Parigi batte più forte
Domenica 15 novembre, mattina
Finalmente domenica, stamattina il silenzio e le saracinesche abbassate si notano meno. È spuntato anche il sole e la grisaille è andata via, il cielo è addirittura azzurro. A non sapere niente forse gli unici segni di quanto è successo sarebbero le sirene, lievemente più rade, e le prime pagine nere o tricolori dei giornali, che ci ricordano la terreur e ci invitano a “resistere” (ma a cosa? come? mettendosi addosso il bersaglio “je suis Charlie”, tenendo aperti i negozi, sedendosi ai caffè? che senso ha questa guerra di simboli ad armi impari?).
Avevo intenzione di andare alla fiera dell’antiquariato di place de la Bastille e al mercato di boulevard Richard Lenoir, ma se anche non dovessero essere stati annullati per lo stato d’emergenza non ci andrei, la folla mi inquieta, e le veglie, i fiori, le candele, i biglietti che cominciano a spuntare sui luoghi degli attentati mi imbarazzano, non riesco ad aderire autenticamente al lutto collettivo, resto in albergo a scrivere.
Venerdì 13 novembre, rue Richard Lenoir
Venerdì sera ho svoltato nella via dell’hôtel Richard, da dove scrivo, venendo da rue de Charonne, mezz’ora prima della sparatoria al ristorante “La Belle Équipe”, che si trova all’angolo con rue Faidherbe. Giusto poco prima avevo notato un paio di poliziotti armati di mitra all’angolo tra rue de Charonne e rue Keller, avevo cercato con lo sguardo, senza trovarli, sinagoghe e ristoranti kosher, frequenti in questo arrondissement (l’11°, lo stesso della redazione di Charlie Hebdo), come del resto in tanti altri di Parigi. Lo stesso la mattina prima, tre o quattro poliziotti con i mitra spianati, di quelli che in Italia presidiano i luoghi ebraici e che qui, da quando c’è l’“alerte attentat”, cioè da gennaio, presidiano tutto, tutto e quindi niente (all’arrivo, a Charles de Gaulle, vedendo i militari andare su e giù, tutti imbacuccati e armati fino ai denti, mi era venuto un pensiero un po’ volgare sull’uso che i terroristi avrebbero potuto fare di questo “plan Vigipirate”, che impedisce tante cose – per esempio l’ingresso alla Bibliothèque nationale con zaini di grandi dimensioni e bagagli – delle quali i terroristi possono fare tranquillamente a meno). Arrivata in albergo, mi sono messa come ogni sera alla “reception” a mandare mail, cioè su una panca a pochi metri dal portone, sempre aperto. Colpi di kalashnikov, li riconosco immediatamente, sono uguali a quelli che ho sentito a gennaio guardando il video dell’uccisione del poliziotto Ahmed Merabet.
Mi alzo, davanti le scale che portano alla camera, a destra il portone spalancato. Parlo con l’uomo della reception, cos’è stato? Non oso dire fusillade, e per un po’ mi sento ridicola, ho pensato così tanto in questi anni – dalla strage nella scuola di Beslan molto più che dall’holliwoodiano attacco alle Torri Gemelle – al terrorismo che adesso, suggestionata dalla vicinanza alla redazione di Charlie, sento i colpi di kalashnikov. L’uomo della reception pensa a dei petardi, lo dice senza convinzione, io ai clienti che scendono e mi chiedono cosa sia successo do la sua versione, ancora meno convinta. È probabilmente un francese di origine maghrebina, forse algerina (non è significativo, ma assomiglia tantissimo a Khaled, il dentista algerino che qualche anno fa occupava l’appartamento accanto al mio, une prison, come la definiva lui, di 7 metri quadrati), parla arabo con alcuni clienti. L’hôtel Richard – il più economico di Parigi, 30 euro a notte, un postaccio secondo i recensori di Booking – sembra gestito da ebrei ortodossi (all’arrivo mi accoglie un uomo con la kippah, sullo stipite c’è una mezuzah). Ci affacciamo al portone, c’è gente che scappa in fondo alla via, all’angolo con rue de Charonne, un autobus inchioda a poche decine di metri da noi, apre le porte per far uscire la gente, che corre fuori. Qualcuno entra in albergo, turisti orientali, poi due donne con il velo che hanno prenotato all’hotel Richard e che si mettono a parlare arabo con l’uomo della reception. Dopo aver chiamato i miei in Italia per rassicurarli (forse una rapina, dico, ma i colpi erano fortissimi e non finivano mai, e cosa c’è da rapinare, poi, in questo scassatissimo quartiere?), esco dal portone di pochi metri, chiedo notizie, comincio a sentire “fusillade”, e ancora spero nella rapina.
