Le fatiche della rigenerazione

“Assolutamente no”. Si è chiusa con questa risposta perentoria una case history sulla rigenerazione di spazi pubblici per scopi sociali che abbiamo realizzato di recente. E il no è riferito alla possibilità di replicare l’iniziativa in altri contesti. Meglio quindi indagare le ragioni di questo “gran rifiuto”, considerando che, soprattutto negli ultimi tempi, si arrichisce l’offerta di beni immobili di varia natura e in vario stato affinché vengano riattivati per ospitare iniziative in campo sociale, culturale, ambientale, in particolare da parte di organizzazioni nonprofit e d’impresa sociale. Una proposta sempre più ampia che però rischia di non intercettare una domanda in grado di gestire processi così complessi e di medio periodo.

 

Naturalmente l’episodio citato è solo la punta dell’iceberg di una casistica che andrebbe approfondita perché i duri bagni di realtà a cui si sono sottoposti coloro che hanno intrapreso in questo campo sono sempre più numerosi. Meglio quindi approfondire i nodi critici della rigenerazione degli asset comunitari in uno snodo cruciale del percorso. Si passa (o si cerca di passare) da iniziative “point to point”, cioè legami diretti tra il possessore del bene e l’ente che propone il progetto di rigenerazione, ad azioni di sistema che chiamano in causa consistenti patrimoni immobiliari sparsi sul territorio e quindi sollecitano le organizzazioni di rete. Dal comune di Milano che mette a disposizione parte del suo patrimonio immobiliare per progettualità sociali e culturali a Ferrovie dello Stato che sigla un protocollo con rappresentanze del nonprofit per l’assegnazione di centinaia di stazioni impresenziate. Per non parlare dell’effetto esercitato dai contest che premono il tasto dell’innovazione sociale. Basta scorrere l’elenco dei progetti selezionati da cheFare per avere chiara conferma in tal senso.

 

Considerando questa ampia e variegata casistica, quali sono gli elementi di attenzione per evitare, o almeno limitare, il fatto che si crei una sorta di “bolla immobiliare” di beni riattivabili?

 

Il primo elemento riguarda l’identificazione delle strutture che, a prescindere dal loro stato (abbandonate, sottoutilizzate, immediatamente fruibili) e dal proprietario (pubblico, privato e forme miste) sono classificabili come contesti di rigenerazione sociale. In questo senso assumono rilevanza le azioni di mappatura se però hanno la capacità di coalizzare intorno al bene comunità on e off line in grado di esprimere un interesse di tipo “pubblico” sulla destinazione d’uso e, di conseguenza, mostrare un potenziale di attivazione in tal senso. Una fase di advocacy tipicamente nonprofit che fa da innesco al processo vero e proprio di rigenerazione.

 

Il secondo elemento di attenzione riguarda la leadership dei processi di riuso. Si assiste, di solito, a due soluzioni estreme. Da una parte si concentra in un solo soggetto (o in una compagine limitata) l’insieme di risorse e responsabilità che afferiscono alla gestione dell’iniziativa. Ma così facendo si rischia di mettere “sotto stress” l’organizzazione. All’opposto, i processi di rigenerazione interrogano anche reti più allargate e orizzontali dove i legami sono così laschi da rendere difficoltosa l’attribuzione di chiare responsabilità.

 

Un terzo passaggio, strettamente legato al precedente, riguarda l’accompagnamento dei processi di rigenerazione degli asset comunitari. L’impressione è che molte di queste iniziative vivano sulla loro pelle l’assenza, o la scarsa strutturazione, di una funzione consulenziale che aiuti ad affrontare il percorso, ad iniziare da aspetti molto operativi che riguardano, ad esempio, la determinazione del valore dell’immobile, i vincoli contrattuali per l’acquisizione, lo spinoso problema della burocrazia legata alle autorizzazioni e alla messa a norma degli spazi. A questo stesso livello si collocano le incertezze sul versante degli assetti di governance che richiedono un certo margine di “creatività istituzionale”, dando vita a soggetti ibridi che sappiano non solo tenere in equilibrio, ma far dialogare in senso virtuoso socialità ed economia.

 

Infine un ultimo passaggio critico, forse il più rilevante, riguarda l’individuazione delle attività che hanno il compito di “portare a regime” la struttura rigenerata. In questo ambito esistono due importanti questioni da affrontare. La prima riguarda la sperimentazione delle iniziative che possono essere ospitate, testando se sono realmente efficaci rispetto ai beneficiari individuati e se si sviluppa una qualche complementarità virtuosa con lo spazio disponibile. La seconda questione riguarda le economie esterne in grado di generare risorse per la sostenibilità. Le azioni di rigenerazione si realizzano in massima parte grazie ad un mix di risorse (economiche e non, di mercato e donative) dove un ruolo chiave è giocato dalle compensazioni delle attività market a favore di iniziative a più elevato impatto sociale ma a minor controvalore economico.

 

Tipicamente si tratta di strutture di ospitalità, ristorazione, intrattenimento aperte ad un pubblico indifferenziato dalle quali ci si aspettano risorse utili a cofinanziare altre attività di produzione di beni meritori per i quali non esiste, o esiste solo in parte, la possibilità di gestirle in regime di mercato. Il problema in questo caso è gestionale e riguarda la capacità di raggiungere quel break-even point oltre il quale si rendono disponibili risorse aggiuntive.

 

Questioni non da poco. Che chiamano in causa il tema delle competenze lungo uno spettro molto ampio che va dal management di progetto, alla programmazione finanziaria, al business modelling, passando per la gestione di processi comunitari e per capacità di gestire la “logistica interna” alla struttura rigenerata, come ben ricordava qualche tempo fa il promotore di una buona pratica di riuso. Tutti aspetti che dovrebbero rappresentare i punti fermi di un’agenda di politiche che, se non elimini, almeno alleggerisca le fatiche della rigenerazione.

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