Un peso all'altezza del cuore / Grace Paley. Tutti i racconti

5 Marzo 2019

A volte, per entrare nelle pagine dei grandi – gli autori che, per dirla con Lukács e con Franco Moretti, hanno fatto della forma la “risoluzione di una dissonanza dell’esistenza” – è necessario bussare. Per rispetto e con cautela, perché c’è sempre il rischio di distorcerne la poetica piegandola più del dovuto all’arbitrio. È sufficiente un temporaneo stato di rilassamento generale delle forze perché il lettore perda la capacità di storicizzare. Sarebbe un peccato, soprattutto quando si ha a che fare con autori inequivocabilmente politicizzati e capaci di trasformare la condizione soggettiva nella rappresentazione di un’esperienza umana che non è estranea al tentativo di afferrare il proprio presente, sempre incalzante ma così imprendibile. 

Quando la risolutezza con cui alcuni autori del Novecento hanno esplorato i grovigli insondabili della memoria del sé si lega a una riflessione più ampia sulla lingua e sui codici dell’ambiente sociale e del lavoro, così come sul rapporto con la religione, l’ideologia, le tradizioni, quest’attitudine alla combinazione di un certo tipo di militanza spirituale e di predisposizione al riposizionamento costante rispetto al mondo merita uno sforzo maggiore da parte del lettore. Ci sono opere, infatti, il cui sguardo sulle cose è così parziale – dunque universale, nella misura in cui getta un intenso fascio di luce su situazioni di subordinazione o di disuguaglianza – da spronare alla presa di posizione. Esse incoraggiano a non coincidere totalmente con la propria situazione storica, a staccarsi dal dominio opaco della contingenza che è governato dalla tirannia del presente, per lanciarsi nella comprensione delle origini di uno scrivere dettato da un’urgenza specifica, perché “comprendere un movimento, un autore, un testo è anche comprendere la relazione che c’è fra noi e la nostra epoca da una parte e quel movimento, quell’autore e quel testo dall’altra” (Romano Luperini). 

 

Nel caso di Grace Paley (1922 – 2007), una delle voci più autorevoli tra i maestri statunitensi della forma racconto, il suo progetto – la parola è qui usata nell’accezione che ne dà Franco Fortini: “la proiezione di una complessiva proposta di sé a sé stess[a] e degli altri a loro” – il suo progetto prende le mosse dalla percezione di un fastidio che è anzitutto fisico. È un peso quasi all’altezza del cuore che giorno dopo giorno si impone all’attenzione generale dei sensi, alterando anche la circolazione sanguigna. Qualcosa le è andato inesorabilmente di traverso: “[...] nel ’54 o ’55 sentivo il bisogno di parlare in maniera originale delle nostre vite di femmine e di maschi in quegli anni, c’era una consapevolezza che mi provocava una vera pressione fisica [...]”. E, ancora più chiara: “[...] ho cominciato a scrivere in un’epoca in cui i problemi delle donne mi facevano stare davvero male e mi riguardavano direttamente”. 

 

 

I personaggi femminili che popolano i racconti della scrittrice nei libri Piccoli contrattempi del vivere (1959), Enormi cambiamenti all’ultimo minuto (1974) e Quello stesso giorno (1985), ora raccolti tutti da SUR in un unico volume nella splendida traduzione di Isabella Zani, non esigono in modo diretto ed esplicito il riconoscimento di diritti negati o di meriti tolti, non sono quasi mai colti in momenti di rivendicazione di una stanza tutta per sé, intesa come il luogo dell’allontanamento dagli obblighi imposti per tradizione e consuetudine alle donne. 

Le “colleghe” di Faith Darwin, il personaggio e voce narrante che ricorre nei racconti di Paley e che si rivolge così alle amiche che condividono il mestiere di madre, le colleghe di Faith non sono quasi mai ritratte nella scoperta del proprio ruolo subalterno all’interno della struttura sociale. Ci ha già pensato la vita a questo, ritraendole in mille modi, ma sempre solo “[...] con due tipi di ciabatte, sandali fatti di niente per l’estate e l’altro paio belle imbottite di montone” (p. 359), e si farebbero senz’altro una bella risata se si vedessero prese e messe davanti alle ovvietà delle trame sulla liberazione interiore. Oltretutto perché la vita complica sempre le cose, allora non è proprio possibile leggere della quotidianità di questi personaggi con le nitide lenti delle opposizioni binarie – femminile e maschile, madri e padri, personaggi buoni e personaggi cattivi – perché c’è sempre un gran lavorìo esistenziale nelle pagine di Paley. 

