Vita attraverso le lettere / Koltès, vocazione alla gioia

27 Maggio 2022

Tra gli autori che somigliano alle proprie opere, Bernard-Marie Koltès è un caso particolare. Il tutt’uno con i suoi drammi è spontaneo, omogeneo, senza pose. Se c’è un primo dato da rilevare nell’epistolario di Koltès finalmente pubblicato da Cue Press – introdotto da Stefano Casi e tradotto da Giorgia Cerruti – è proprio questo: tra l’opera e la vita di Koltès c’è una continuità perfetta, al punto che il Koltès di queste lettere finisce col sembrare, nel corso della lettura, uno dei suoi stessi spensierati, verbosi personaggi. Può stupire, questa naturalezza, in un autore che oggi – a quasi trentacinque anni dalla morte – sempre più si conferma come una tra le più grandi voci teatrali del Novecento europeo. Ci aspetteremmo forse, da un autore così profondo e a volte estremamente complesso, più cautela, più impliciti, più doppi fondi. Una qualche macchinosa forma di distanza artistica. Non è così. 

 

Nelle lettere, il legame fra sé e il suo mondo teatrale è immediato. La prima impressione per me, che leggo queste lettere da adoratore di Koltès, è la straordinaria cordialità nell’accesso alla sua persona privata: Koltès è un uomo umanamente generoso, che parla di sé in una trasparenza che rivela la vertiginosa profondità del fondale senza, per questo, essere meno limpida. La complessità di Koltès è tutta verticale, e non ha niente di allegorico. Il Koltès di queste lettere è un personaggio innocente, un Boris Godunov che sembra ignorare le categorie del compromesso e della menzogna. Anche nelle difficoltà – prima fra tutte, quella economica – il suo atteggiamento è improntato sempre a un’incontrastata, mozartiana leggerezza. È l’ultimo dei romantici, Koltès, forse l’ultimo dei ‘maledetti’ – e lo è proprio perché non lo sa. 

 

 

Romantica è anche la percezione, precoce e folgorante, di una vita intesa come vocazione. Una vocazione non (innanzitutto) al teatro o alla letteratura, ma alla vita – la sua è un’elezione, per così dire, biologica: una vocazione alla spregiudicatezza, all’assenza di mediazioni, all’incapacità di accontentarsi. Basta leggere le prime lettere per incontrare un ragazzo già fermamente indisponibile a qualunque soluzione che sia al di sotto della felicità totale. La gioia: è questa la sua vocazione. E il teatro arriva solo dopo, come conseguenza: il teatro è per Koltès la forma professionale di una vita refrattaria alla necessità del sacrificio, del risparmio, della conservazione. Le lettere forse più belle di questo libro sono quelle dedicate ai viaggi – in Russia, in Africa, negli Stati Uniti. Momenti dove il tema della scrittura quasi non emerge affatto. Koltès non cerca la gloria o il successo, ma l’esperienza: da bruciare tutta, in un continuo qui e ora. Se c’è una posta in gioco nell’esistenza, Koltès sembra disposto fin dall’inizio a un all-in. Il teatro non è il rifugio o la salvezza dalla vita, ma la forma di un azzardo esistenziale. Il 26 marzo 1968, poco dopo aver compiuto vent’anni, scrive a sua madre una lettera così bella da sembrare un manifesto: 

 

