Speciale

Fatte la vespa!

12 Settembre 2012

La vedi venire verso di te, tranquillamente contromano, l’aria sdegnata di chi si sente nel giusto, piena di disprezzo per noi motorizzati, il suo bravo cestino davanti al manubrio a stanga della sua  bicicletta vintage nera che peserà 15 chili (come quelle prodotte nel 1914 dalla Bianchi ad uso militare), priva di cambio o al massimo con tre rapporti, altrimenti c’è troppa tecnologia e la tecnologia, benché lei come noi tutti ci viva immersa fino al collo, è male. Probabilmente ha passato i cinquanta, porta non dico un gonnone Anni Settanta, ma qualcosa che ricorda i gonnoni Anni Settanta, i capelli grigio naturale, oppure fiammeggianti di henné, ma per il resto è sobria, senza fronzoli, anzi con qualche capo costoso, forse una sciarpa multicolore in maglina di cotone, la borsa a tracolla, oppure accroccata nella cesta, in testa talvolta un cappellino, talvolta di paglia, talvolta a larghe tese. Lei è puro ceto medio riflessivo: a vederla farebbe la gioia di Paul Ginsborg e di quelli di Libertà & Giustizia.

 

È probabile che faccia la traduttrice, oppure che insegni a scuola o all’università, oppure che abbia un negozio di erboristeria in società con un’amica, è anche possibile che non faccia un cazzo, a parte yoga, è plausibile che le piacciano i libri della Maraini, di Elisabetta Rasy, è ipotizzabile che sia vetero-femminista. Ma è sicuramente ambientalista, ci scommetteresti che è anche No-Tav. Il suo cuore batte a sinistra, o almeno così pensa lei del suo sentire politico incerto: è laica, ma non atea, piuttosto si definisce agnostica, perché l’esistenza di dio, se non può essere affermata, non può essere nemmeno negata. Forse le piacciono i radicali, forse voterebbe neo-comunista se i neo-comunisti «risolvessero certe ambiguità». Il Partito Democratico certo è un po’ sbiadito, peccato Veltroni, peccato D’Alema, così antipatico. Di Pietro troppo burino, Grillo è demagogo, Vendola sì, per quanto... In questa poltiglia di incertezze, mezzi convincimenti, tenui propensioni, decise repulsioni, l’unica certezza è che la Bicicletta È Buona & Fa Bene.

 

La bici, nella versione retrò da lei prediletta, è in sostanza la sola bandiera che le sia rimasta, assurta com’è a simbolo politico debole delle incertezze italiche Non-Di-Destra degli anni Dieci del Ventunesimo secolo. Per il ceto medio riflessivo − che ha fatto il classico in un buon liceo, al cui insegnamento umanistico-emozionale-antiscientifico resta molto legato − la bici è simbolo del mondo-come-dovrebbe-essere. Simbolo di lentezza invece che di velocità, di aria pulita invece che di inquinamento, di città a «misura d’uomo» invece che di «giungle d’asfalto», di salutismo dinamico invece che di stasi malsana, di silenzio invece che di rumore, di campanelli invece che di clacson, di risparmio energetico & di spazio a fronte dello spreco di entrambi da parte dell’automobile. La bici, da semplice e sofisticata macchina di locomozione muscolare che era, è divenuta emblema indiretto di protesta, vessillo da erigere contro la società tecnologica nella quale (e della quale) tutti viviamo e di cui il Treno Veloce è per l’immaginario para-politico (e para-ideologico) «antagonista» il simbolo da abbattere: sì alla Bici (polo positivo), no a Tav e Suv, poli negativi.

 

È para-ideologico tutto ciò che, invece di costruire un ragionato modello di società cui associare modi diversi di vivere, si concentra su un dettaglio del presente, simbolizzandolo al di là dei suoi reali contenuti, senza occuparsi della vera polpa politico-economica di tutto il resto. La bici diventa così emblema del luddismo anti-tecnologico e anti-scientifico che serpeggia nelle società occidentali, dei vagheggiamenti de-industralizzanti, dei «ritorni alla natura» con coltivazioni biologiche e annessi elogi della lentezza.

 

Perciò lei, in quanto ciclista, si sente nel giusto, come si sentono nel giusto (invece che semplicemente in gita) le famigliole in bici domenicale, mentre estasiate ballonzolano sui sampietrini e i ciottoli dei centri storici di cui si stanno riappropriando, sentendosi almeno per quel giorno razza eletta in un mondo di bruti motorizzati, cui anche loro ragionevolmente apparterranno dal lunedì successivo, quando dovranno come tutti buttarsi al lavoro su raccordi svincoli e tangenziali.
Altra cosa sono i maturi pedalatori di passione − quelli con pantaloncino aderente imbottito al cavallo, a proteggere prostate già un po’ usurate, la bicicletta da corsa nella quale hanno investito qualche migliaio di euro, il casco a goccia di forma strana e multicolore come un calamaro di plastica aggrovigliato in testa − che rischiano la vita sulle statali alla sera o al mattino presto e tutti i giorni si fanno trenta quaranta chilometri per il puro gusto di macinarseli nelle cosce e nei polpacci ipertonici.

 

Ho stima e rispetto per i tecno-ciclisti, cui piace pedalare fuori città col conta-battiti al braccio e il cronometro al polso, ma ogni tanto, incontrandoli curvi su per una salita, sono tentato dalla storica esortazione: Fatte la vespa!

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