Le notizie mi arriveranno mezz’ora dopo dall’Italia, mentre sono in camera e cominciano a sentirsi le sirene, che smetteranno solo poco dopo le 2. Torno giù, il portone è, forse per la prima volta nella storia dell’hotel Richard, chiuso. Mi collego, do le notizie a un ragazzo colombiano musulmano (glielo chiedo due volte, sì, è colombiano e musulmano, e infatti dice che in Colombia in pratica non ci sono musulmani). Quando gli dico che si tratta di terroristi islamisti mi dice appunto di essere musulmano e mi giura che lui non farebbe mai una cosa simile (questo è stato l’unico momento in cui mi è venuto da piangere). La serata per me finisce poco dopo le 2, quando le sirene si diradano, e con la testa piena dei dettagli raccapriccianti che poco a poco emergono sugli attentati vado a letto. Dopo aver spento la luce mi sento in pericolo anche in hotel, in questo albergo pieno di ebrei, arabi, africani, orientali, un colombiano, un americano… aperto sulla strada, con un portone che si chiude male, una scaletta di legno mezzo marcio che porta alle camere e nessuna via di fuga.
Salendo, la prima sera, ho pensato con moderata preoccupazione all’eventualità di un incendio, adesso, dopo aver saputo degli ostaggi del Bataclan, ho paura, e si fa strada il pensiero che ho tenuto a bada per qualche ora e che mi porterà, il giorno dopo, a camminare per tutta Parigi, allontandomi il più possibile da questa potenziale trappola: nessun posto pubblico è sicuro. Certo lo sono meno quelli con la scritta “Je suis Charlie”, come il Bataclan, ma questi attentati sono radicalmente diversi da quelli di gennaio, hanno voluto colpire tutti (musulmani inclusi, ovviamente), à l’aveugle, nessun vignettista blasfemo, nessuno dei moltissimi luoghi ebraici, certo forse molti giovani privilegiati, borghesi “bohémiens” (per questo la scelta è ricaduta sull’11°?), ma in fondo la logica sembra puramente quantitativa, ammazzare più gente possibile, cosa che a noi toglie ogni logica precauzionale e ogni difesa. Passando dal Marais, la prima sera, ho preso un falafel al volo, ho preferito mangiarmelo camminando in rue de Rivoli invece che sedermi in uno dei ristoranti di rue des Rosiers, anche “per prudenza”.
Ecco, da venerdì sera l’unica prudenza possibile è inaccettabile, significa evitare tutti i luoghi pubblici, di più: chiudersi in casa, perché nessuna strada è più sicura. Mi chiedo come sarebbero stati gli anni in cui venivo a Parigi per mesi interi, per le stesse ragioni di ora, cioè per vedere i manoscritti medievali italiani conservati alla Bibliothèque nationale, e mi sento fortunata, mi sono goduta Parigi girandola in lungo e in largo con il solo pensiero di conoscerla il più possibile. Tutto tornerà normale, io stessa se tornassi a vivere qui prenderei la metro, andrei al cinema e al ristorante, non è vero che “niente sarà più come prima”, tutto sarà come prima, tranne la spensieratezza, che non ci sarà più, se non a momenti, come quando al risveglio capita di dimenticarsi per qualche secondo delle disgrazie in cui siamo stati immersi fino a poche ore prima.
Sabato 14 novembre
11° arrondissement
La giornata comincia più tardi del solito, verso le 9 (non ho puntato la sveglia, la biblioteca sarà certamente chiusa). Rue Richard Lenoir è insolitamente silenziosa, a poche decine di metri dall’hotel c’è un posto di blocco della polizia che impedisce ad auto e pedoni di arrivare fino all’incrocio con rue de Charonne (ancora non so esattamente dove si trovi “La Belle équipe”, un po’ perché l’assalto al Bataclan e le esplosioni fuori dallo Stade de France hanno oscurato la sparatoria, meno spettacolare, un po’ perché ho evitato di informarmi troppo). Mi attacco al computer e continuo a rimandare l’uscita. Poi verso le 10 varco finalmente la soglia ed esco guardando a destra e a sinistra. A due metri dal portone c’è un caffè così piccolo e vuoto che mi fido ed entro a prendere un caffè. Poi mi avvio verso il posto di blocco, ma un uomo fermo sul marciapiede, forse un poliziotto in borghese, mi fa notare che nemmeno i pedoni possono passare, e sbuco in boulevard Voltaire (già, Voltaire) da una viuzza laterale. Poche macchine, pochissime persone, di conseguenza silenzio. In realtà noterò dopo che il silenzio è dato anche dal fatto che quelle poche persone che ci sono non parlano, e quelle che parlano lo fanno a voce piuttosto bassa, e non ridono.
