Il terremoto, la ricostruzione e l’anima dei luoghi

6 Settembre 2016

I paesi del Centro Italia distrutti, danneggiati, resi insicuri dal terremoto del 22 agosto dovranno essere ricostruiti. La lunga storia delle catastrofi e dei disastri che hanno colpito le popolazioni di tante regioni ci mostra, infatti, i rischi di dispersione e di abbandono a cui vanno incontro le comunità coinvolte dal sisma. Si tratta di fare presto. Ma anche di fare bene, di considerare le soluzioni possibili al netto delle retoriche e degli appetiti dei gruppi d’affari e di potere. La ricostruzione non è solo una scelta urbanistica e architettonica. Riguarda la memoria dei paesi, la possibilità di mantenere la rete di relazioni e legami che li costituisce, la capacità di rigenerarne e re-inventarne l’identità. Per questo è necessario riflettere da subito, ora che la macchina della ricostruzione sembra mettersi in moto, su «dove e come ricostruire» e sul suo senso per il futuro dei paesi colpiti.

 

1.

 

«Ai luoghi ormai non si rivolge più l’ascolto silenzioso e devoto in cerca della verità, ma la curiosità mobile e ciarliera, assetata di sempre nuovi spettacoli. Il luogo non è più una voce enigmatica ma veritiera, ma un oggetto su cui lasciare correre uno sguardo superficiale». Mi è tornata spesso in mente, in questi giorni tristi di terremoto, lutto e catastrofe, la riflessione di Giovanni Ferraro, uno dei più grandi e originali studiosi di luoghi. Forse perché racchiude il paradosso che i luoghi dell’interno, i paesi nostri dell’Appennino, e i piccoli paesi di tutto il mondo, conoscono: l’indifferenza per il loro destino o per la loro morte unita a una nuova metafisica del luogo. Occorre opporsi a questa prospettiva che coglie i luoghi in una sorta di astorica immobilità. Quando parliamo di anima dei luoghi e di sentimento dei luoghi, è bene ribadirne la storicità, la necessaria e costitutiva mobilità, anche in rapporto alla nostra mobilità. 

 

Oltre questa metafisica, nei luoghi si stabiliscono legami complessi, mutevoli, si stratificano e si trasformano relazioni, affetti, discorsi, si organizzano scambi con l’esterno. Per quanto delimitabile e conoscibile, il luogo antropologico non è mai, neanche nelle società primitive e tradizionali, chiuso. Non esiste luogo antropologico se non in relazione a spazi esterni, anche quando vissuti come pericolosi e minacciosi. Ernesto De Martino ha scritto pagine fondamentali sull'angoscia, il senso di smarrimento e di paura che colpiva le popolazioni calabresi e meridionali quando si allontanavano dal campanile del loro paese. Il forte senso di radicamento, la paura di perdersi, la nostalgia del luogo sono caratteristiche di comunità che pure avevano una storia secolare, sia pure difficoltosa, di scambi e rapporti con il mondo esterno. Il luogo è tale soltanto perché vi sono delle persone che lo considerano il loro luogo e perché lo abitano, lo popolano, lo vivono, lo modificano interagendo con esso. Il luogo è anche le immagini che ne ereditiamo. Il luogo ha una storia. Il luogo ha un senso, ci sente, ci avverte. Ci condiziona, talvolta ci possiede. 

 

Ogni discussione e riflessione sulla ricostruzione, allora, non può eludere il fatto che il luogo antropologico “per eccellenza”, il “luogo sacro” di questa parte del mondo è l’entità geografica, abitativa, mentale, culturale che chiamiamo paese. Accanto alla varietà delle città, segnalata da studiosi di ogni disciplina, c’è la grande varietà e ricchezza dell’Italia dei paesi. I paesi, nelle loro varie manifestazioni e riproduzioni, sono stati i luoghi in cui è vissuta la maggior parte della popolazione mondiale fino a pochi anni fa. Il paese, la provincia, il centro urbano con forte tradizione e sensibilità comunitaria caratterizza i piccoli paesi, spesso villaggi di poche centinaia di persone, agglomerati di poche famiglie – che si sono formati nel tempo per una serie di ragioni storiche, produttive, culturali – sono i luoghi dove si è svolta per secoli la vita degli italiani delle diverse regioni. Anche il più piccolo paese ha i suoi tesori, il suo carattere, la sua unicità di cui gli abitanti vanno orgogliosi. Nel nostro Paese, quella che con buona approssimazione chiamiamo identità si è spesso strutturata anche in rapporto con una ricorrente storia di terremoti e di disastri e con i modi di affrontarli sia a livello realistico che simbolico e culturale. Quasi tutte le regioni italiane presentano una storia di catastrofi, abbandono, ricostruzione che è necessario soltanto ricordare sia pure brevemente per meglio capire il senso dell’attuale dibattito. 