 

In effetti, tra un bucato e l’altro, una visita medica e un rammendo d’emergenza, le donne di questi racconti non hanno tempo per i risvegli (The Awakening è il titolo di un importante romanzo della letteratura statunitense, scritto da Kate Chopin, vissuta nella seconda metà dell’Ottocento e considerata la zia di certa scrittura femminista d’oltreoceano). Anzi, queste donne sembrano dirci che i risvegli sono roba per mogli di ricchi uomini d’affari che a un certo punto della loro vita vengono comodamente baciate dalla perspicacia sul divano della seconda casa di proprietà, perché si accorgono, con gran turbamento d’animo, che il mondo è iniquo. Allora è tutto un invocare maghi medium divinità, mentre le altre, stufe marce di dover supplicare sia l’aldilà che l’aldiquà, sono costrette a fare le equilibriste sulla sottile corda del dare e dell’avere, invece di gettare la torrida luce della verità sulle loro aspirazioni più autentiche, magari scoprendosi pittrici.

 

Eppure ciò che a prima vista sembrerebbe una forma di reticenza, da parte delle donne di Grace Paley, rispetto allo smascheramento definitivo di quello che Pierre Bourdieu chiama il dominio maschile, si rovescia con straordinaria facilità nel suo contrario. Perché la scrittrice – newyorkese di famiglia ebrea russa – investe sempre i movimenti dei corpi di questi personaggi di una significazione sociale che trasforma immediatamente l’ottusità di certi comportamenti dettati dalla mera contingenza in esperienza universale di resistenza a un certo tipo di predestinazione, quella dettata dal silenzioso agire di agenti, come dire, extraletterari, sulla pelle di soggetti deboli ma mai piegati, “i quattro nostri nuclei familiari [...] condannati a rimanere culturalmente immobili mentre questa società si trasforma a passo di cingolato da banalmente opulenta a impero assoluto” (p. 257).

 

 

L’elemento essenziale di tutta la produzione letteraria di Paley (i tre libri nominati sopra e le sue poesie) è proprio la prodigiosa disinvoltura con cui è riuscita a strappare le incombenze e le assillanti interruzioni che caratterizzano le vite fortemente ritmate dal lavoro domestico e riproduttivo all’accecamento provocato dalla dimensione dell’immediatezza. Le ha trasformate anch’esse in materiale per un processo estetico basato anche – non solo – sull’instancabile riarticolarsi della voce narrante rispetto a ciò che sarebbe possibile considerare politico e ciò che non lo sarebbe. Per l’autrice, secondo cui “scrivere è agire, e anche parlare è agire”, lo spettro del vivere quotidiano cui attribuire valore letterario è molto ampio, nonostante si rimanga quasi sempre nel perimetro nella New York popolare della sua epoca. Perciò nei suoi racconti troviamo sempre il Bronx, il Lower East Side, i “ [...] ponti che collegano Manhattan al resto del mondo” (p. 237), la zona di carico e scarico del West Side, gli asili nido per bambini svantaggiati delle madri lavoratrici, il Central Park, la Centosettantaduesima Est, dove “campavano tutti con il sussidio” e dove “facevano tutti la fame alla stessa maniera” (p. 330). Ma anche gli alimentari e le drogherie, la sinagoga e l’ambulatorio medico; le scale antincendio, i muri di mattoni, le cantine e le cucine, soprattutto le cucine, dove si rammenda allo stesso forsennato ritmo delle delegate della Repubblica Popolare di Ubmonsk nella Bassa Tartaria i giorni che precedono la Giornata della Gioventù (quest’ultimo è un esplicito riferimento al racconto “Faith sull’albero”, tra i più belli della raccolta).

 

È un lasso temporale che va dalla seconda metà degli anni Cinquanta alla prima metà degli anni Ottanta del secolo scorso e quella di Grace Paley è una forma unica di radicalizzazione della scrittura: era inedita ai tempi ed è rara ancora oggi. Nel suo tono ha attecchito bene la consapevolezza che nulla è determinato solo da fattori soggettivi, neppure la possibilità di essere felici: anch’essa dipende dai processi storici, attraversati da battaglie che nella maggior parte dei casi sono sconfitte, in cui “l’importuna avidità di perfetti sconosciuti / [...] pieni della loro tracotante gratitudine / per l’incredibile successo / nell’esproprio di quanto apparteneva ad altre persone e altri popoli [...]” si nutre e prospera danneggiando le traiettorie esistenziali della maggior parte degli abitanti della nazione, persone del tutto simili ai suoi personaggi. 