Il bilancio di quasi otto ore di cammino per Parigi, attraverso 11°, 3°, 2°, 1°, 7°, 16°, 15°, 14°, 6°, 5° e 4° arrondissement, è di un uomo che ride (in modo composto, ma mi sorprendo a guardarlo male), seduto al tavolo di un piccolo locale di boulevard Voltaire, e di due persone che corrono (probabilmente verso un autobus, ma prima di capirlo mi spavento). Pochissimi mangiano (i tavoli dei ristoranti e dei caffè sono quasi interamente vuoti), me ne accorgo quando lo faccio io, cioè quando butto giù frettolosamente, camminando, un paio di dolci presi in una boulangerie. Nessuno che mangi una crêpe, un kebab, evidentemente i pochi che sono in strada lo fanno solo per necessità, come hanno raccomandato di fare. Ogni tanto si vede un bambino, due in particolare mi colpiscono, due che mi sembrano ulteriormente esposti, ancora più fragili: in rue du Temple, vicino al Marais, il quartiere ebraico e gay di Parigi, un uomo con la kippah porta in giro due bambini che stanno a malapena in piedi. Anche la vista dei bambini oggi è strana, ne conto mentalmente altri tre: uno in bicicletta in rue Saint-Sauveur e due che giocano a calcio, soli, davanti ai cancelli chiusi della Faculté des Sciences, a due passi dall’Institut du Monde Arabe, chiuso; l’ultimo l’ho visto solo in foto: è il bambino in monopattino illuminato dai fari della macchina della polizia che entra a tutta velocità e a sirene spiegate in boulevard Henri IV, a sud della Bastiglia. Fanno più tenerezza del solito, una tenerezza venata di pena. Mon Dieu comme les choses existent fort aujourd’hui, mi viene in mente questa frase, e più che le cose oggi esistono più del solito le persone, oggi a Parigi ci si guarda, e nel senso peggiore, io almeno guardo le persone, le loro mani soprattutto, oltre alle macchine e alle moto, per cercare di capire se possono essere pericolose.
Certo mi sento paranoica, certamente lo sono (di solito, peraltro, guardo per terra o per aria e non bado a nessuno), ma non sono l’unica. Verso sera in rue de Charonne un uomo davanti a me, orientale, forse un turista, si ferma all’improvviso, incerto, mi lascia passare, poi prosegue dietro di me rallentando il passo: ha davanti un uomo di colore, in sandali e djellaba. È un caso? Sono io che interpreto male e attribuisco a lui timori miei? Siamo tutti? Non si sa, nessuno parla e nessuno certo avrebbe il coraggio di dire che ha paura dell’uomo nero, in questa città piena di tutto, anche di tuniche tradizionali e di barbe. E non ci sono solo i simboli religiosi di musulmani e ebrei, che ovviamente nulla hanno a che vedere con l’integralismo religioso; me le ricordo bene le bandiere con i cuori neri trafitti da croci e i mantelli rossocrociati dei cattolici “tradizionalisti” che nell’autunno 2011 manifestavano qui a Parigi – con la disapprovazione degli stessi vescovi francesi – contro la pièce ritenuta blasfema Golgota Picnic, rappresentata in mezza Europa in tutta tranquillità, e mi ricordo di aver pensato anche a Voltaire e di aver attribuito anche a lui il fatto che quei violenti avessero nelle mani uova e non bombe.
