Let's Love

30 Novembre 2015

Dico “exposer” a proposito di una mostra d’arte a Parigi. Dico “exposer” ma la mia amica capisce “exploser”. Esposizione/esplosione: in italiano sono meno omofoni che in francese, dove tra i due si glissa giusto una elle. Può essere colpa della mia pronuncia difettosa, dei lavori in corso sulla facciata del palazzo adiacente, del vicino che sposta il tavolo accanto per passare perché sulle terrasse dei café lo spazio è millimetrico, di una banale interferenza nella trasmissione di un segnale tra mittente e destinatario, della distanza tra la mia bocca e le sue orecchie.

 

Può essere. Ma sappiamo bene che non è così, che non si tratta di una variante del duetto tra Armstrong e Fitzgerald: “You like poteto and I like potato / You like tometo and I like tomato”. Io dico “exposition” e tu dici “explosion”? No, perché ogni volta che dirò “exposer” penseremo a “exploser”, perché sentiremo a lungo “explosion” dietro “exposition”, perché continueremo a parlare di esplosione anche quando parleremo di altro. Non un lapsus o un’allucinazione ma il sintomo di quanto accade oggi nelle nostre vite interiori.

 

Laurent Grasso, Projection, 2005

 

Nell’“exposition” percepiamo l’atto di esporci – come ci esponiamo ai raggi X o alla pioggia – la condizione rischiosa dell’esposizione, lontana dalla tutela delle opere d’arte nei musei. Teche di vetro, parapetti, cordoni di sicurezza, allarmi, dispositivi termici, sensori a infrarossi, telecamere a circuito chiuso, centri remoti di monitoraggio, guardiani che presidiano le sale. Un sistema tecnologicamente impeccabile che previene umidità, parassiti, usura, incendi, deflagrazioni, furti, atti vandalici, effrazioni.

 

E noi altri? Noi altri, in questi giorni, ci sforziamo di condurre una vita normale, di sederci ai tavoli dei caffè o ascoltare musica rock come fossero atti di resistenza, di restare in giro “entre chien et loup” ovvero al cader della sera, di non cambiare le nostre abitudini quotidiane. Cambiarle, continuiamo ad apostrofarci per mail e per telefono, vorrebbe dire darla vinta a chi ci vuole impaurire ed eliminare. Eppure siamo un po’ smarriti, perché non siamo abituati a vivere sotto la minaccia di un improvviso scoppio di violenza, perché gli unici colpi di pistola che avevamo sentito erano quelli diffusi dai sistemi dolby delle sale cinematografiche, perché non ci riconosciamo nelle parole belliche dei politici.

 

Come un fluido invisibile, la vita politica penetra nell’intimità della nostra vita notturna, sui nostri immacolati schermi mentali, morbidi come cuscini, sui quali proiettiamo i nostri sogni. Ripenso a Reenactment (2000), il video dove Francys Alys gira con una pistola Beretta 9mm nella mano destra per le strade di Città del Messico in pieno giorno prima di essere fermato, undici minuti dopo, dalla polizia. Ripenso a quella nuvola che avanza per le strade deserte di Parigi e copre le macchine parcheggiate quanto le insegne dei negozi in Projection (2005) di Laurent Grasso. Ripenso persino a Air de Paris (1919) di Marcel Duchamp che, dietro l’apparente neutralità dell’ampolla farmaceutica, evoca la diffusione delle maschere a gas durante la Prima guerra mondiale.

 

Francis Alys, Reenactment, 2000

 

Le risorse umane del mio ufficio diffondono un messaggio del ministero della cultura e della comunicazione, che ha attivato una “cellule psychologique d’urgence”. L’anfiteatro della Sorbona organizza una cerimonia di commemorazione per gli studenti scomparsi, tra cui la nostra Valeria: alcuni erano regolarmente iscritti, altri avevano appena ottenuto il diploma. Restiamo in allerta, gatti con le orecchie tese che reagiscono a ogni schiamazzo, a ogni strepito, a una voce che si alza dalla folla, a un movimento inconsulto, alla presenza dei nostri vicini. Ogni brusio può farsi onda d’urto. Negli spazi al chiuso registriamo invece uscite di sicurezza e vie di fuga. Reagiamo ai segnali che ci mandiamo l’uno con l’altro, a quello che passa nell’intervallo tra ciascuno di noi, a quello spazio che ci divide e che ci mette in relazione. Abbiamo bisogno d’incontrarci, di riconoscerci, di contarci fino a perdere il conto. Sappiamo di essere numerosi, ma ci serve una conferma quotidiana, anzi più conferme diverse volte al giorno, ogni volta che entriamo in contatto con qualcuno, sui luoghi di lavoro o di svago, nei negozi o sui trasporti.

 

È tutto un ci sentiamo ci scriviamo ci vediamo ci abbracciamo. E in effetti ci sentiamo ci scriviamo ci vediamo ci abbracciamo, con un’euforia che ricorda i giovani di Tel Aviv. Certo, Parigi fine 2015 non è la Festa mobile che era negli anni Venti, non lo è al punto che il romanzo di Hemingway – in francese tradotto con Paris est une fête – non vende più le solite 10 copie giornaliere ma 1500. Impossibile trovarne uno negli scaffali delle librerie. Non ho mai finito di leggere questo libro: al suo interno trovo un biglietto della metro con un numero di telefono al capitolo “The Man Who Was Marked for Death”, in riferimento a un poeta irlandese amico di Ezra Pound. Ora rileggo l’esergo: “If you are lucky enough to have lived in Paris as a young man, then wherever you go for the rest of your life, it stays with you, for Paris is a moveable feast”. E rileggo l’ultimo capitolo “There Is Never Any End to Paris”. Li rileggo e li riscrivo mentalmente, aggiungendo capitoli che portano il nome di altri luoghi e persone.

 

Parigi non è una festa mobile ma è un’invisibile, perpetua e silenziosa manifestazione. Ci esponiamo da quel venerdì sera, così come abbiamo manifestato per Charlie Hebdo paralizzando calorosamente la città. Solo che ora ci esponiamo ogni mattina appena chiudiamo l’uscio di casa e scendiamo in strada. Come la barista accanto al Bataclan che, un po’ Hemingway un po’ John Lennon, scrive sulla vetrina del suo negozio “Let’s Love”.

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