Il taglialegna di latta e le logiche perdute della sinistra
Tutti penso conoscano la storia del taglialegna di latta del Mago di Oz. Prima di ridursi allo stato apparentemente inanimato di manichino di metallo – è così che lo incontra Dorothy in mezzo al bosco – il taglialegna di latta era un ragazzo in carne ed ossa, innamorato ricambiato di una ragazza proveniente dal paese dei Munchkins.
La ragazza era però a servizio di una crudele signora, che non aveva nessuna intenzione di rinunciare alla sua badante per l'amore del taglialegna. Crudele e anche con buone relazioni, tanto da convincere la Strega dell'Est a lanciare un maleficio sul povero taglialegna, che per colpa della magia incomincia ad amputarsi da sé gambe, braccia, testa e infine l’intero corpo. Per fortuna il ragazzo conosceva un fabbro capace di creare incredibili protesi di latta, che gli salvarono la vita. Ma alla sua nuova natura metallica mancava qualcosa di fondamentale: il cuore, perduto col vecchio corpo. E senza cuore era impossibile amare, beffarda rivincita della crudele signora.
È al taglialegna di latta che mi viene da pensare dopo le elezioni del 25 settembre che, a cento anni esatti dalla Marcia su Roma, sanciscono in Italia il trionfo della destra d’origine fascista e, dall’altra parte, l'irrilevanza sostanziale delle forze di sinistra. Irrilevanza non solo nei consensi ma in senso più ampio, nella evidente difficoltà con cui anche in questa campagna elettorale le posizioni di sinistra hanno trovato voce e rappresentanza, al punto che lo scoramento di molti elettori ha finito per sublimare nell'astensione.
Sono nato in anni in cui la militanza a sinistra era esperienza comune e diffusa, anni di riconosciuta egemonia del pensiero di sinistra sulla società italiana, e sono cresciuto in una famiglia impegnata in varie forme in questa temperie. Ho fatto quindi in tempo a percepire, prima che si sciogliesse come neve al sole, cosa significasse sentirsi parte di una grande comunità politica, quella della sinistra italiana e in particolare del PCI in cui militavano i miei genitori. Una comunità che si alimentava, e che alimentava a sua volta, un forte senso d’identità e di appartenenza. Quante volte ho sentito dire in casa “è un compagno”, con riferimento a una persona prossima o distante, non importava si trattasse del genitore di un amico o di un attore visto solo attraverso lo schermo della tv. Dietro quell’etichetta intuivo un grumo di complicità e comunanza che nasceva da lontano e che è difficile spiegare a chi ha conosciuto questo appellativo solo nella forma parodica o dispregiativa con cui è stato tramandato in seguito. Sentirsi parte di quella comunità voleva dire rivendicare, e in qualche modo effettivamente trovare insieme ad altri, il proprio posto nel mondo, una centratura ben diversa dal sapore minoritario e dal senso di incompiutezza che ho vissuto nella mia precaria partecipazione politica dei decenni successivi.
Sia chiaro, non sto idealizzando una realtà che non c’è più, lungi da me decantare i bei tempi andati. Sarebbe incongruo farlo ora guardando la fotografia di un’Italia convintamente spostata verso destra, dopo che anni di berlusconismo, leghismo, salvinismo hanno plasmato il paesaggio desolante che oggi ci sta di fronte; e sarebbe anche disonesto, visto che per vincoli generazionali li ho conosciuti solo indirettamente quei tempi andati. Appartengo a una generazione che si è trovata a crescere sulla linea di faglia tra un sistema ideologico, di militanza e partecipazione, in rapida dissoluzione e la speranza, presto smentita, dell'apertura di un nuovo orizzonte politico, che prometteva di liberarsi dell’acqua sporca del passato mantenendo però vivo il cuore pulsante di quell'esperienza.
Non è andata così, lo sappiamo bene, altre visioni del mondo hanno prevalso, incentrate sulle parole d’ordine della competizione, del mercato, della globalizzazione, dell’economia sopra a tutto. Visioni fatte proprie anche dalla sinistra, che del resto, di fronte a un mondo in mutamento, ha finito per imbozzolarsi e non affrontare le proprie contraddizioni. D’altronde le ideologie sono un mostro bifronte: finché funzionano ti sorridono, come uno specchio che permette di abbracciare il mondo in una visione coerente e controllabile, ma d’altra parte creano immagini distorte e idealizzate, che si cristallizzano offuscando i problemi, zavorrando la necessità di cambiamento.
Ecco, invece di chiederci come sia possibile che la destra abbia oggi rotto tutti gli argini, chiediamoci come è successo che l’avversario si sia smarrito a tal punto. Come è accaduto che la sinistra, come il taglialegna di latta, sia stata stregata dal maleficio neoliberista al punto da farsi via via a pezzi da sola, recidendo da sé organi e articolazioni vitali, e ritrovarsi così bloccata e arrugginita in un corpo freddo e metallico. Senza più un cuore, come ha scritto bene Marco Belpoliti alla vigilia del voto.