Esco dall’hôtel Richard con l’intenzione di stare fuori dieci minuti, il tempo di prendere i giornali e di comprare da mangiare anche per i giorni successivi, convinta di restare chiusa in albergo fino al volo, martedì sera. Presi i giornali al chiosco all’angolo con rue de la Roquette (l’edicolante ha letteralmente nascosto Charlie Hebdo, fino alla mattina prima ben visibile, e me lo allunga avvolgendolo con cura negli altri) – li sfoglierò appena su una panchina di place de la République, evitando i dettagli più cruenti e le raccomandazioni allarmistiche – individuo un ristorante vietnamita aperto in cui mi immagino di prendere cibo da asporto per i restanti quattro giorni e torno verso l’albergo. Vedo gente che scatta foto al posto di blocco, anch’io ho con me la macchina fotografica, ma non penso nemmeno per un istante di tirarla fuori, mi disgusta il voyeurismo dell’orrore. Eppure torno indietro, all’improvviso sento che ho bisogno di camminare, all’inizio penso di arrivare fino a place Léon Blum e di tornare indietro, giusto per questo bisogno di sfogo (sento che muovere le gambe mi fa bene e che più cammino meno ho paura), poi decido di percorrere tutto il boulevard, fino al 50, cioè fino al Bataclan. Le saracinesche sono per lo più abbassate, la spazzatura trabocca da cestini e cassonetti. Il Bataclan ovviamente è circondato dalla polizia e al di là delle transenne ci sono i giornalisti (capto una frase, in italiano, “siamo in guerra”, bella scoperta) e qualche curioso che scatta delle foto, come me (orrore! lo faccio con la massima discrezione possibile, vergognandomi per il cattivo gusto, per la mancanza di pudore, ma lo faccio anch’io). Ho voglia di camminare ancora, adesso sento di voler andare alla redazione di Charlie Hebdo (come qualche sera fa, di ritorno a Parigi dopo tre anni), un simbolo, ma in rue Amelot, invece di scendere verso la Bastiglia, salgo verso place de la République, un simbolo meno macabro.
Fa impressione vederla quasi vuota (l’ultima volta che ci ho messo piede è stato nel marzo 2009 e c’erano migliaia di persone che manifestavano, se non ricordo male contro Sarkozy, un tempo lontanissimo), con la Marianna circondata di poliziotti e quella scritta sul basamento, non so se comparsa nella notte e interrotta dal sopraggiungere della polizia, Tu ne tueras pas… e sopra, un po’ più in là, un più urbano striscione con l’ennesima variante di Je suis Charlie: J’être humain. Ripenso a gennaio, a chi criticava la retorica di quegli slogan, diventati presto insopportabili tormentoni social. Tutto sommato le critiche mi sembravano anche insopportabili snobbismi: una volta che qualcosa ci unisce, pensavo, non facciamo gli schizzinosi, non possiamo permetterci il lusso dell’anticonformismo in questi giorni in cui conformarsi significa anche unirsi, l’unica arma contro i terroristi e contro i razzisti. Eppure oggi tutti quei cartelli, quelle matitone, quei capi di stato che c’erano qui, in questa piazza, una decina di mesi fa, mi sembrano puerili, e non lo penso con disprezzo, ma con pena, la mano che ha tracciato quella scritta oggi mi pare tremolante, mi chiedo se ci sarà un’altra manifestazione – sì, certo, ci sarà – ma mi sembra già di sentire le voci più fioche: è la nostra “risposta”, ma il fatto che non ci sia nessun dialogo la rende debole nonostante le migliaia di persone che torneranno in questa piazza. Io stessa ieri sera ho avuto voglia di una piazza (non mi capitava da anni), ho provato rabbia più che paura, ma questa sensazione di insensatezza, di parlare con un muro di proclami e contraddizioni indebolisce, oggi mi sento debole, e non perché sono vulnerabile, perché l’unica arma che abbiamo, le parole, è un’arma spuntata, parliamo a dei sordi. Certo ha ancora senso la cultura, l’educazione, ma solo per prevenire questo male, perché dopo non ci sono che questi poliziotti, questi militari pesantemente armati, l’intelligence, i metal detector, i full-body scanner, i blitz, la tecnica, che non controlliamo e alla quale dobbiamo affidarci come bambini.
Mi siedo su una panchina poco distante, mentre cancello dalla macchina fotografica le foto di un manoscritto per far posto a questo sabato parigino che ormai ho deciso di conoscere e ricordare. Un ragazzo di colore mi si avvicina per chiedermi soldi, ma non lo capisco subito, è un po’ confuso, forse drogato, gli rispondo con il cuore in gola, tutti oggi sono pericolosi. Esagero? Di sicuro, ci saranno anche persone che si comportano normalmente oggi e forse questi volti smarriti e tesi sono i soliti volti che di solito non guardo perché sono troppo concentrata su di me, eppure sembra – a me sembra – che a tutti ci sia morto qualcuno.
