel narrare storie e ossessioni che superano le diversità e i contrasti e guidano progressivamente alla medietà e alla compostezza, cioè il finale autentico”. Una medietà, una pace direi piuttosto, una composizione dei contrasti raggiunta per profonda saggezza, capace di osservare le tempeste da un margine partecipato, un’accettazione non domata, che cerca di strappare fino all’ultimo bellezza e vita. In una “commedia tragica”, come definiva Il sorriso di Daphne l’autore, e come riportava Franco Quadri, il grande critico e editore, nell’introduzione al volume Ubulibri del 2007 che raccoglieva quel testo e altre due opere di Franceschi, citando dall’attore autore: “La drammaturgia contemporanea è ambigua e sfuggente, si compone e si scompone di continuo, si sottrae a ogni classificazione tradizionale”.
Così è Il domatore, in un meccanismo che non manca di conquistare. Diciamolo ancora con le parole di Quadri a proposito di Daphne: “…va rilevato che nostalgia, ironia e teatralità si intrecciano nel lavoro in maniera di volta in volta incisiva e insinuante, allusiva e forte, così da configurare un testo leggero e profondo a un tempo, apparentemente giocato soprattutto sulla superficie, ma non privo di furtive occhiate verso l’abisso dell’inesprimibile”. Da allora, mi sembra, le “occhiate” sono diventate sempre più squarci, verso il non detto e il non dicibile, verso il male di vivere, presentati sempre con delicatezza. Sono lacerazioni implacabili nel dirci che ci culliamo in molte, troppe verità illusorie, e che la vita è lotta continua contro belve feroci che proviamo ogni giorno a domare senza forse mai riuscirci: la verità, appunto, e il tempo.
Il domatore è coprodotto con il Centro Teatrale Bresciano, dove replicherà nella stagione 2022-2023.
Le fotografie che illustrano l’articolo sono di Andrea Morgillo.