 

I disastri, soprattutto i terremoti, mettono di fronte a un prima e a un dopo. Nulla sarà più come prima tra i superstiti che si aggirano tra le macerie e che, appena preso atto del disastro, si chiedono cosa è accaduto e cosa accadrà di loro, se la loro vita avrà ancora un senso e un tempo, e dove. La decisione se ricostruire in loco o altrove, l’opzione tra il ricostruire «dov’era come era» (l’espressione, come ricorda Tommaso Montanari, viene adoperata nel 1902 per la ricostruzione del campanile di Venezia) e tra «dove non era e come non era» (anche se esistono scelte intermedie e spesso mai compiute e mai definitive) vede in campo gruppi sociali, proprietari terrieri, borghesi, Chiesa, popolazione portatori di interessi raramente comunitari e soltanto particolari. La ricostruzione, che dura decenni o a volte non viene mai ultimata (ancora sono evidenti i resti delle baracche dei terremoti in Calabria del 1905, 1907, 1908), più che riorganizzare la comunità tradizionale è all’origine di divisioni e conflitti che segneranno la vita sociale, religiosa, urbanistica e culturale del nuovo paese, sia ricostruito in loco sia trasferito altrove, «delocalizzato», come si dice oggi con espressione letteralmente priva di senso. In passato per decenni gli osservatori incontravano persone apatiche, melanconiche, indifferenti, litigiose, in conflitto a causa di una catastrofe che non passa e che modifica spesso il paesaggio, i rapporti sociali, le attività produttive e lavorative. 

 

Nei luoghi di maggiore abbandono, forse proprio grazie a un allontanamento di abitanti che hanno protetto più che distrutto i resti del passato, ancora si conservano, si nascondono e affiorano sempre più numerose, e a volte imponenti, le rovine prodotte dal tempo (ma le rovine non sono mai un prodotto del tempo, hanno bisogno delle scelte degli uomini), i resti archeologici delle diverse civiltà e culture che ha conosciuto la regione. Accanto alle centinaia e centinaia di luoghi e città di cui si conosce l’abbandono nell’antichità, di borghi e paesi che vengono abbandonati dal medioevo ai nostri giorni, vi sono, nell’Italia dell’interno, paesi del tutto scomparsi, sommersi, di cui non esiste più traccia, di cui non abbiamo memoria. Alle città visibili, ai ruderi, alle rovine, ai luoghi senza segni apparenti di storia e di vita corrispondono molto spesso città sotterrate non sempre visibili, non ancora emerse, ancora sepolte, frammenti, schegge, resti e memorie di universi abitativi sommersi. 

La rovina è il segno tangibile, materiale, inequivocabile e più evidente dell’abbandono. La testimonianza di qualcosa che c’è stato e non c’è più. Assieme alle rovine, ad attestare la paura e il terrore del sisma, i suoi effetti devastanti e distruttivi, rimangono soprattutto modi di dire, tradizioni orali, culti, riti che spesso sorgono proprio all’inizio della catastrofe o subito dopo. Tante processioni, che ogni anno vengono ripetute nel Sud, ricordano, anche a distanza di secoli, gli effetti del terribile flagello interpretato come castigo divino o come punizione per una colpa. La funzione rammemorante dei riti però viene meno nell’arco di due-tre generazioni, con la scomparsa degli ultimi sopravvissuti o dei figli e nipoti che ne hanno raccolto i racconti, e anche i riti di espiazione e ringraziamento diventano elementi di una ritualità e di una religiosità che non ammoniscono e non ricordano. Resto sempre stupito nel sentire anche persone giovani e acculturate che non sono al corrente dei continui e ripetuti terremoti che hanno più volte distrutto la propria comunità. 