 

Tuttavia, non vi è traccia di quella “tremenda serietà”, quel “tono assertivo che non ammette replica” su cui, per esempio, secondo Carlo Emilio Gadda si appoggiava la scrittura neorealistica. Tutto il contrario: i racconti di Grace Paley sono fatti di repliche, vale a dire di un vivace susseguirsi di voci che si alternano dentro dialoghi in cui il sistematico impiego dell’elemento umoristico ammette sempre la possibilità di un riassetto generale della parte del vero e del giusto. Perché Paley carica l’umorismo di compassione, sapendo che tutti hanno diritto a un po’ di sollievo di tanto in tanto: una battuta benevola, una pacca sulle spalle, un abbraccio. Per questo motivo la sua opera è anche un forte antidoto contro la cultura dello scherno che si è imposta in questi anni, che tende a confondere la maturità con la pedanteria da una parte, e l’acume con il cinismo dall’altra. 

  

 

Il modo di narrare la vita familiare e la dimensione domestica di Grace Paley, immune dal rischio di una visione astratta e mitica delle etnie e delle classi subalterne, passa sempre attraverso i toni scanzonati, ma non accoglie mai lo sberleffo, che per sua natura prevede l’abbandono della responsabilità. Invece Paley trabocca di responsabilità, anche nei confronti dei suoi personaggi, cui lascia persino l’opzione della fuga dalla condizione di strumenti inconsapevoli dell’assetto sociale in cui vivono: “La forma che piace a me comincia in una data direzione, e poi continua in un’altra. Cioè, ha un’apertura. Ha un’apertura per chi legge; e ha un’apertura per i personaggi del racconto. Certe volte leggi dei racconti e ti dispiace per i personaggi perché l’autore li ha finiti, li ha chiusi in una data situazione. Sai che se avessero avuto un altro paio di giorni di tempo, avrebbero potuto fare dei cambiamenti nella loro vita” (Ácoma). 

 

Faith Darwin, il sopraccitato alter ego dell’autrice, tende sempre a considerare i lati migliori della realtà, che riesce a vedere anche negli sviluppi sfavorevoli del corso degli eventi, forse proprio perché lei è tutta apertura verso il mondo, così ben rappresentata dal suo stare a dondolare i piedi su un ramo di platano nel racconto “Faith sull’albero”, già menzionato anch’esso. Questo racconto si trova in posizione centrale rispetto alle cinquecento pagine di cui si compone il volume, perché lei, da lassù, è l’incarnazione, o meglio, la materializzazione cartacea, del desiderio di avere qualche via d’uscita verso il futuro. Per questo motivo se ne sta a tre metri da terra, in mezzo al libro, sola a presidiare non la fortezza ma il quartiere; e non è esente da contraddizioni biografiche che da un racconto all’altro spiazzano il lettore attento, sia rispetto a una possibile comparazione con l’autrice, sia riguardo alla sua parabola esistenziale. Infatti, come nota l’americanista Annalucia Accardo: “in uno trascorre l’infanzia a Brooklin, in un altro nel Bronx, in un racconto è casalinga, in un altro scrive a macchina, in un altro ancora è poeta; e differenti sono anche i nomi di mariti, amanti e genitori”.

Faith, che entra ed esce dai racconti come dalla grocery dietro l’angolo, c’è anche quando non c’è, perché il suo nome è sulla bocca di altri personaggi o perché ha lasciato qualche traccia tangibile di sé che, per esempio, nel racconto “Presentatevi, o figli dell’arte”, è rappresentata da una coperta: “era la trapunta a patchwork della nonna di Faith, la sua amica, a tenerla bella calda nella stanza calda” (p. 246). 

Se ne sta sull’albero ad ascoltare, ma spesso, come molti dei personaggi di questi racconti, sta in casa. 

 

La casa, di nuovo. Si è detto all’inizio che per entrare nelle pagine dei maestri bisogna bussare. Tuttavia, nel caso di Grace Paley è meglio accedere ai suoi testi non dalla porta principale, bensì da un altro punto, la finestra, meglio se della cucina.

Picchiettiamo sui vetri della cucina allora, perché ci sono finestre ovunque nei racconti di Paley (è di nuovo la studiosa Annalucia Accardo a notarlo) dove, appunto, la primavera “è la stagione dei primi sguardi fuori dalla finestra” (p. 431).

Facciamo un paio di esempi per entrare nel merito della questione: nell’incipit del racconto “La voce più alta”, Shirley Abramowitz, la ragazzina protagonista e voce narrante della storia, chiarisce: “[...] ogni finestra è una bocca di madre che ordina alla strada di fare silenzio, andare a pattinare da un’altra parte, venire a casa”. Nel racconto intitolato “La volta che passammo tutti per fessi”, Paley racconta la precoce parabola discendente di Eddie Teitelbaum, l’inventore della Bomba Puzzolente, “un ragazzetto imperioso, scuro di guancia e bisognoso di rammendi” (p. 148), anche attraverso uno strabiliante sistema di dosaggio delle informazioni a carico delle madri del vicinato. La loro febbrile attività di intelligence condominiale non può prescindere dalle fenditure strategiche, perché è volta a vigilare sulle fanciullesche attività illecite del disgraziato, ben consapevole della presenza di quelle spie “che sbirciavano dalla finestra o piombavano come pietre sulla strada, che apparteneva ai bambini per diritto inalienabile” (p. 149). 

