Big Love

28 Novembre 2012

Pubblichiamo di seguito i primi paragrafi di un saggio che compare nel nuovo numero della rivista di studi nordamericani Ácoma. Il fascicolo è dedicato ai serial TV statunitensi ed è in libreria da pochi giorni

 



 

Scritta dalla coppia Will Scheffer e Mark V. Olsen, al suo debutto nel marzo del 2006, la serie Big Love, prodotto di punta di HBO nel genere drama, aveva già tutte le carte in regola per assicurarsi non solo il coinvolgimento del pubblico televisivo e l’interesse dei critici di settore, ma anche l’attenzione degli studiosi. Innanzitutto, la produzione e messa in onda della serie da parte di HBO genera aspettative in termini di qualità di scrittura, complessità delle tematiche trattate e ricercatezza estetica legate ai precedenti successi del canale via cavo, e la collocano di diritto in una sorta di aristocrazia della serialità televisiva accanto a titoli quali Sex and The City (1998-2004), I Soprano (1999-2007), Six Feet Under (2001-2005) e The Wire (2002-2008). Inoltre, inserendosi in una ideale linea di continuità iniziata con I Soprano (la cui sesta e ultima stagione va in onda proprio nella fascia oraria che precede Big Love al suo debutto) e proseguita con Six Feet Under (conclusasi nell’estate del 2005), Big Love si presenta come un’ulteriore acuta rappresentazione della convergenza tra una sottocultura marginale/marginalizzata e l’ideale della grande famiglia americana. Immediatamente riconosciuto dal New York Times dopo l’anteprima riservata alla stampa come “il più recente viaggio del network via cavo nelle profondità di una sottocultura americana”, la serie conferma infatti “l’intuizione originale di HBO: che gli americani vivono l’ansia profonda che la loro famiglia sia diversa dalle altre”.

 

In effetti, i protagonisti (un marito, le sue tre mogli e i loro sette figli) sembrano ad un primo sguardo profondamente diversi, irrimediabilmente marginali rispetto alla cultura mainstream che li circonda. Immersi nell’America profonda della Salt Lake Valley, gli Henricksons sono infatti fondamentalisti religiosi che si sentono come gli autentici e legittimi prosecutori della chiesa mormone delle origini e inseguono un ideale radicale di indipendenza e libertà attraverso la pratica illegale della poligamia. E tuttavia, quanto sono diversi/alieni i valori che questi genitori cercano di trasmettere ai loro figli (castità prematrimoniale, forte senso di appartenenza alla famiglia, rapporto diretto con Dio, conformità della propria vita ai dettami della chiesa, interpretazione letterale dei testi sacri) da quelli di cui si fanno portavoce le chiese evangeliche ultra conservatrici che tanta visibilità e peso politico hanno avuto nell’era di George W. Bush? E, dall’altra parte, quanto marginale può essere considerata la sessualità non-monogamica dei protagonisti e il modello genitoriale che ne consegue, nel mezzo del dibattito politico sul matrimonio omosessuale e, più in generale, in una cultura che sembra avere accettato, per quanto in modo a volte controverso, le famiglie allargate, le madri surrogate, i genitori single?

 

In altre parole, l’ampio arco narrativo di Big Love, che si sviluppa lungo cinque stagioni, contiene fin dalle sue premesse elementi di stringente attualità politica e culturale che sono non ai margini, bensì al centro delle preoccupazioni dell’America di inizio millennio. A confronto la poligamia, ovvero il nucleo centrale delle difficoltà e dell’ostracismo di cui fanno esperienza i protagonisti nell’ambito delle diverse comunità di appartenenza (dal quartiere alla chiesa, dallo stato alla nazione), costituisce un formidabile catalizzatore che consente di tenere insieme numerosi discorsi e far emergere molteplici punti di criticità nella cultura dominante, dall’impatto del fondamentalismo religioso al perdurare delle problematiche di genere, dalla (ri)definizione delle libertà protette dalla costituzione alle campagne per il matrimonio omosessuale, dalla crisi del modello normativo della famiglia nucleare suburbana alla centralità della dimensione economica nella percezione dell’identità individuale e comunitaria.