“Vent’anni: perché voler dire a ogni costo che questa età è il periodo più brutto della vita? È un’età forse di difficoltà, certo, di indecisioni, ma personalmente resto persuaso che la vita è quanto ce ne facciamo di essa, e che non c’è età che sia particolarmente sfortunata, se non quella in cui si abbandona la partita. E la si può abbandonare a ogni età. Troverò la vita immonda il giorno in cui mi metterò ‘seduto’ e non vorrò più rialzarmi. Per il momento per me vent’anni è l’età di una grande decisione, è l’età in cui rischio la mia vita, il mio avvenire, la mia anima, tutto nella speranza di ottenere di più; è l’età nella quale ‘prendo dei rischi’. È terribile, certo… ma non è questo vivere? (…) Non desidero che una cosa: essere capace, nella mia vita, di correre dei rischi e di non volermi mai fermare in cammino. Non è forse questo ‘avere sempre vent’anni?’ Eccomi per esempio alla vigilia del mio mettermi al servizio del Teatro. Credo di averne pesato tutti i rischi, e di averne misurato gli inconvenienti. Eppure, corro questo rischio con felicità, malgrado l’abisso che mi attende se fallisco. Se fallisco, sarò un essere sbagliato senza alcun dubbio, sarò senza una ‘situazione’, una famiglia, una ragione di vita, senza alcun posto nella società. Lo so. Ma per questo dovrei forse rinunciare alla speranza di una vita piena, debordante di una ragione di vivere, nel pieno senso della parola? Dovrei rinunciare a tutto ciò che posso apportare al mondo, per quanto piccolo? Conosco il tuo tormento: rischio la mia ‘anima’. Ma mamma, quanta felicità – non è vero – se potrò dire alla fine della mia vita di fronte a Dio: ‘Vedi, ho rischiato e ho vinto’”. 

 

 

Il teatro inflessibile, severo, vitale di Koltès è lì a un passo, generato dalla stessa esigenza di azzardo che muove tutta la sua vita. È la logica estrema del ‘tutto o niente’ applicata, sistematicamente, alla vita, alla politica (si iscrive, quasi da subito, al Partito Comunista) e poi, di conseguenza, alla creazione teatrale: 

 

“Concepisco di fare una cosa del genere solo se devo farla: intendo dire solo se si ha davvero bisogno di me a teatro. Non voglio essere di troppo, detesto la mediocrità nell’arte, è peggio ancora del fumo e della stupidità. Capiscimi bene, non si tratta di orgoglio, semplicemente ci sono già abbastanza stronzi sulla terra che non stanno al loro posto per aggiungerne un altro. Farò questo solo se le mie idee saranno realmente ed effettivamente interessanti e nuove. Il giorno in cui le mie idee – una volta espresse e proposte – verranno rifiutate, concluderò dunque che quello non è il mio posto. E comunque, il mio posto non sarà neanche altrove. La mia anarchia dovrà dunque scoppiare e scoppierà dove potrà, non importa dove, ma sarà così violenta che non sopravviverò”. 

 

Difficile, alla luce del poi, non vedere in queste parole il segno della condanna. Koltès morirà giovane, troppo giovane – a quarantun anni, di Aids. È difficile immaginarlo anziano, soprattutto in queste lettere: un eterno ragazzo impegnato in un estenuante corpo a corpo con la vita. Resterà deluso chi, in questo epistolario, cercherà una genesi più dettagliata delle singole opere teatrali, un qualche retroscena – Koltès vi fa cenno solo di sfuggita, trasversalmente; per quanto anche in questo campo emerga prepotente una consapevolezza artistica che non accetta, mai, compromessi: dalla dedizione al sodalizio con Chéreau alla lotta strenua per avere, come traduttore tedesco, nessuno che non fosse Heiner Müller. Ma queste lettere non sono un territorio di indagine filologica. Si potrebbe dire che il teatro, per Koltès, è subordinato a un’esigenza principale, che è sempre quella del cercare il contatto col mondo: entrare nei rapporti fino a toccare il punto più profondo, quello in cui si sentono vibrare i nodi fra le cose: 

 