 

 

La memoria collettiva finisce presto se non viene alimentata, rinnovata, coltivata. Emanuela Guidoboni, una delle maggiori esperte di storia dei disastri sismici (in una intervista a “Repubblica” di questi giorni), suggerisce anche di mettere «nella piazza di ogni paese e città a rischio un grande e stabile cartellone con i dati della Mappa di Pericolosità, una sorta di inizio d’attenzione. Poi da lì procedere alla valutazione degli edifici, coinvolgendo i proprietari, gli abitanti, dando loro un protagonismo nuovo, facendo crescere una democrazia di base, che oggi su questo argomento non c’è. Anzi, nel sentimento diffuso della gente questi sono temi per pochi esperti. Invece è vero proprio il contrario. Le cose cambieranno quando i cittadini si sentiranno responsabili e coinvolti». E la memoria e la consapevolezza di una storia di abbandoni e di ricostruzioni possono certo tornare utili nel dibattito attuale che, finalmente, sembra vedere diversi soggetti in campo, a cominciare dalle popolazioni colpite, concordi in una ricostruzione all’insegna del «dov’era come era».

 

Sembrano, infatti, non avere dubbi gli abitanti di Amatrice, Arquata, Pescara del Tronto e degli altri paesi distrutti e cancellati dal terremoto. A sentire le loro prime sommesse e dolenti voci, l’intenzione è quella di «restare» nei luoghi in cui sono nati e vissuti, anche se ridotti in macerie, e di non spostarsi altrove, nemmeno in posti vicini. La vicenda dell’Aquila e della dispersione della città hanno inciso sulla resistenza tenace a qualsiasi proposta di ricostruire altrove. Ma certamente in questa scelta di «restanza», in nome di un’appartenenza e di un radicamento al luogo inteso in senso antropologico, gioca un ruolo non secondario il recente affermarsi di una sorta di «resilienza ai disastri» e – bisogna auspicarlo e sperarlo in questo caso – il rifiuto di modificazioni traumatiche e anche di scelte assistenziali e di interventi imposti dall’alto e quasi mai portati a buon termine. Le catastrofi hanno costituito nel nostro Paese, come ricordavano Alvaro e Piovene tanti anni fa, e come cinicamente si dicevano i due imprenditori che si telefonavano nella notte della distruzione dell’Aquila, una grande occasione su cui hanno fatto fortuna i gruppi dirigenti e di affari, mentre per le comunità e le popolazioni colpite quasi sempre hanno significato lacerazione, dispersione e, alla lunga, fine della stessa comunità. 

 

2.

 

Non è facile decidere se e come abbandonare un luogo, dove e come ricostruire: l’abbandono spesso è necessario, altre volte è un’occasione per chi decide e governa, viene incoraggiato e promosso dall’alto. Dopo le infelici ricostruzioni in Calabria a seguito delle alluvioni del 1951 e 1971 e quelle dell’Irpinia, dopo il terremoto del 1980, in Italia sembrava lentamente affermarsi l’idea di ricostruire come era e dove era, in realtà la vicenda dell’Aquila (da ricordare quella meno nota di Cavallerizzo in Calabria: rinvio al mio New town, retoriche e abbandoni. Dieci anni dopo la frana di Cavallerizzo, Doppiozero, 2015) ha contribuito, tra l’altro, a portare molto la riflessione sul “senso dei luoghi”, dell’abitare, del ricostruire. Le new town hanno riguardato insediamenti nuovi e stabili per i terremotati, a notevole distanza dalla città (con effetti di degrado nel paesaggio e impulsi speculativi ecc.), svuotando la città storica (che per altro conosceva un certo spopolamento prima del terremoto). Oggi l’Aquila (come ricorda Emanuela Guidoboni) è un cantiere in grande attività, privo di popolazione, e non si sa chi andrà ad abitarla e quando. Nei tempi lunghi gli scenari sono imprevedibili. Non è difficile immaginare che saranno poi le new town di oggi a svuotarsi, ed essendo state costruite con poderosi blocchi di cemento armato molto costosi anche da demolire, rimarranno come un monumento alle devastazioni, alle incompiutezze, alle macerie, alle rapine di questi ultimi decenni. 

 

Il «dov’era come era» non va, tuttavia, ripetuto in maniera liturgica. È un impegno complicato da assumere, una scelta che va problematizzata e contestualizzata senza ideologismi. Uno dei più famosi esempi di ricostruzione (molto ben documentato) del «dove non era e come non era», di spostamenti di siti e di nuovi impianti urbanistici ci arriva, come rileva Emanuela Guidoboni (La catena dimenticata delle distruzioni e delle ricostruzioni, Italia dei disastri, 2013) in epoca moderna ci arriva dalla Sicilia orientale colpita nel 1693, il 9 e 11 gennaio, da due violenti terremoti che distrussero oltre 70 località, e atterrarono o danneggiarono estesamente città come Catania, Siracusa, Scicli, Ragusa Gli spostamenti di vari paesi vennero decisi dal governo spagnolo, che tenne conto degli interessi dei grandi proprietari locali nel realizzare un vasto piano di ricostruzione con città riprogettate con nuove simmetrie e nuove geometrie, che diedero luogo anche a utopiche città ideali o «perfette» (come la ricostruzione di Grammichele, in provincia di Catania). Dall’estesa ricostruzione di città e paesi della Sicilia orientale, che durò per decenni, nacque il barocco siciliano, oggi patrimonio dell’umanità, ma quell’area presenta caratteri di fragilità e vulnerabilità, di cui all’epoca non si tenne conto.