 

È interessante notare come, nel 2006, ovvero nel corso del secondo mandato di George W. Bush, con gli esponenti della destra evangelica che si fanno interpreti e promotori da anni di un diffuso sentimento anti-islamico, gli autori e HBO abbiano deciso di esplorare la tensione tra libertà individuale e valori condivisi della comunità guardando non ad una cultura ‘altra’ (inevitabile il parallelismo con l’Islam, religione poligamica le cui correnti fondamentaliste rifiutano qualsiasi messa in discussione dei tradizionali ruoli di genere e condannano l’omosessualità), bensì alle frange eterodosse di una formazione religiosa i cui tratti distintivi sono completamente statunitensi.

 

 

La più americana delle religioni

           

A quasi duecento anni dalla sua fondazione, le peculiarità della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni (d’ora in avanti LDS, l’acronimo di Latter-day Saints in uso in inglese) continuano a esercitare un misto di fascinazione e sospetto agli occhi degli americani, nonostante la tangibile progressiva assimilazione da parte della cultura dominante, segnalata anche dalla candidatura alle presidenziali del 2012 di Mitt Romney.

 

Nato dal fermento religioso e dall’ondata di fervore evangelico che attraversarono gli Stati Uniti nella prima metà del diciannovesimo secolo, il movimento che sarebbe diventato noto ai più con il nome di Mormonismo ha da sempre avuto un rapporto controverso con la cultura americana all’interno della quale esso ha preso forma e di cui si è spesso fatto interprete in modo così radicale da essere considerato, probabilmente non a torto, la più americana delle religioni. A differenza di tutte le altre denominazioni evangeliche sorte o rafforzatesi nello stesso periodo, infatti, il Mormonismo ha introdotto un altro testo sacro in aggiunta alla Bibbia cristiana, ovvero il Libro di Mormon, in cui non solo viene detto che il Giardino dell’Eden è localizzato in America, ma si traccia in modo esplicito il ruolo salvifico del paese quale luogo in cui Gesù Cristo farà la sua seconda venuta dopo avervi suscitato un popolo di santi secondo la sua volontà. Portando all’estremo il mito fondante della terra promessa, le rivelazioni del profeta e fondatore della chiesa Joseph Smith, che complementano il Libro di Mormon e vanno sotto il titolo di “Dottrine e Alleanze”, individuano non solo una realtà geografica, né semplicemente una formazione religiosa, bensì un’entità politica, gli Stati Uniti, quale espressione dell’elezione divina. La Costituzione, elevata al rango di testo ispirato, entra a far parte della teologia stessa del movimento e vi rimane tutt’ora, tanto da essere definita “documento sacro” e “vessillo celeste” ancora nel ventesimo secolo.

 

Questo ruolo prominente dato alla carta costituzionale genera chiaramente una connessione strettissima, ma ambivalente, tra la chiesa LDS e la nazione: da una parte, agli occhi soprattutto del Mormonismo delle origini, l’esistenza degli Stati Uniti trae la sua legittimità dal ruolo salvifico cui essi sono chiamati nel disegno divino; dall’altra, ogni qual volta i Santi vengono fatti oggetto di persecuzioni (e ciò avviene in modo inequivocabile nel corso di tutto l’Ottocento), la chiesa invoca la libertà religiosa sancita dalla Costituzione e protetta dal Primo Emendamento a sostegno del proprio diritto ad esistere all’interno della nazione, e dunque afferma il proprio desiderio di essere inclusa in essa.

 

La pietra dello scandalo intorno a cui si raccoglie il sentimento anti-mormone nel diciannovesimo secolo è la pratica della poligamia, reintrodotta in ossequio al principio di restaurazione di tutte le istituzioni bibliche. Praticata da Joseph Smith e da alcuni altri esponenti della chiesa delle origini, essa viene a lungo mantenuta semi-segreta ed è annunciata ufficialmente quale dottrina essenziale della chiesa LDS solo a partire dal 1852. Nel tentativo di difendere il matrimonio plurimo dagli attacchi e dalla curiosità morbosa dei “gentili”, i Santi si spostano in un primo momento al di fuori dei confini degli Stati Uniti, ormai ritenuti corrotti, e prendono dimora in territorio messicano, nella disabitata e remota Salt Lake Valley. Quando pochi anni dopo quest’area viene assorbita dagli Stati Uniti per effetto della guerra contro il Messico, i leader della chiesa LDS si appellano congiuntamente alla Costituzione (che non parla di matrimonio monogamico e lascia ai singoli stati la facoltà di legiferare sul diritto di famiglia) e all’autorità divina (che autorizza i membri della chiesa ad ignorare le norme in conflitto con le rivelazioni del profeta), ma chiedono anche l’inclusione dello Utah tra gli stati dell’Unione al fine di ottenere maggiore autonomia. La richiesta viene però respinta proprio a causa della poligamia, segno tangibile della presenza sul territorio di un’autorità non solo spirituale, ma politica, in grado di scavalcare quella dello stato federale con cui è in conflitto.