Mi do un altro obiettivo simbolico, ma mi viene anche il dubbio che dietro tutti questi simboli ci sia solo la paura di rientrare in un albergo che potrebbe trasformarsi in una trappola, sento che l’aria fredda e la fatica di questo cammino a piedi (mi sono data due regole: niente mezzi pubblici e niente esercizi commerciali troppo grandi: continuo a pensare all’attacco “del giorno dopo” (o quasi) all’Hyper Cacher della porte de Vincennes) mi fanno bene, mentre l’idea di chiudermi in stanza oggi mi dà una lieve claustrofobia, mai provata.
3° arrondissement
Prendo rue du Temple, ma non scendo fino al Marais, oggi è shabbat, troverei tutto chiuso anche in un giorno normale. E che oggi sia un giorno del tutto anomalo per Parigi lo si capisce da quanto si assomigliano strade di solito diversissime. E che la varietà dei quartieri parigini dipenda molto più dalle persone che li animano che dagli elementi architettonici me ne accorgo solo oggi che Parigi mi sembra tutta tristemente uguale, vuota, piena di sirene (comincio a distinguere quelle delle ambulanze da quelle, più preoccupanti, della polizia, comincio a saper calcolare la distanza e la direzione del movimento, e tutto questo acutizzarsi un po’ animalesco dei sensi in me che non mi accorgo mai di nulla mi fa impressione, mi sa davvero di “guerra”, per quella scarsa esperienza cinematografica e letteraria che ho della guerra). I marciapiedi sono mezzi vuoti ovunque (solo in rue Montorgueil c’è un po’ di gente, probabilmente turisti irriducibili), e così gli autobus. Mi colpiscono le librerie (non solo quelle esclusive del centro, come la Librairie Compagnie, di fronte alla Sorbona, anche le più piccole e sgangherate): pur non potendo fare un ragionamento statistico mi sembra che siano mediamente più aperte degli altri negozi. Ne hanno fatto una questione di principio? Siamo davvero in una foresta di simboli?
2° arrondissement
Le macchine della polizia sono ovunque, per esempio in place des Victoires. Mangio in cinque minuti camminando verso la biblioteca, “Richelieu” (ma da anni, per lavori, l’ingresso è in rue Vivienne), ovviamente chiusa. Il mio programma di lavoro è saltato completamente, sarà un giorno di vacanza forzata, anche perché mi sento completamente deconcentrata, all’improvviso non avverto più l’urgenza delle scadenze, è cambiata anche la percezione del tempo, da ieri sera mi sembrano passate decine e decine di ore, e il futuro? Al Louvre c’è una mostra intitolata Une brève histoire de l’avenir, ecco cos’è successo, è come se il futuro si fosse accorciato, con la mente non vado oltre martedì sera, quando tornerò in Italia, niente più date di consegna, lavori da finire, tutto sospeso.
Vicino alla biblioteca una lapide commemora i resistenti del 2° arrondissement, caduti, armi in pugno, per la liberazione della città. Il pensiero va subito ai caduti di ieri, così diversi, gli uni e gli altri, da questi partigiani. Eroi, vittime, martiri, mi si affollano in testa tutti questi termini spesso confusi e fraintesi, e provo un senso di smarrimento.
1° arrondissement
Attraverso rue des Petits Champs, di solito trafficatissima, ed entro al Palais Royal, esattamente come 24 ore prima, quando con in mano il cibo africano comprato al mercato di place de la Bourse (uno splendido mercato con specialità asiatiche, bretoni, marocchine e antillano-africane) ho faticato a trovare posto, nonostante il freddo. Oggi panchine e sedie sono quasi tutte vuote. Poco dopo l’ingresso mi fermano due ragazze, mi chiedono in inglese di fargli una foto: posa melensa e smancerie varie (imbarazzo, e non certo perché si tratta di una coppia omosessuale), gli attentati per loro sembrano non esistere, ma chissà cosa nascondono quelle facce americane sorridenti. Anche all’hôtel Richard c’è un ragazzo americano, che sembra confermare tutti gli stereotipi negativi sugli americani. Sento che all’uomo della reception, sempre il francese che parla arabo e che evidentemente è musulmano, dice “Islam”, con un’aria interrogativa mi pare completamente priva, oltre che di consapevolezza (parla dei terroristi come se fossero i cattivi di un film di fantascienza, probabilmente gli mancano tutte le coordinate), di acredine. Lo capisco dall’aria sinceramente meravigliata con cui ascolta e alla fine ringrazia con un largo sorriso l’uomo della reception, che gli tiene due brevi lezioni, una su Parigi e l’altra sull’Islam, molto simili ed entrambe chiare e impeccabili. Gli dice che a Parigi c’è di tutto, e così nell’Islam, sento “l’Islam è grande”, e non nel senso odioso di quella frasetta che tutti abbiamo a forza imparato. Vuole dire appunto che nelle religioni e nelle città con milioni di persone c’è di tutto e, implicitamente, che c’è una distanza abissale tra i terroristi e i musulmani come lui.
