Speciale
La malattia della civiltà (4) / Guerre contro il futuro: Fromm
“Perché uomini che non si conoscono e che non si sono fatti nulla” possono uccidersi reciprocamente? È questo l’interrogativo che spinge Erich Fromm, interessato alla relazione tra tendenze inconsce e determinanti sociali in un secolo che ha prodotto, insieme, il totalitarismo e le libertà, a cercare risposte al tema del male. In Marx e Freud. Oltre le catene dell’illusione (1962) ricostruisce il suo “carattere intellettuale” a partire da un padre ansioso e con una personalità difficile, e una madre che tendeva alla depressione. Capire le “ragioni insolite e misteriose delle reazioni dell’uomo”, un “essere in contraddizione”, diventerà il filo conduttore della sua ricerca scientifica e umana.
Nato nel 1900 in una famiglia di origine ebraica, legato alla scuola di Francoforte, Fromm è costretto a rifugiarsi nel 1934 negli Stati Uniti, dove scriverà la maggior parte delle sue opere, alcune delle quali – Fuga dalla libertà (1941), L’arte di amare (1956), Avere o essere (1976) – hanno avuto una diffusione straordinaria per la sua capacità di coniugare la filosofia e la psicoanalisi con la religione, il buddismo e le scienze sociali.
Anatomia della distruttività umana (1973) – l’ultima edizione italiana, ora non disponibile, è del 1992 – è quasi un manuale psicoanalitico-etologico che attraversa la neurofisiologia e la psicologia animale, la paleontologia e l’antropologia. Per Fromm l’aggressività non si può ricondurre a una base istintuale, filogeneticamente condizionata come sosteneva Lorenz. Non si presenta mai come un tratto comportamentale isolato, ma va intesa come parte del carattere sociale: è una sindrome – all’interno di una rigida gerarchia burocratica, della divisione in classi, di una situazione di predominio. Per esempio, un regime autoritario, statal-socialista, con un sistema di distribuzione ancora in gran parte centralizzato, avvolto da un pathos “ugualitario”, può spiegare l’entusiasmo bellico: “In guerra, l’uomo è nuovamente uomo, ha la possibilità di distinguersi, a prescindere dai privilegi sociali conferitigli dal suo status di cittadino. (...) la guerra è una forma indiretta di ribellione contro l’ingiustizia, l’ineguaglianza e la noia che dominano la vita sociale in tempo di pace, e non bisogna sottovalutare il fatto che, se un soldato combatte il nemico per la sua pelle, non deve combattere contro i membri del suo gruppo per avere cibo, cure mediche, riparo, vestiario, che gli vengono forniti da una specie di sistema perversamente socializzato”.
In senso sociale è il carattere burocratico, dove ciascuno è controllore e controllato, che soddisfa gli impulsi sadici e quelli masochistici – Fromm pensa al comunismo, oggi può evocare il passaggio dal “comunismo nazionale autogestito” alla rifeudalizzazione bellica nella ex Jugoslavia o l’entropia autodistruttiva della Russia post-sovietica.
Operando una distinzione fondamentale tra un’“aggressione difensiva”, reattiva, che classifica come “benigna”, e un’“aggressione maligna”, caratterizzata dalla crudeltà, cerca di spiegare come mai, in situazioni date, alcune passioni prevalgano su altre. Abbandona il principio fisiologico freudiano – l’idea di un concetto idraulico dell’aggressività che unisce la teoria di Lorenz a quella di Freud, per altri aspetti distanti. È la metafora della “pentola che bolle” e che a un certo punto trabocca, un’immagine fin troppo richiamata per spiegare i conflitti latenti che hanno portato all’ “esplosione delle nazioni” dopo il 1989. Fromm privilegia un principio storico e sociobiologico, descrive le caratteristiche delle guerre civili, studia il rapporto con il passato e con i propri morti dei singoli e dei popoli, sceglie un approccio multidimensionale.
“Nelle guerre civili i due avversari hanno lo scopo, se non di distruggersi fisicamente l’un l’altro, di distruggersi economicamente, socialmente, politicamente. Se questa ipotesi è giusta, significherebbe che il grado di distruttività dipende in generale dalla gravità della minaccia”. Gli interessi vitali che una società può sentire in pericolo sono molto ampi: dai luoghi di culto ai valori della patria. Un possibile attacco a ciò che l’individuo considera “sacro” provoca uno stato di tensione. Ci sono molti modi per allontanare paura e ansia, come l’uso di droghe, l’eccitazione sessuale, la compagnia degli altri, ma diventare aggressivi è senz’altro uno dei metodi più efficaci: “Quando una persona riesce a emergere dal suo stato passivo di terrore e comincia ad attaccare, la paura tormentosa della paura sparisce”.
