In mostra a Palazzo Braschi / Mario Giacomelli. Fotografia poetica

16 Maggio 2016

Basta l'incontro con una singola immagine di Mario Giacomelli per capire di trovarsi di fronte a una fotografia poetica: ovvero, un lavoro in cui il mezzo, che è sia la macchina fotografica che la realtà che essa riprende, agisce allo scopo di esprimere qualcosa che è dentro e oltre l'immagine e il mondo da cui questa era stata attinta. Visitando la mostra La figura nera aspetta il bianco, a lui dedicata ora a Palazzo Braschi fino al 29 Maggio, si possono osservare varie serie fotografiche che richiamano un senso dello spirito originato dalla materia, da Ospizio a Lourdes, fino ai seminaristi giocondi de Io non ho mani che accarezzino il volto. La carne è qui un oggetto consumato che decade e soffre, sia per i vecchi all'ospizio che per i malati in preghiera, ma proprio dalle sue fondamenta crollate esala uno spirito di umanità, di dolcezza e rabbia che aumenta di pari passo con l'apparente crudezza delle immagini di Giacomelli: perché l'animo dei derelitti fotografati, derelitti comuni nella misura in cui tutti nella vita, invecchiando e ammalandoci, siamo destinati a diventarli, sovrasta i loro corpi come in una delle sue fotografie più famose, un bacio fra due anziani fragili il cui sentimento potente irride alla debolezza dei volti scavati dalle rughe, le schiene ingobbite e un bastone a sorreggere.

 

Non può mancare allora però nemmeno una malinconia che nasce dall'amarezza di sapere il sentire umano incastrato e infine interrotto dentro una materia fisica impietosa, immagine stessa del tempo, perché questo amore e questa tenerezza nascono e muoiono insieme ai corpi delle persone; mentre i seminaristi, uomini propriamente di spirito, nei loro giochi diventando sempre più vaghi e indistinti, macchie di nero mosse nel bianco, come impressioni rapidamente colte, e la lieve allegria catturata in forma di una sbavatura visiva ilare del tempo.

 

Fotografia di M. Giacomelli. 

 

Una fotografia poetica richiede, come ogni altro componimento dello stesso tipo, un estremo rigore linguistico: in Giacomelli questo si traduce in una precisa estetica che predilige il non accontentarsi di ciò che si crede di vedere, per interpretarlo invece in modo consapevole. Ciò si concretizza in bianchi e neri saturi e fortemente contrastati, che compongono nell'immagine forti macchie opposte e ravvicinate. Difficilmente è possibile sentire un senso del reale nel guardare ad esempio i paesaggi dall'alto, o queste figure che noi presupponiamo essere persone e che però nelle sue fotografie appaiono sagome illusorie, senza dimenticare i volti invece nitidi e comunque ricombinati dalla composizione visiva, come se le linee dei volti – soprattutto quelli invecchiati, adunchi e deformi – assumessero un altro significato. Giacomelli parte dalla realtà per scavarla concretamente, e trovare nella materia più ovvia e tangibile qualcosa che non è possibile toccare pur apparendo improvvisamente agli occhi. La frantumazione visiva che ne deriva può essere colta nelle macchie luminose, e nel contrasto oltremodo violento fra luce e ombra. 

 

 

Vedere in ciò che esiste qualcosa in più della sua trasparente e opaca esistenza significa aggiungere il sentimento e il pensiero umano alla natura indifferente, ritrovando nella realtà quotidiana un'ulteriore realtà esclusivamente umana, come qualcosa che pare sempre esistito solo nel momento in cui lo si riconosce. La poesia visiva permette alle linee, alle masse di bianchi, neri e grigi, ai volumi di sommergere l'immagine e le figure umane che contiene, sottraendole al vocabolario comune per farle parlare un nuovo linguaggio. Non sorprende dunque ritrovare nella mostra serie fotografiche esplicitamente dedicate a singole poesie (da A Silvia di Giacomo Leopardi a Io sono nessuno di Emily Dickinson), ogni fotografia intenta a proporre in immagini i versi. Giacomelli aveva detto, “È difficile definire la vera sostanza della poesia, ma se dovessi esprimermi in due parole, per me è la vita stessa. È la cosa più semplice che esista sulla terra, perché è fatta con le stesse parole che usiamo tutti i giorni” e si pensa leggendolo che il suo lavoro sia consistito proprio in questo: usare le cose comuni, che abbiamo sempre davanti a noi senza magari averne la consapevolezza – come il tempo che passa sui nostri volti e corpi –, ricomponendole per ottenerne immagini da una parte irreali, e ciò nonostante parte di qualcosa che pur meno concreto appare nell'intimo ugualmente reale e vivo.

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