Proseguo verso il Louvre. Dove sto andando? Me lo chiedo anch’io, forse verso la Tour Eiffel, voglio vedere un po’ di turisti. Penso sempre ogni male dei turisti, con il loro passo indolente quando solo soli o in coppia e prepotente quando sono in gruppo, i selfie, e tutto il resto, e oggi li trovo particolarmente insopportabili, trasudano determinazione, niente al mondo può fargli sprecare il viaggio a Parigi, la mentalità è, probabilmente, quantitativa, tot monumenti, tot foto, tot soldi. Questi che incontro, almeno, mi sembrano così, gli orientali che stamattina hanno lasciato l’hôtel Richard in fretta e furia, con bambini e bagagli, in taxi, forse sono rimasti profondamente turbati dagli attentati, chissà.
Due militari fanno la ronda davanti alla piramide, nella Cour Napoléon. Svolto a destra, per la prima volta vedo la boulangerie ambulante della catena Paul chiusa, oltrepasso la place du Carrousel e costeggio les Tuileries, chiuse come gli altri parchi e cimiteri pubblici per cui passerò dopo, il Luxembourg e il cimitero di Montparnasse. Ancora più impressionante è il vuoto del quai des Tuileries, di solito pieno di macchine, e di place de la Concorde. In compenso ci sono molti furgoni della polizia, con sirene sempre accese che danno a questo deserto una straniante colonna sonora.
7° arrondissement
Attraverso il pont de la Concorde e mi ritrovo davanti all’Assemblée Nationale. I soliti militari con il mitra, ormai una presenza quasi familiare. M’incammino lungo il quai d’Orsay e arrivo all’Hôtel des Invalides. O meglio, lo vedo da lontano, mi basta guardare due turisti che si fotografano in pose assurde per svoltare in rue de l’Université. Voglio andare fino alla Tour Eiffel, certamente chiusa, attraversare il parco antistante, passare dall’École Militaire e arrivare a Montparnasse, il quartiere che conosco meglio e a cui sono più affezionata. Ma capita un imprevisto. Ricevo una chiamata dall’Italia, vengo a sapere che una macchina piena di uomini pesantemente armati ha sfondato un cordone di polizia a sud della città e sta girando per le strade di Parigi. Non sono collegata (ho un vecchio cellulare senza rete) e non riesco ad avere ulteriori notizie. Mi convinco che siano diretti proprio alla Tour Eiffel e per la prima volta da quando sono fuori ho paura e mi pento di essere uscita dall’albergo, mi sento temeraria, stupida. Da qui in poi tutto cambia, non cammino più per esplorare, con la giustificazione che oggi non si è sicuri da nessuna parte e che restare in un albergo dell’11° arrondissement potrebbe addirittura essere più pericoloso che muoversi continuamente (mi sono fermata solo sulla panchina di place de la République, ai semafori e nella boulangerie del 2° arrondissement), ma per mettermi in salvo.
16° arrondissement
Cammino ancora più veloce, smetto di scattare foto e divento poco lucida, ho paura delle strade per la storia della macchina in fuga e continuo a cambiare idea sul percorso: a volte mi pare che i viali siano più pericolosi delle vie secondarie, altre volte l’esatto opposto, il fatto è che non ho nessun elemento di valutazione. Imparo che la paura va e viene, a ondate, senza ragione. Sarà così fino a sera, fino all’arrivo in albergo. Aiutata forse dalla stanchezza passo momenti di totale tranquillità, in cui senza alcun motivo mi sento al sicuro, e sempre senza ragione torna il senso di minaccia imminente.
