Galleria Civica di Modena / Ryoichi Kurokawa e l’unità naturale del tempo
Nella teoria più accreditata sulla nascita dell’Universo si è definito che la sua espansione abbia avuto inizio subito dopo il Big Bang con la conseguente nascita dello spazio-tempo. La fisica moderna considera infatti l’era di Planck che si pone tra l’istante zero e quello dell’esplosione, quando le quattro forze fondamentali – elettromagnetica, nucleare debole, nucleare forte e gravità – avevano la stessa intensità ed erano unificate in una sola forza, come l’unità naturale del tempo. In origine dunque le quattro forze costituivano un Unico. L’universo aveva una determinata dimensione, era un concentrato di energia che successivamente avrebbe generato dei flussi.
Nella cultura dell’estremo oriente assistiamo da tempo a un processo di riflessione e di decifrazione dei flussi immateriali, come le realtà virtuali prepotentemente entrate nel nostro quotidiano, rapportati o meglio ricondotti al senso naturale delle cose, un senso primordiale. Ciò accade, per esempio, nell’ambito musicale con le contaminazioni tra suoni elettronici e naturali che danno vita a un nuovo suono sperimentando la possibilità di interazione tra quella che è la realtà fisica del mondo e la sua realtà virtuale.
Il maggiore esponente di questa visione musicale è senza dubbio il compositore giapponese Ryuichi Sakamoto, il quale ha portato all’attenzione di un pubblico più vasto una musica che per la prima volta amalgama naturalmente suoni diversi estratti sia dal mondo reale sia dagli oggetti costruiti dall’uomo unendoli al suono elettronico, un mix che Sakamoto ha elaborato nel tempo e in cui si è avvicinato sempre più alla collisione tra i suoni fino a giungere ad una armonia nuova.
Tali sperimentazioni sono andate di pari passo con riflessioni sempre più incisive su cosa significhi il tempo, il vuoto e lo spazio nell’immagine fotografica in relazione all’individuo e al suo esistere nel mondo, grazie ad autori che hanno messo in scena il “tempo come memoria tra passato e futuro” quali ad esempio i coreani Jungjin Lee e Koo Bohnchang, che soltanto apparentemente trattano il “paesaggio” o lo “still life” mentre, attraverso la rarefazione del soggetto ripreso, giungono invece all’essenza del vedere.
Nel solco tra immagine naturale e immagine virtuale si colloca Ryoichi Kurokawa (Osaka, 1978) di cui è possibile visitare la mostra al-jabr (algebra) in corso a Modena presso la Galleria Civica. Kurokawa comincia negli anni Novanta a produrre installazioni audiovisive in cui coniuga suono e immagine sperimentando pionieristicamente l’esperienza della contaminazione dei sensi nella percezione (sinestesia). Il suo percorso artistico nasce con la musica, passa attraverso le installazioni multimediali per arrivare oggi a produrre sculture e stampe avvalendosi di sistemi creativi altamente tecnologici. Il suo metodo, pur giovandosi di collaborazioni scientifiche di alto profilo come quella dell’astrofisico Vincent Minier (Università Paris-Saclay e Università di Nantes), rimanda a una concezione fattuale della tradizione paragonabile a quella del kintsugi ovvero l’arte giapponese che utilizza l’oro per saldare oggetti di ceramica che hanno subìto danni evidenziandone così la fragilità sottolineandone, al tempo stesso, la forza riconquistata proprio grazie alla ricomposizione delle parti.
Il complesso delle opere esposte è la dimostrazione di come l’uomo può interagire e finanche maneggiare l’elemento virtuale portandolo su un piano che avvicina lo spettatore al fascino degli elementi scientifici senza esserne fagocitato o allontanato. Tuttavia questi due sentimenti appaiono qui “accettabili” in virtù del fatto che se ne scopre il reale senso, vale a dire: il gioco che si stabilisce tra fruitore e opera paradossalmente è proprio quello di cadere al suo interno per tornare ad emergere e osservarla dall’esterno con una consapevolezza nuova data dall’esperienza.
Siamo difronte a uno sguardo che si pulisce dalle contaminazioni, l’osservatore deve qui assumere un atteggiamento che va oltre la semplice fascinazione delle immagini e sforzarsi di entrare in una dimensione che, per quanto virtuale possa essere, diviene un esercizio di comprensione visiva.
Non vi è dunque in Kurokawa soltanto l’esibizione di un visuale generato da una serie di calcoli ma la rappresentazione di quella che l’autore definisce “sculture time-based”, cioè un’arte che si basa sullo scorrimento del tempo in relazione a immagine e suono.