“Dopo che si è amato anche solo una volta nella vita si sa – o si dovrebbe sapere – che ci sono almeno due livelli attorno ai quali si strutturano i rapporti; c’è il livello dell’esistenza in senso aneddotico, con la formazione delle abitudini, la costruzione del passato, l’esperienza di una quantità di sentimenti secondari come la gelosia, l’avversione ecc. Ma questo livello, il solo di cui si parla quando si parla d’amore, non è il più importante e non è certamente quello riservato all’amore. C’è un altro livello, più profondo, assolutamente inesprimibile, sempre inespresso, sovente ignorato, che è quello statico, indifferente ai tumulti dell’esistenza, dove gli esseri umani si annodano tra loro come corde, lentamente, silenziosamente, ma con legami irreversibili che sembrano un’escrescenza che cresce su sé stessa. È questa la sola cosa che conta, quella cui spesso non pensiamo, quella che anneghiamo in interminabili chiacchiericci interiori sulle disgrazie, le quali finiscono per invaderci l’anima, incatenandosi le une alle altre inutilmente e senza fine, arrotolandosi su loro stesse senza riuscire a smuovere mai nulla. Pertanto, il solo pensiero d’amore possibile, il solo modo per ritrovare un essere assente, sta nella ricerca di quel livello profondo dove risiedono i veri legami. (…) Bisogna imparare un altro modo di pensare, un altro modo contemplativo, che non cerchi la spiegazione, né la comprensione, (…) senza sentimenti addirittura, intendendo le infinite variazioni dei sentimenti superficiali”. 

 

 

La lettera è del ’77: Koltès ha quasi trent’anni. Eppure il nucleo ideale del suo teatro antinaturalistico, vocativo, fondato in una fluviale verbalità antipsicologica e apparentemente priva di azione, è già perfettamente formato. Quello che Koltès prova a cogliere nella sua indagine drammaturgica non è l’infinita oscillazione delle relazioni umane, ma lo svolgimento dei rapporti di forza. La sua idea di situazione teatrale risponde a una diversa idea di azione: ciò che si muove nei suoi personaggi non sono le motivazioni psicologiche, ma le forze storiche, di cui gli individui non sono che le figure finali: fantasmi agiti dai processi storici, eppure ansiosi di una felicità impossibile, portati in quel luogo nevralgico e ambiguo dove corpo e parola non si distinguono più: il palcoscenico, appunto. 

 

Ancora alla madre: “Tu sei erede di una tradizione giudeo-cristiana che si è risolta nel compiere una separazione tra la carne e lo spirito totalmente artificiale, mostruosa, che ha fatto più male che bene. Amare qualcuno ‘con la carne’ è una maniera di amare o di parlare che vale quanto un’altra, né meglio né peggio. Per tornare al mio personaggio [di Notte poco prima delle foreste], il punto è sapere se possiede altri mezzi rispetto all’avere un rapporto d’amore con gli altri. Durante tutta la durata del testo, egli spiega perché tutti gli altri mezzi gli sono stati impediti. C’è un grado di miseria (sociale, o morale, o tutto ciò che vuoi) dove il linguaggio non serve più a nulla, dove la facoltà di spiegarsi con le parole (che è un lusso dato ai ricchi con l’educazione, ed ecco il fondo vero della questione) non esiste più. Dunque (credimi sulla parola!) alle volte c’è un grado di conoscenza, di tenerezza, di amore, di comprensione, di solidarietà che si raggiunge in una notte, tra due sconosciuti, superiore a quello che due esseri non riescono a raggiungere in una vita intera. Questo mistero merita che non si disprezzi nessun mezzo di espressione di cui si è testimoni, ma che anzi si passi il proprio tempo a tentare di comprenderli tutti, per non rischiare di perdere le cose essenziali”. 

 

Anche questo, come tutti gli epistolari, coincide con la vita del suo autore, e bruscamente si chiude con essa. La morte di Koltès lo colloca immediatamente nella categoria dei morti precoci – come Büchner e Rimbaud, come Kleist e Leopardi. L’ennesimo astro nascente morto troppo presto. Una cometa però più lieve e sfuggente, più svagata, così come sanno essere svagati certi ragazzi imprendibili e sognanti – capace, poco prima di morire, di scrivere all’amico François Regnault una lettera come questa, stupendamente al limite fra il genio, il sogno e lo scherzo – l’utopia giocosa di chi, per dirla con Pasolini, non ha mai voluto essere adulto: “Scambierei, credimi, tutti i sorrisi di Minuit, tutti i cavalli, e persino Shakespeare per essere stato fotografato nel 1890 da una persona non identificata, mentre me ne sto imbronciato all’ombra di una tigre”.

 

Bernard-Marie Koltès, Lettere, a cura di Stefano Casi, Cue Press, euro 37,99, interactive e-book 14,99 

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