 

 

I Mormoni tentano allora la via del ricorso alla Corte Suprema, sostenendo che il matrimonio plurimo è per loro un dovere e le leggi contro la poligamia li privano del diritto costituzionale di praticare liberamente la propria religione, argomentazione cui la corte risponde stabilendo che, mentre vige una assoluta libertà in merito alle credenze religiose, le azioni, anche se ispirate o dettate dalla fede, rientrano sotto il dominio della legge del paese. Nonostante una prima veemente reazione che, facendo appello alla definizione degli Stati Uniti quale “terra della libertà” e promessa di un democratico eccezionalismo religioso, proietta la comunità minoritaria nel ruolo di garante dello spirito autentico della nazione, nel giro di pochi anni, pur di ottenere l’inclusione dello Utah nell’Unione, la chiesa LDS proibisce il matrimonio plurimo con il Manifesto del 1890, dichiarando tale profezia compiuta.

 

La vicenda è interessante per diversi motivi: innanzitutto essa dimostra come il mormonismo sia stato cruciale nel costringere gli Stati Uniti quali entità politica e l’America quale formazione culturale a esplicitare il proprio concetto di libertà individuale. Inoltre, il Manifesto del 1890, un documento che segue di soli 60 anni la fondazione stessa della chiesa e che ne altera profondamente l’orizzonte escatologico, determina la formazione di diversi gruppi e sette scismatiche accomunati dalla prosecuzione della pratica del matrimonio plurimo. Questi gruppi, per quanto minoritari e marginali, costituiscono una realtà piuttosto visibile in alcune aree della Salt Lake Valley e delle Rocky Mountains e, anche in ragione della loro forza economica e rilevanza sociologica, alimentano tutt’ora il dibattito intorno alla Costituzione e la sua doppia funzione di limite e protezione delle libertà individuali.

 

Questi gruppi e gli indipendenti che non si riconoscono in nessuna comunità specifica, ma si rifanno direttamente ad una interpretazione radicale dell’idea di un dialogo diretto tra Dio e i suoi eletti, costituiscono la sottocultura cui fa riferimento esplicito Big Love. Consapevole del peso della chiesa LDS nella società americana (entrate annuali stimate in 6 miliardi di dollari, il maggiore datore di lavoro nello stato dello Utah, la chiesa in più rapida espansione nell’emisfero occidentale), HBO ha a lungo discusso con le sue gerarchie in fase di produzione di Big Love e, accogliendone le preoccupazioni, ha inserito un disclaimer all’inizio dell’episodio pilota con cui viene resa esplicita la distinzione tra chiesa ufficiale e gruppi fondamentalisti.

 

Tuttavia, come sono costretti a constatare gli appartenenti alla chiesa ogni qual volta un evento di cronaca vede il coinvolgimento di qualche esponente del fondamentalismo più oltranzista, questo non è sufficiente a superare del tutto l’associazione tra poligamia e Mormonismo, che permane nell’immaginario di molti non solo in ragione dell’enorme attenzione che tale istituzione ha avuto nella sua fase di realizzazione storica, ma anche in conseguenza della possibilità di effettive, per quanto controverse sovrapposizioni tra le due comunità. Ci sono infatti – e come vedremo tra breve, gli Henricksons ne sono una rappresentazione accurata – diverse famiglie poligamiche che vivono clandestinamente la loro condizione all’interno della comunità ortodossa, muovendosi in maniera piuttosto fluida tra diverse e compresenti configurazioni del vivere in collettività.

 

 

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