 

Una diffusa e anche innovativa costruzione di «città nuove» in siti diversi da quelli originali si realizza in Calabria meridionale dopo i cinque catastrofici terremoti del febbraio e marzo 1783. Il disastro divenne un’occasione, grazie a un ministro illuminato e al clima riformatore dell’epoca, per una nuova distribuzione delle risorse, soprattutto della proprietà terriera in buona parte in mano ai baroni e alla Chiesa. Il progetto prevedeva, tra l’altro, lo sviluppo di aree da secoli ai margini della vita sociale ed economica del Regno di Napoli. Il disegno delle nuove planimetrie mostra città a forma di stella oppure ortogonali, con strade larghe e costruzioni concepite dentro simmetrie e misure fino ad allora sconosciute nella regione. Questo modello venne applicato nel corso dell’Ottocento. Nacquero «città ideali» come Filadelfia, con richiamo esplicito a tradizioni utopistiche e a costruzioni della Filadelfia di America.

 

Ma l’intento di riassorbire le distruzioni e le lacerazioni del tessuto sociale, come Augusto Placanica ha estesamente scritto (Il filosofo e la catastrofe, 1985) fallì per la permanenza delle strutture feudali, l’esosità del sistema fiscale centrale, la debolezza dello Stato centrale nei confronti del potere baronale ed ecclesiastico. Le ricostruzioni furono lunghe e in molti casi non vennero compiute: per più generazioni tanta gente rimase in baracche o in dimore precarie e provvisorie. Il «non finito» calabrese, che oggi assume aspetti devastanti e va legato ad altri fenomeni geo-antropologici, comincia in quel periodo nella Calabria Centro-meridionale, e sarebbe continuato con le ricostruzioni dopo i terremoti del 1894, 1905, 1907, 1908 (e con quelle successive alle frequenti frane e alluvioni che provocano molto spesso abbandono di paesi). Anche il cosentino e le altre aree della regione subiscono nel tempo una martellante azione sismica sul suo patrimonio edilizio. Una storia regionale di continue riparazioni e di precarietà che ha segnato la mentalità delle popolazioni. 

 

Opera di Ikeda Manabu.

 

La lunga storia di terremoti e di ricostruzioni in quasi tutte le regioni d’Italia suggerisce di valutare accuratamente le diverse realtà: in base ai desideri della popolazione, a considerazioni di sicurezza geologica, alla memoria storica del sisma, all’ambiente e anche alle economie e alle culture dei luoghi. 

Questa storia mostra anche che ricostruire «come era e dove era» comporta sempre una grande responsabilità. Ricostruire ad esempio in zone sismiche e a forte rischio-idrogeologico, dove paesi e città sono stati più volte distrutti e ricostruiti nell’arco di quattro-cinque secoli, richiede un supplemento di impegno e di competenze. Certo oggi non si ricostruirebbe più con materiali di riporto, “riusando” l’antico, ma con materiali di qualità e tecniche edilizie accurate, realizzate secondo le “regole del ben costruire”, e magari con attenzione a diversi accorgimenti antisismici. Si tratta, talvolta, di mettere in discussione almeno il «come era» che spesso non era né sicuro né comodo, né bello né gradevole e che forse non piace nemmeno a chi intende restare, ma in modi nuovi e in spazi ripensati e riorganizzati dopo il grande caos edilizio e le grandi e piccole speculazioni. In fondo non si può mai ricostruire come era. E se è possibile “recuperare” palazzi, chiese, piazze non è detto che tutto merita di essere recuperato; e in questo senso la ricostruzione può servire a cancellare scempi precedenti e che poi hanno contribuito al crollo. L’esempio del Friuli, dopo il terremoto del 1976, da questo punto di vista sembra, davvero, istruttivo. Nei luoghi del terremoto, paese per paese, zona per zona, a seconda dei danni e del carattere del territorio, la gente valutava e decideva (non sempre in maniera uniforme, con posizioni e ragioni diverse e spesso anche fortemente contrapposte) se ricostruire in loco o altrove e con quali materiali e tipologia abitativa, suggerendo e proponendo innovazioni. 