Quel che è certo è che devo allontanarmi dalla Tour Eiffel, attraverso il pont de l’Alma e decido di andare da madame Najoua, la proprietaria della casa che ho affittato quattro anni fa, quando ho abitato qui per un anno. Abita nel 16°, l’odioso e noioso arrondissement dei ricchi, carissimo, rigorosamente bianco, senza cinema né teatri, con pochi ristoranti e pochissime persone in giro, morto e silenzioso tutto l’anno, indipendentemente da tutto, un quartiere isolato dal resto della città, forse l’unico di Parigi in cui il 14 novembre 2015 è stato un giorno indistinguibile da tutti gli altri (anche per questo non scatto foto alle strade deserte). Per arrivare alla casa, un bâtiment ancien sulla Senna, a due passi dal boulevard périphérique, in una parte dell’arrondissement molto meno snob di Passy, La Muette, Ranelagh, devo fare tantissimi altri chilometri e rischio di farli invano perché sono passati più di tre anni e non ho mantenuto nessun contatto con madame Najoua, che allora trascorreva interminabili vacanze in Turchia. Madame Najoua è una francese di origini “libanesi-siriano-turche”, come teneva a precisare sempre lei, sposata a un francese di origini polacche e ebraiche, che per mesi ha salito le scale che dividevano il suo magnifico appartamento sulla Senna dalla chambre de bonne che mi aveva affittato, per portarmi – io credo per un misto di ospitalità e diffidenza (passava tutta la giornata, fino a notte fonda, davanti al televisore o ai fornelli, non credo sia mai riuscita a capire la ragione per cui ero a Parigi) – hummus, montone con le prugne e altre prelibatezze libanesi-siriano-turche piene di cumino che mi hanno deliziato per mesi e per un po’ mi hanno (sciaguratamente, vista la gastrite, terribile, che ne è seguita) indotto a mettere cumino ovunque, anche nelle uova strapazzate e nella pasta al sugo.
Quando sono tornata in Italia la guerra in Siria era scoppiata da pochi mesi, non aveva ancora toccato Aleppo, la città della sua famiglia, e in questi anni non ho mai trovato il coraggio di scriverle. Nel 16° mi sento relativamente al sicuro, come sempre non c’è in giro anima viva, ma superato il Palais de Tokio mi ritrovo ancora in un posto pericoloso, Trocadéro, al di là del Pont d’Iéna la temuta torre. Accelero, e all’altezza di Radio France, un nuovo timore si aggiunge ai precedenti: non più solo attentatori in macchina e kamikaze, ma bombe (ci sono cestini della spazzatura e auto posteggiate ovunque, la sicurezza è una chimera). Ma più mi allontano da Radio France più mi tranquillizzo, ritrovo il mortorio familiare, e oggi rassicurante, dell’arrondissement in cui ho vissuto quando Hollande ha vinto le elezioni, e tutti siamo andati a festeggiare alla Bastille. È stato il 6 maggio 2012, un secolo fa. Mi ricordo la sgradevolissima discussione che ho avuto il giorno dopo con un panettiere di rue Chardon Lagache, elettore del Front National. Chissà che bestialità starà dicendo e pensando oggi, simili a quelle che si sono lette in Italia. Svolto in boulevard Exelmans e sono arrivata (penso di chiedere ospitalità per la notte, da qui l’11° mi sembra ancora più pericoloso, oltre che lontanissimo), ma c’è un altro imprevisto, anzi due: la notizia della macchina, mi dicono ancora dall’Italia, è probabilmente falsa, e al posto del citofono, come nella maggior parte delle case parigine, c’è un apparecchio su cui bisogna digitare un codice numerico, e come sempre questa casa sembra disabitata. Aspetto poco, anche perché pur essendo solo le tre del pomeriggio il cielo grigio si sta facendo buio.
15° arrondissement
Attraverso il pont du Garigliano e sono così stanca che infrango una delle due regole che mi ero data: prendo un mezzo pubblico, il tram T2, che attraversa tutta la parte meridionale della città, poco più a nord del boulevard périphérique, e arriva fino al 13° arrondissement, il quartiere orientale, quello della Bibliothèque nationale de France François Mitterand, con la sua esplanade sopraelevata, le quattro torri e le sale di lettura infossate all’altezza della Senna, un luogo culto per alcuni miei compagni di dottorato, per me un posto alienante, deprimente (mille volte meglio la sede di rue de Richelieu), ma va detto che io associo ancora Parigi a Édith Piaf e Juliette Greco. Il T2 è quasi completamente vuoto come tutti i mezzi di superficie che ho visto oggi (mi affaccerò anche, all’ora di punta, alla fermata della metro di Bastille, deserta). Ma l’effetto della stanchezza dura poco, una fermata, anzi meno, perché mi pento già dopo pochi secondi, ma le porte sono ormai chiuse. Scendo a Balard e taglio il 15° arrondissement, diretta a Montparnasse. Riprendo a fotografare, ma lo spettacolo è sempre uguale, strade deserte e negozi chiusi.