Non sono uno scienziato della politica, né è mia intenzione concentrarmi sugli errori commessi in questa folle campagna elettorale estiva dalle forze di centro-sinistra. Non voglio neanche proporre l’ennesimo elenco di temi con l’iniziale maiuscola abbandonati dalla sinistra, che andrebbero invece ripresi e rilanciati. Quello che propongo non è un discorso analitico, ma direi meccanico (ecco un altro riferimento al taglialegna di Oz), come quando da piccoli si smonta un giocattolo che si è rotto per vedere dal di dentro cosa si è inceppato. Anche se poi, sarà capitato anche a voi, non si è più in grado di rimetterlo insieme per farlo funzionare di nuovo.
A me sembra che siano tre le logiche, i meccanismi, che hanno sostenuto il cammino storico della sinistra e che sono entrate in crisi negli ultimi decenni. Le ho chiamate logica emancipatoria, logica rivendicativa, logica anti-sistema.
La prima è la logica più importante, perché costitutiva dell’idea stessa di sinistra. La sinistra nasce e si sviluppa storicamente declinando il concetto di emancipazione: emancipazione dei lavoratori sfruttati, emancipazione dei popoli colonizzati, emancipazione delle donne, emancipazione delle minoranze. La parola emancipazione deriva dal latino emancipatio, l’istituto attraverso il quale nel diritto romano il figlio otteneva l’estinzione della propria condizione di minorità: liberandosi dalla potestas del padre famiglia prendeva in mano la propria vita. Emanciparsi vuol dire uscire dalla subalternità, farsi soggetto, assumere una coscienza politica, imparare insieme ad altri a darsi un’educazione e una voce. Anche chi non appartiene al gruppo subalterno può far propria la logica emancipatoria, come ha insegnato il femminismo, a patto di accettare di mettere in discussione i cascami della propria appartenenza, perché l’emancipazione non è mai un percorso passivo.
Che ruolo occupa oggi la logica emancipatoria nel discorso della sinistra? Molto limitato, mi pare. Si confonde per lo più con la logica compassionevole, che è altra cosa. La compassione, verso il povero, l’immigrato, chi sta peggio di noi, è un sentimento nobile ma non può essere la leva di un progetto politico di sinistra. Perché, da una parte, presuppone che il noi che prova compassione si trovi in una condizione sufficientemente confortevole da potersi preoccupare verso “chi rimane indietro, chi non ce la fa”, per usare formule retoriche diffuse negli ultimi anni, diventando così appannaggio esclusivo di classi medio-alte. Il secondo problema è che la compassione, all’opposto dell’emancipazione, finisce per relegare l’altro da noi in una condizione di vittima, non di soggetto attivo. Come cantava Lucio Dalla, per un attimo il povero è innalzato “a un ruolo difficile da mantenere”, poi è lasciato cadere “a piangere e a urlare, solo in mezzo al mare”.
Bisogna aggiungere che nelle società neocapitaliste la sinistra ha confuso l’emancipazione non solo con la compassione, ma anche con una sua imago distorta, quella dell’inclusione attraverso i consumi. Come precocemente intuito da Pasolini, la promessa di liberazione per mezzo delle merci ha la capacità di rigenerarsi in forme sempre nuove senza mai toccare né mettere in discussione i rapporti di subalternità, e si traduce alla fine in un’omologazione che toglie più di quanto dà.
La seconda logica, quella rivendicativa, definisce invece la relazione con una controparte. Rivendicare significa reclamare un’azione presso un altro soggetto, che è unito a noi da un doppio legame: spaziale e di potere. Spaziale perché presuppone prossimità, occupazione dello stesso territorio; di potere perché questa occupazione è diseguale – qualcuno occupa posizioni migliori di altri – e riverbera disuguaglianze nei diversi campi di vita. Operai e borghesi, colonizzati e colonizzatori, donne e uomini, sono esempi di diadi la cui radice filosofica rimanda alla dialettica hegeliana servo/padrone, fatta propria come noto anche da Marx. La forma di relazione tra questi due soggetti, legati tra loro ma in opposizione reciproca, è naturalmente il conflitto sociale.
Come successo per l’emancipazione, anche la logica rivendicativa sembra essere uscita dai radar della sinistra. Del resto, ci sono ragioni oggettive per questa rimozione. Innanzitutto, è più semplice riconoscere la propria controparte in una società industriale di quanto non lo sia oggi nelle società complesse del capitalismo globale. Da un lato, la globalizzazione ha allentato i rapporti di prossimità e riconoscimento tra le parti – a chi rivolgere le proprie rivendicazioni se le élite sono collocate in un altrove apparentemente irraggiungibile? – dall’altro, la finanziarizzazione ha reso più complessi i legami di potere, indebolendo anche la leva della dipendenza reciproca. Se un tempo il capitalismo non poteva fare a meno del lavoro operaio oggi lo può fare, come dimostra la progressiva irrilevanza dello sciopero, persino di quello generale (lo ha notato Marino Sinibaldi in un suo recente intervento). E per questo purtroppo non stupisce che persino la mobilitazione globale di centinaia di migliaia di giovani attivisti per il clima abbia un’incidenza così limitata sulle politiche economiche e di sviluppo.