Fromm riprende il Behavioral Study of Obedience di Stanley Milgram, condotto all’università di Yale nel 1963 (gli esperimenti iniziarono nel luglio 1961, tre mesi dopo l'inizio del processo Eichmann) che misura la capacità di eseguire ordini per infliggere crudeltà, ma anche la tendenza all’ubbidienza. Per Fromm il test è significativo proprio per il motivo opposto, perché riesce a quantificare “l’intensità delle reazioni contro il comportamento crudele”.
Tra l’altro, postilla Fromm, pensando alle macchine della propaganda nazista e stalinista, solo negli esseri umani è possibile suscitare violenza attraverso un mezzo invisibile come il lavaggio del cervello, che rende “credibile l’incredibile”.
L’aggressione maligna può assumere una forma necrofila che si rivela in costruzioni sociali collettive, insieme a quella che appartiene al singolo. Fromm fa esempi di persone in analisi, ma presenta anche casi di figure storiche, come quelle di Stalin, Eichmann, Speer, Hitler. La descrizione della loro personalità ben si adatta a leader come Slobodan Milošević e Vladimir Putin. In individui dalla vita improduttiva, “psichicamente zoppa”, si innesca la “trasformazione dell’impotenza nell’esperienza dell’onnipotenza”, in quel senso di forza che deriva dalla capacità, nell’espressione di Simone Weil, “di trasformare un uomo in cadavere”.
Per Fromm è l’amore per la vita l’elemento capace di diminuire la distruttività dell’uomo moderno, fin troppo identificato con lo sviluppo della tecnica e del consumismo che lo allontanano dal suo potenziale creativo.
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Il concetto tradizionale
Il termine “necrofilo”, amore per i morti, è stato applicato generalmente soltanto a due tipi di fenomeni: in primo luogo, la necrofilia sessuale, il desiderio maschile di avere un rapporto sessuale o qualsiasi altro tipo di contatto sessuale con un cadavere femminile; in secondo luogo, la necrofilia non-sessuale, il desiderio di toccare cadaveri, di starvi vicino, di guardarli e, particolarmente, di smembrarli. In linea di massima, il termine non è mai stato applicato a una passione-radicata-nel-carattere, il terreno su cui crescono le sue manifestazioni più ovvie e crude. Basterà esaminare qualche esempio di necrofilia nel senso tradizionale per identificare più facilmente il carattere necrofilo meno ovvio. […]
Il carattere necrofilo
Il termine “necrofilo”, per definire un tratto caratteriale piuttosto che un atto perverso nel senso tradizionale, fu usato dal filosofo spagnolo Miguel de Unamuno nel 1936 in occasione del discorso tenuto dal generale nazionalista Millán Astray all’università di Salamanca, dove Unamuno era rettore all’inizio della guerra civile spagnola. Il motto del generale era: “Viva la morte!”, e uno dei suoi scagnozzi lo gridava dal fondo della sala. Quando il generale ebbe finito il suo discorso, Unamuno si alzò a sua volta.
E ora – continuò Unamuno – sento un grido necrofilo e insensato: “Viva la morte!” e io che ho trascorso la mia vita a creare paradossi che suscitavano la collera di coloro che non li afferravano, io devo dirvi, come esperto in materia, che questo barbaro paradosso mi ripugna. Il generale Millán Astray è un invalido. Sia detto senza alcuna intenzione di sminuirlo. È un invalido di guerra. Anche Cervantes lo era. Ma oggi, purtroppo, in Spagna ci sono troppi invalidi. E presto ce ne saranno ancora di più, se Dio non verrà in nostro aiuto. Mi addolora che debba essere il generale Millán Astray a dirigere la psicologia di massa. Un mutilato che non abbia la grandezza spirituale di un Cervantes, cerca di solito un macabro sollievo nel provocare mutilazioni intorno a sé.
A questo punto Millán Astray non seppe più trattenersi: “Abbasso l’intelligenza!” gridò. “Viva la morte!”. Dalla parte dei falangisti giunsero grida di sostegno. Ma Unamuno proseguì:
Questo è il tempio dell’intelletto. E io ne sono il sommo sacerdote. Siete voi che profanate il sacro recinto. Voi vincerete perché avete la forza bruta. Ma non convincerete. Perché, per convincere, dovrete persuadere. E per persuadere occorre proprio quello che a voi manca: ragione e diritto nella lotta. Io considero inutile esortarvi a pensare alla Spagna. Ho finito.