14° arrondissement
Sbuco oltre il tunnel di rue de Vouillé e mi ritrovo in rue d’Alésia, mano a mano che cresce la familiarità con i luoghi mi sento meglio. Arrivo al cimitero di Montparnasse, lo attraverso senza entrare, percorrendo rue Émile Richard, e mi ritrovo in boulevard Edgar Quinet. Potrei allungare di poche decine di metri e tornare nelle vie dove ho vissuto, ospite di una signora milanese e di una ragazza algerina, ma oggi non sono in vena, mi sento in lutto, non ho voglia di niente.
6° arrondissement
Faccio un breve tratto di boulevard Montparnasse e comincio il lunghissimo e altrettanto familiare boulevard Saint-Michel, che costeggia lo splendido Jardin du Luxembourg. Anche il 6° è un arrondissement molto caro, pieno di residenti illustri, ma è bellissimo, anche se di una bellezza molto algida e oggi estremamente tetra.
5° arrondissement
Percorro tutto il boulevard, semideserto, e svolto in rue Soufflot, la via del Panthéon. Gli ultimi luoghi simbolo del percorso sono la Sorbona e il Collège de France, ovviamente chiusi. Mi hanno sempre suscitato un filo di antipatia, così come la Librairie Compagnie. Solo ieri sera, quando per fortuna non sono entrata a perdere quella mezz’ora che mi ha diviso dalla sparatoria, davanti alla vetrina ho pensato con fastidio alla supponenza degli ambienti intellettuali parigini, in fondo provinciali, attardati. Stasera, invece, tutto è sospeso, mi vengono in mente parole come solidarietà, pietà, ma forse è solo spossatezza, ieri sera siamo tutti invecchiati di colpo, ci hanno come abbreviato il futuro e ce l’hanno reso più “biologico”, saremo vivi domani? Pensavo di ripassare dal ristorante tibetano-himalaiano di rue Saint-Jacques, che con la sua cucina non proprio eccezionale e il suo rapidissimo servizio forse mi ha salvato la vita (certo non potrò andare avanti a lungo a ricostruire il 13 novembre in cerca di tutte le scelte futili che avrebbero potuto essermi letali, ma oggi non riesco a fare altro) e invece proseguo per rue des Écoles, voglio andare in un posto che mi è restato nel cuore per la sua bellezza: l’Institut du Monde Arabe, ovviamente chiuso. Uno degli uomini che lo presidiano, in borghese, mi guarda mentre scatto la foto, ricambio con sguardo mansueto da turista (in fondo non sono mai stata niente di diverso).
4° arrondissement
Attraverso il pont de Sully, che taglia la punta dell’Île Saint-Louis, e mi ritrovo – me n’ero dimenticata – davanti a un’altra sede (chiusa) della Bibliothèque nationale, quella dell’Arsenal, che conserva tra l’altro uno dei manoscritti che sono venuta a vedere. Al semaforo faccio un balzo indietro, ho preso il rumore della metropolitana per colpi di kalashnikov (mi andrà via quel suono dalle orecchie?).
11° arrondissement
Ormai sono arrivata, sono in place de la Bastille, solo due sere prima piena di gente che ascoltava un gruppo musicale, e di macchine, di autobus, di vita. I tendoni del mercato dell’antiquariato sono inaccessibili e il cartello ne pas stationner che penso sia spuntato oggi mi fa credere che la ragione sia sempre la stessa, anche se l’ora comincia a essere tarda, sono quasi le 6. Rifaccio la strada di ieri sera, rue du faubourg Saint-Antoine e rue de Charonne. Arrivo sul luogo della strage, affollato, pieno di fiori, di gente che scatta fotografie, di giornalisti e ovviamente di polizia. Un volantino scritto a mano, attaccato a un cartello, dice che Paris bat + fort e anche se non c’entra niente mi viene in mente la Parigi della Valse à mille temps di Jacques Brel, Et Paris qui bat la mesure / Paris qui mesure notre émoi. Non è questione di essere nostalgici, è che “è nostalgia di futuro che ci estenua”.