 

Nella decisione di dove e come ricostruire, è necessario porsi il problema del futuro delle comunità, valutando la struttura produttiva e le dinamiche demografiche dei territori. Nell’Umbria i piccoli borghi di montagna, distrutti dopo i terremoti del 1979 e del 1997, sono stati ricostruiti com’erano, al meglio, belli e gradevoli, e tuttavia, a causa dell’assenza di servizi, in un contesto di progressivo abbandono, sono oggi quasi spopolati e non abitati. Cosa farebbero gli abitanti di Arquata lontano dalle terre, dai boschi, dai prati dove mantengono un’economia agricola e pastorale? Corrado Stajano ha scritto pagine molto belle sul caso di Africo, abbandonato dopo l’alluvione del 1951 e rifondato sulla costa senza che gli abitanti contadini riuscissero a diventare pescatori. 

 

La ricostruzione e la prevenzione avrebbero bisogno di una nuova consapevolezza e di nuove politiche per la montagna e per le aree interne. Che non sia quella delle grandi opere che isolano, distruggono, cancellano. Forse la scommessa, oggi, è investire sulla memoria, sulla propria storia, su una nuova idea dell’abitare e dell’esserci nei luoghi. Un coinvolgimento democratico e dal basso, con una base di informazioni scientifiche e storiche, controllabili e non tendenziose, è altrettanto necessario nei mille luoghi a rischio sismico. Un'altra idea di sviluppo, che coniughi progettualità, sostenibilità e lavoro per giovani tecnici, laureati, maestranze da impegnare in quella che a parole è la nostra grande ricchezza: il paesaggio, le bellezze, l'arte, i centri storici, i siti archeologici da salvare, il cibo, i beni immateriali, una tradizione alta di socialità e convivialità. 

Ne hanno bisogno i paesi che, tutto l’anno, non immobili ma aperti al mondo, ai ritorni e ai nuovi arrivi, provano a resistere. E non sempre ce la fanno.

 

 

3.

I luoghi non solo si spostano, si modificano, si trasferiscono. I luoghi possono, come ci insegna la storia recente, anche morire. C’è un rischio immanente alle civiltà, come alle culture, alle storie: ed è la loro fine. I conflitti in corso e il recente terremoto ci ricordano che in qualche modo i luoghi possono morire per sempre. Cosa possiamo fare allora, senza affidarci unicamente agli interventi e alle iniziative dall’alto che non arrivano mai?

Dicono gli studiosi che i luoghi stanno scomparendo. E noi ne abbiamo quotidiana conferma. Intendiamo i luoghi antropologici, i luoghi abitati e riconosciuti, i luoghi con un centro, i luoghi sacri. Nell’epoca della mondializzazione e della globalizzazione, secondo molti, i luoghi tenderebbero a scomparire, a dissolversi come centri e come punto di riferimento, come reticoli di relazioni e di storie. Tutti i luoghi del mondo sarebbero uniformi, uguali, anonimi, quasi dei non luoghi. Ma come non esistono i luoghi chiusi, separati, immobili, così non esistono in assoluto i non luoghi. Non ci sono luoghi dove in qualche modo non venga attuata, tentata o inventata una nuova sacralizzazione. Il cristianesimo rifonda il centro con i pellegrinaggi, il culto delle reliquie e dei santi.

 

Gli emigrati ricostruiscono un centro nei nuovi luoghi. Nei paesi doppi della Calabria che nascono lungo le coste disabitate, malariche, anche se con fatica, si afferma un senso del luogo. 

 

Se i luoghi non parlano più, è possibile almeno parlare dei luoghi. Ripensare e immaginare una letteratura sui luoghi, che sappia restituirne il segreto, la ricchezza e le sfumature è indispensabile per dare indicazioni anche sulla loro ricostruzione. È anche all’interno di questo diffuso e confuso bisogno di “ritorno” a “piccoli luoghi”, aperti e accoglienti, che resistono e immaginano una diversa presenza e nuove forme di appaesamento; è all’interno di un modo diverso di considerare e di “ri-guardare” la memoria, il passato, il futuro dei luoghi che forse bisogna collocare il dibattito su dove e come ricostruire. 

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