Ho adottato l’uso che del termine fa Unamuno, e sin dal 1961 ho studiato il fenomeno della necrofilia radicata-nel-carattere. Ho ricavato i miei concetti teorici soprattutto dall’osservazione di persone in analisi. Lo studio di certe personalità storiche – Hitler per esempio – e l’osservazione degli individui, del carattere e del comportamento delle classi sociali, mi hanno offerto altri dati per l’analisi del carattere necrofilo. Ma, anche se le mie osservazioni cliniche mi hanno influenzato moltissimo, ritengo che l’impulso decisivo sia venuto dalla teoria freudiana degli istinti di vita e di morte. Ero rimasto profondamente impressionato dal suo concetto, che vedeva nella tensione verso la vita e nella tensione verso la distruzione le due forze fondamentali che si dibattono nell’uomo. Anche se non potevo riconciliarmi con la spiegazione teorica di Freud, la sua idea mi portò a vedere i dati clinici in una nuova luce, e a riformulare – e quindi a preservare – il concetto freudiano su una base teorica diversa, su dati clinici che, come dimostrerò successivamente, si collegano alle precedenti scoperte di Freud sul carattere anale.
In senso caratteriologico la necrofilia può essere descritta come la passione, l’attrazione per tutto quanto è morto, putrido, marcio, malato; la passione di trasformare quel che è vivo in qualcosa di non-vivo; di distruggere per il piacere di distruggere; l’interesse esclusivo per tutto quanto è puramente meccanico. È la passione di “lacerare le strutture viventi”. […]
Azioni necrofile “involontarie”
Anche se sono una delle espressioni più esplicite dei desideri necrofili, i sogni non ne sono certo l’unica. Talvolta le tendenze necrofile emergono in azioni marginali, involontarie, “insignificanti”, quella “psicopatologia della vita quotidiana” che Freud interpretò come espressione di tensioni e desideri repressi. Addurremo come esempio un episodio che ha come protagonista una personalità molto complessa, quella di Winston Churchill. Il maresciallo Sir Alan F. Brooke, capo dello Stato maggiore imperiale, e Churchill stavano pranzando insieme, nell’Africa settentrionale, durante la Seconda guerra mondiale: era un giorno caldo, infestato dalle mosche. Churchill ne ammazzava più che poteva, come probabilmente avrebbe fatto chiunque al suo posto. Ma poi successe qualcosa di bizzarro (Sir Alan riferisce di esserne rimasto sconvolto). Verso la fine del pranzo, Churchill raccolse tutti gli insetti morti e li allineò sulla tovaglia, comportandosi come il cacciatore aristocratico che si fa allineare per terra la selvaggina, per sua gratificazione.
Se si dovesse “spiegare” il comportamento di Churchill semplicemente come un’“abitudine”, resterebbe aperto l’interrogativo: “Che cosa significa questa abitudine piuttosto inconsueta?”. Anche se sembra esprimere una tendenza necrofila, non implica necessariamente che Churchill avesse un carattere necrofilo, ma magari una forte vena necrofila (il carattere di Churchill è troppo complesso per discuterlo in poche pagine).
Ho descritto questo suo comportamento perché è sicuramente autentico e perché la sua personalità è ben nota. Ma da particolari comportamentali marginali come questi se ne possono osservare in diverse persone. Uno dei più frequenti è l’abitudine di spezzare e mutilare piccole cose come fiammiferi o fiori; certi si fanno del male, stuzzicando le proprie ferite. Tale tendenza si esprime più drasticamente quando si cerca di ledere qualcosa di bello come un edificio, un mobile e, in casi estremi, si sfregia il dipinto di un museo, o ci si infligge una ferita.
Un’altra esemplificazione di comportamento necrofilo si può trovare in quelle persone – soprattutto studenti di medicina e medici – che sono particolarmente attratte dagli scheletri. In genere si spiega questo fenomeno con l’interesse professionale, ma il seguente resoconto psicanalitico dimostra che non sempre è così. Dopo un certo tempo, e con grande imbarazzo, uno studente di medicina che si teneva uno scheletro in camera raccontò all’analista che spesso se lo portava a letto, l’abbracciava e talvolta lo baciava. Mostrava tutta un’altra serie di tratti necrofili.
Il carattere necrofilo si manifesta anche nella convinzione che la forza e la violenza siano l’unica soluzione di un problema o di un conflitto. Non si tratta in questo caso di verificare l’opportunità di ricorrere alla forza in determinate circostanze; quel che caratterizza il necrofilo è che per lui, la forza – o, come si espresse Simone Weil, il “potere di trasformare un uomo in cadavere” – è la prima e ultima soluzione per tutto; che bisogna sempre recidere il nodo gordiano e mai scioglierlo pazientemente.
