Apocalisse / Franzobel, La zattera della Medusa
18 luglio 1816: nel mare al largo della Mauritania il brigantino Argus avvista tra i flutti un relitto alla deriva. Avvicinandosi, i marinai vedono che – aggrappati a quello scampolo di assi di legno – ci sono i corpi consunti di quindici uomini, da tredici giorni alla deriva in mare, preda della fame, della sete, delle onde. Sono gli unici superstiti dei 147 passeggeri saliti a bordo di una zattera messa su alla bell’e meglio dopo che la nave francese Medusa si è arenata nelle sabbie africane d’Arguin. Mentre i superstiti raggiungono Parigi, la loro storia scuote e interroga l’opinione pubblica: cosa è successo su quella zattera? Come hanno fatto a resistere? E soprattutto: cos’è successo agli altri?
Questo il plot, ferocemente giallistico, di La Zattera della Medusa, ultimo corposo romanzo di Franzobel (pseudonimo dell’austriaco Franz Stefan Griebl, una fra le voci più popolari della narrativa in lingua tedesca), da poco uscito per il Saggiatore. Un romanzo carnevalesco e polifonico, grottesco e sgraziato – una sinfonia animalesca intorno a un interrogativo tanto irraggiungibile quanto squisitamente pop: a quali abissi d’orrore può spingersi la natura umana una volta isolata dalla civiltà e pressata dal bisogno? Il tema del cannibalismo è, ovviamente, il centro del discorso, e lo è fin dalle reazioni dei contemporanei ottocenteschi, che intorno alla zattera della Medusa costruirono uno fra i primi grandi casi mediatici dell’età moderna. Ecco cosa scrive il ministro della marina francese, il generale Bouchage, al re Luigi XVIII: “Risparmio a Vostra Maestà la descrizione delle orribili scene causate dalla fame e dalla disperazione accadute su quella zattera.
E risparmio a Vostra Altezza serenissima anche la descrizione delle spaventose atrocità che sono state commesse in tredici giorni di abbandono. Al contrario mi rammarico profondamente che i giornalisti abbiano svelato dei fatti che sarebbe stato molto meglio tenere celati per sempre all’umanità”. L’orrore e il desiderio, la diffidenza e la morbosa attrazione, il chiacchiericcio, lo shock, la vana e ipocrita invocazione del pudore: intorno alla zattera della Medusa la Francia post-rivoluzionaria conosce un nuovo connotato – forse il più violento – dell’opinione pubblica.
Ne è prova il fatto che da quell’episodio è nata una delle più solide e vittoriose icone del moderno da noi conosciute: il celeberrimo quadro di Théodore Géricault, che ora troneggia, più fotografato di una top-model, al Louvre, è diventato la formulazione di uno dei più forti postulati del Romanticismo in cui tuttora in parte sguazziamo: nel massimo dell’orrore si ritrova una componente di bellezza; nel dolore, guardato attraverso il prisma dell’operazione estetica, si ritrova una forma di piacere. Un piacere impuro e tutt’altro che innocente: un piacere ancestrale e morboso, in cui l’ammirazione si mescola alla vergogna, e l’estasi a un tacito, feroce sollievo: grazie Signore di avermi messo in grembo alla Civiltà. In forza di questo scandaloso piacere, non privo di una certa feroce ironia, Franzobel scrive un libro compiaciuto ma non compiacente, terribile e farsesco: una scomposta e colorata pornografia del tragico.
Ma cos’è che disturba, scandalizza, spaventa nella vicenda della zattera della Medusa? In primo luogo, il modo in cui mostra il corpo umano. Si ha un ben tessere la gloria del corpo umano come riflesso del divino e tempio dell’infinito: qui viene osservato e verificato molto, anche troppo da vicino: e l’esperimento non regge. Il corpo umano diventa qui un misero, imperfetto meccanismo, privo di qualsiasi grandezza, e anzi assillato da defezioni e bisogni, non abitato da nessuna gloria: carne, macelleria di basso rango. La diabolica sarabanda corporale che Franzobel mette in scena – malformazioni, pustole, mutilazioni, secrezioni, clisteri, feci, umori – non serve che a un’incessante degradazione del fisico a cruda materia. La gente inizia a cadere in acqua, a impazzire, a uccidere e a morire, e man mano che passa il tempo tutto questo diventa sempre meno significativo, e paradossalmente tanto più insignificante quanto rovinoso: quello che deve succede succede, le barriere cadono rapide una dopo l’altra, è un precipizio neutro come la gravità, e per questo tanto più terribile. La natura non è melodrammatica, è meccanica. Lo sfascio è tragico solo negli occhi di guarda, ma dal punto di vista dei processi fisici, esso è un processo inesorabilmente coerente: la nave affonda, il tempo si dilata, il corpo denutrito deperisce, si aggrappa a quel che può, si nutre di quel che c’è – la mente allo sbando deraglia, la materia degrada.
Ed ecco qui il secondo punto: la moralità non sembra avere nulla d’innato; è un fortunoso privilegio delle circostanze, al di sotto del quale c’è l’inferno. «Food first, then morality», ricordava Brecht. “Che ne sarà della nostra innocenza?”, si chiede uno dei personaggi. Ma il punto è proprio questo: al di sotto di un certo livello di soddisfazione dei bisogni primari, c’è il caos. La civiltà borghese, con tutti i suoi squilibri, assume qui di riflesso un valore teologico: diventa la linea che ci separa dal divorarci l’un l’altro come naufraghi affamati, la barriera che ci divide da quegli Estranei che noi stessi potremmo diventare gli uni per gli altri. Per questo, pur essendo uno straordinario e dettagliatissimo romanzo di mare, non associamo La zattera della Medusa solo ai capisaldi della narrativa di mare – Stevenson, Melville, Conrad – e a grandi affreschi di naufragi cinematografici – Titanic, The Terror – ma anche a certe grandi allegorie sperimentali, come Il battello ebbro di Rimbaud o Il naufragio del Deutschland di Hopkins.
Poche epoche più della nostra hanno avuto una tale familiarità col tema e le immagini dell’apocalisse: tuttora conviviamo agevolmente e quotidianamente a stretto contatto con svariate immagini della fine.
È probabile che in questo ci sia una certa dose di civetteria nera, quella truculenta ironia che rende la nostra società insieme tanto cinica e tanto vulnerabile. Ma è forse vero anche quello che di recente ha scritto a proposito di un’altra di queste immagini – forse non così lontana da quella della zattera della Medusa – e cioè quella dell’apocalisse climatica: «È sbocciata in alcuni ambienti anche una naturale e profonda attrazione verso l’apocalisse. Nutriamo un certo fascino per la fine, siamo sedotti dalla tragedia suprema perché rende prevedibili le minacce pendenti a mezz’aria, dà un nome alla nostra mortalità, dà un volto concreto alle nostre fobie; l’ansia dell’incertezza svanisce».
Forse varrà quindi la pena ricordare che alla Medusa – quella della mitologia greca – viene tagliata la testa a causa di un troppo vedere: e cos’è quel “troppo”, se non la propria stessa immagine allo specchio?
Franzobel, La zattera della Medusa, Il Saggiatore, Milano 2019 (Paul Zsolnay Verlag, Wien 2017), pp. 544, 25 €.