Non a caso l’autore paragona l’osservazione della natura ad un’analisi scientifica tanto da collaborare abitualmente con realtà come il Laboratorio iberico internazionale di Nanotecnologia con il quale ha realizzato ad/ab Atom (2017). Sette schermi compongono l’opera, alla fine del tempo stabilito le immagini ricominciano a scorrere d’accapo, da uno schermo all’altro senza soluzione di continuità. Il tempo è un segmento ripetibile, a volte si ferma per qualche istante, l’immagine scompare – o siamo noi a non percepirla più? – Il flusso qui viaggia in due direzioni: avanti e indietro contemporaneamente, ogni schermo irradia immagini differenti o è la stessa immagine che, passando da uno schermo all’altro si trasforma? Ciò che vediamo è la realtà scientifica della materia osservata attraverso la meccanica quantistica, l’operazione svolta dall’autore mette in contatto le antiche elaborazioni algebriche, quando queste funzionavano osservando proprio la natura, con una interpretazione contemporanea del calcolo stesso che, mediante la moderna tecnologia, è in grado di mostrarci l’invisibile, il suo muoversi sottotraccia, il suo crescere e trasformarsi esattamente come ancora oggi accade all’Universo in cui viviamo.
Già in unfold (2016), prima installazione audiovisiva che si incontra in mostra, il flusso di energia riempie le forme fino a farle scomparire. Se ne percepisce la concentrazione, il suo continuo trasformarsi è come una rete che collega e attraversa ogni cosa, destruttura e ristruttura la forma. Ma la memoria di ciò che è stato, come un occhio che sta per chiudersi per sempre (metafora della morte) ripercorre al contrario la forma stessa (metafora della vita). L’artista rende qui esplicito il processo di nascita e morte attraverso la rappresentazione del perpetuarsi della materia che rinasce ogni volta che si verifica una collisione tra sistemi stellari, in un continuum che possiamo definire eterno: si crea un’origine per finire con una memoria e ricominciare d’accapo.
Anche in elementum (2018) il tema della rinascita attraverso la morte rappresenta il cuore dell’opera. Utilizzata in alcune discipline per alleviare il senso di oppressione negativa, la tecnica oshibana – l’arte di pressare elementi naturali quali i fiori – cui fa riferimento questa serie, si compone di tre proprietà che rendono esplicita la transitorietà delle cose. Un percorso in cui dall’abbandono della mente (mushin, letteralmente “senza mente”) ci si libera dall’accanimento nel ricercare la perfezione passando attraverso annicca (“impermanenza”) che porta a percepire l’accettazione della fine dell’esistenza – e dunque la morte – fino a giungere a mono no aware, un sentimento che ci permette di ottenere una maggiore consapevolezza difronte alla realtà che tutto finisce per rinascere e quindi alla scoperta che nella fine vi è la bellezza.
oscillanting continuum (2013) mostra nuovamente una attraversabilità della materia che costituisce l’Universo. Di questa forza propulsivo-magnetica che permea ogni cosa, compreso l’individuo, l’autore ci fornisce una rappresentazione ancora una volta grafica che si basa su rilevazioni scientifiche. Una linea rossa orizzontale collega due video accostati facendo letteralmente saltare le oscillazioni rilevate da uno schermo all’altro come se non fossero separati. Tuttavia esse si trasformano poiché l’equilibrio che le attraversa è impalpabile, passano da uno schermo all’altro cambiando posizione e colore, ponendosi al di sopra o al di sotto della linea rossa centrale come se quest’ultima rappresentasse un virtuale equatore e le oscillazioni lo sconfinassero dall’alto al basso e viceversa mostrando al contempo una contaminazione che appare come metafora di uguaglianza interscambiabile. Una matrice di energia che viaggia attorno a noi, nei due emisferi dell’esistenza, esce e rientra, si addensa come uno sciame di insetti creando un nucleo, disegna forme dapprima chiare e semplici che diventano via via più complesse fino a giungere anche qui all’esplosione – il caos primordiale del Big Bang nella sua infinita replica – dalla quale rinasce un nuovo schema.
C’è nell’opera di Kurokawa un precipitare della materia in cui il tempo può essere osservato indistintamente da destra a sinistra e dall’alto verso il basso: ciò che ci appare diverso in realtà è uguale perché la materia rappresenta il Tutto non esiste un unico modo di osservarla e questo si può evincere soltanto osservandola scientificamente. La scienza, pare suggerirci Ryoichi Kurokawa, in fondo non è altro che natura in una differente forma.
Galleria Civica di Modena, dal 14 settembre 2018 al 24 febbraio 2019.