Fondamentalmente, la risposta di queste persone al problema di vivere è la distruzione, e mai lo sforzo di capire, la costruzione, o l’esempio. È come l’ingiunzione della regina in Alice nel paese delle meraviglie: “Tagliamogli la testa!”. Motivati da questo impulso, in genere non sanno intravedere scelte che non implichino la distruzione, né riconoscono come spesso, a lungo andare, si sia rivelato futile l’uso della forza. Questo atteggiamento trova espressione classica nell’episodio biblico in cui re Salomone si trova a giudicare due donne che si contendono un figlio. Quando il re propone di dividerlo, la vera madre preferisce che sia l’altra ad averlo; la donna che finge sceglie invece di fare il bambino a metà. La sua è la decisione tipica della persona necrofila, ossessionata dalla mania di possedere.
Un interesse marcato per le malattie in tutte le loro forme, come per la morte, costituisce un’altra espressione, più attenuata, di necrofilia. Un esempio è la madre che si preoccupa costantemente delle malattie del figlio, dei suoi insuccessi, facendo cupe previsioni per il futuro; allo stesso tempo non recepisce i mutamenti favorevoli, non reagisce alla gioia o all’ entusiasmo del bambino, e non si accorgerà mai se in lui sta crescendo qualcosa di nuovo. Pur non danneggiando palesemente il figlio, lentamente ne strangola la gioia di vivere, la fede nella crescita, e infine lo contagia con il proprio orientamento necrofilo.
Chiunque abbia occasione di ascoltare le conversazioni di persone di ogni classe sociale a partire dalla mezza età, sarà sorpreso dall’interesse con cui si occupano delle malattie e della morte degli altri. Certo, di ciò sono responsabili diversi fattori. Per molti, soprattutto per coloro che non hanno interessi esterni, malattia e morte sono gli unici elementi drammatici della vita, e anche uno dei pochi argomenti su cui sono in grado di parlare, a prescindere dagli eventi familiari.
Detto ciò, vi sono diverse persone per cui questa spiegazione non basta. In genere è possibile riconoscerle per l’animazione, l’eccitamento con cui parlano di malattie o di altri tristi eventi come morti, dissesti finanziari ecc. Ma il particolare interesse del necrofilo per la morte si manifesta spesso anche nel modo in cui legge i giornali, oltre che nella conversazione. Lo attirano soprattutto – e quindi legge per primi – gli annunci di morte e i necrologi; gli piace anche parlare della morte sotto vari aspetti: di che cosa è morta una certa persona, in quali condizioni, chi è morto di recente, chi probabilmente morrà, e via di seguito. Gli piace andare alle veglie funebri, ai cimiteri, e in genere non si lascia sfuggire nessuna occasione del genere, quando è socialmente opportuno. È evidente che questa attrazione per le esequie e i cimiteri è soltanto una forma piuttosto attenuata dell’interesse più grossolanamente evidente per tombe e obitori descritto in precedenza.
Un altro tratto, peraltro meno facilmente identificabile, del necrofilo è quella particolare assenza di vita che ne caratterizza la conversazione. Non mi riferisco all’argomento. Un necrofilo molto intelligente ed erudito potrebbe parlare di cose che sarebbero molto interessanti se non fosse per il modo in cui le presenta, rigido, pedante e senza vita, mentre lui resta freddo, distaccato.
La persona-che-ama, cioè il carattere opposto, pur descrivendo un’esperienza di per sé non particolarmente interessante, le inietterà vita col suo modo di raccontare. È stimolante, e perciò la si ascolta con interesse e piacere. Il necrofilo, invece, è come una doccia fredda all’interno del gruppo; annoia invece di animare, smorza tutto e provoca nella gente un senso di stanchezza, contrariamente alla persona biofila, che la fa sentire più viva.
L’atteggiamento che si assume verso il passato e il senso di proprietà costituiscono un’ulteriore dimensione delle reazioni necrofile. Per il necrofilo solo il passato è un’esperienza reale, e non il presente o il futuro. La sua vita è governata da quel che è stato, e cioè da quel che è morto: istituzioni, leggi, proprietà, tradizioni, beni. In breve sono le cose a governare l’uomo; l’avere domina l’essere; i morti dominano i vivi. Nel pensiero necrofilo – personale, filosofico, politico – il passato è sacro, nient’altro conta, i cambiamenti radicali sono un delitto contro l’ordine “naturale”.
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