Pur di non affrontare queste contraddizioni, la sinistra sembra aver fatto propria un’idea amorfa di società, dove non c’è avversario, rivendicazione o conflitto. Mentre la destra ha approfittato di questo vuoto per proporre una versione grottesca e regressiva della rivendicazione, in cui chi sta meglio addita i poveri come capro espiatorio e nemico morale.
Ma è anche la natura dei problemi a essere mutata rispetto a un tempo, confondendo la capacità di applicazione della logica rivendicativa. Pensiamo, ad esempio, alla questione ambientale. Non si tratta solo di problemi di portata planetaria, che necessitano quindi di risposte politiche globali, ma la logica rivendicativa si indebolisce ogni volta che deve confrontarsi con problemi che travalicano i confini di un territorio circoscritto e controllabile.
Il risultato è che, proprio nel momento in cui le disuguaglianze si allargano come mai prima, la solidarietà tra gli svantaggiati si allenta, e non è mai stato così labile il riconoscimento di chi occupa le posizioni più scomode nella scala sociale da parte di chi alloggia nei piani più alti e confortevoli. Tutto ciò ha inceppato il meccanismo della rivendicazione e del conflitto, lasciando orfani di rappresentanza interi gruppi sociali. La crisi delle democrazie è sintomo e causa di questo processo.
La logica anti-sistema, infine, non ha bisogno di molte parole. La sinistra ha nel suo DNA l’anelito alla consapevole trasformazione della società, nel senso che l’orizzonte a cui tende non può prescindere dal superamento dello status quo, che è cosa diversa dalla retorica dell’innovazione per l’innovazione o, detto altrimenti, della modernità. Naturalmente, nella sua storia, il raggiungimento di questo obiettivo è stato declinato dalla sinistra con accenti e mezzi diversi, più o meno radicali o moderati a seconda delle stagioni e delle posizioni. Se la prospettiva rivoluzionaria è rimasta per lungo tempo un convitato di pietra, o se si preferisce una sorta di feticcio, a sinistra il riformismo – parola che ha perso via via i suoi connotati metodologici per assumere il valore di totem – non è mai stato disgiunto dalla prospettiva della trasformazione, anche radicale, della società.
Dovrebbe però essere ormai chiaro che la difesa del businnes as usual, dell’amministrazione dell’esistente, della governabilità come obiettivo supremo non possono sostenere una prospettiva di sinistra, perché un conto è interpretare con accenti diversi questo anelito al cambiamento, un conto è abdicare totalmente alla logica anti-sistema per assumere un connotato puramente conservativo.
Chi ha avuto la pazienza di seguirmi fin qui si chiederà a questo punto, e con ragione: va bene, ma la pars construens dov’è? Come ho già detto, un conto è smontare il giocattolo, un altro ricostruirlo. Ma qualcosa di costruttivo mi sento di dirlo, per concludere.
Se la ragion d’essere e la spinta storica della sinistra non sono esaurite, come credo, se i tempi che abbiamo di fronte sono gravidi di sfide e problemi enormi, come è evidente, se siamo d’accordo che abbiamo estremo bisogno di una politica che da sinistra affronti questa difficile realtà, io credo che sia da questi meccanismi, queste logiche inceppate che bisogna ripartire. Senza nascondere le contraddizioni e le aporie che le attraversano, ma sapendo che senza questi addentellati viene meno la capacità della sinistra di costruire discorsi convincenti sul mondo.
Come ci dimostrano i movimenti sul clima, che in fondo rivendicano la necessità e l’urgenza di una trasformazione profonda del sistema sociale ed economico, per emanciparsi dal capitalocene che ci sta portando rapidamente al collasso ambientale. Movimenti che ci hanno insegnato a rimettere al centro il tema delle ingiustizie, mettendo in luce le faglie che si stanno allargando tra i popoli e i gruppi sociali, colpiti in maniera diseguale dalla crisi ambientale. E senza la paura di additare, allo stesso tempo, quelli che sono gli interessi e i soggetti che ostacolano questa trasformazione e alimentano tale ingiustizia.
Non so se la sinistra sarà in grado di rifondarsi a partire da queste premesse. Ma se ci proverà allora forse potrà scoprire, come il Taglialegna di latta alla fine della storia, che non bisogna aspettare di ricevere un cuore nuovo per provare di nuovo emozioni e passioni. E imparare, da capo, ad amare.