Come è possibile dedurre dal breve accenno alle potenzialità narrative di questo elemento – che in entrambi gli esempi si presta ad essere catalizzatore di punti di vista multipli e di voci intrecciate – e, in generale, delle aperture dei muri, le vicende sono spesso narrate da chi manca di informazioni o di visuali complete. 

 

La visione consapevolmente parziale delle cose si mescola all’umorismo e alla schiettezza: non ci sono giri di parole nei racconti di Paley, eppure ce ne sono stati molti durante la sua infanzia, giri spesso incomprensibili: come racconta nel testo “L’importanza di non capire tutto”, un titolo emblematico a questo proposito. 

La sua famiglia, spiega l’autrice, non era religiosa ma aveva una marcata identità ebraica, per questo motivo c’erano esperienze da cui era tagliata fuori, “perché la mia famiglia parlava russo, ma tutta la nostra strada parlava yiddish”, così a lei sembrava “che il mondo intero stesse bisbigliando nella stanza accanto”. 

Il sospetto è cognitivamente stimolante. Così, fortificano il suo plurilinguismo sia il chiacchiericcio incomprensibile del sabato, giorno di Shabbat, sia le sabbie mobili linguistiche in cui entrano ed escono con grande facilità i genitori, perché l’espatrio ha facilitato l’insorgere tra i due di un idioletto chiuso ed esclusivo. 

In un contesto linguistico del genere, capire interamente un aneddoto familiare ha il sapore del trionfo, per questo motivo forse, come ha più volte dichiarato, Grace Paley comincia sempre la scrittura di un testo con qualcosa che ha sentito, “è raro che si tratti di qualcosa che ho visto” (Ácoma). 

Siamo quindi grati a Grace Paley per avere dato alla dissonanza della sua esistenza la forma di un salvifico plurilinguismo che porta con sé tanto i silenzi dell’esperienza dello sradicamento quanto il vociare fragoroso di un profondo senso dell’altro.

 

Nota di Lettura

La frase di Lukács è tratta dal suo Teoria del romanzo [1920] e citata da Franco Moretti nel saggio “Grammatica e guerra: Grande fiume dai due cuori di Hemingway”, contenuto in Franco Moretti, Un paese lontano, Einaudi, 2019. Le parole citate di Romano Luperini vengono dall’introduzione del volume Romano Luperini, Dal modernismo a oggi. Storicizzare la contemporaneità, Carocci, 2018. 

La prima affermazione di Grace Paley sui motivi che l’hanno spinta alla scrittura di racconti è riportata nel testo “Responsabilità e felicità. Conversazioni con Grace Paley”, a cura di Edward Lynch e di Alessandro Portelli, contenuto nella rivista internazionale di studi nordamericani Ácoma, num. 5, 1995, p. 46. La seconda dichiarazione sullo stesso tema viene invece dal testo “Due orecchi e tre fortune”, che introduce la raccolta completa di racconti qui recensita. La frase “scrivere è agire, e anche parlare è agire” viene dalla sopraccitata conversazione in Ácoma (p. 47). 

I quattro versi citati sono della poesia “Discorso in occasione del convegno interconfessionale per la festa del ringraziamento” (contenuta in Grace Paley, Fedeltà, minimum fax, 2011, trad. di Livia Brambilla e Paolo Cognetti). Strano titolo per dei versi, è indubbio. Tuttavia, è la stessa Paley a darci delle spiegazioni, che possiamo leggere sempre nel numero 5 di Ácoma: “[scrivere poesia] mi sembra il modo migliore per dire in maniera semplice, chiara e concisa quello che ho visto e quello che succede. Le poesie sono il mio modo di informare il mio paese. Sono il mio modo di dare le notizie” (p. 51). Il bel saggio di Annalucia Accardo cui si fa riferimento un paio di volte è il libro L’arte di ascoltare. Parole e scrittura in Grace Paley, Donzelli, 2012 (il passaggio citato è a p. 7, mentre il paragrafo dedicato alle “Finestre che urlano” è a p. 36). Il testo “L’importanza di non capire tutto” è contenuto nell’omonimo libro, una miscellanea di articoli giornalistici, lezioni, saggi, interventi orali e relazioni pubblicata da Einaudi nel 2007 nella traduzione di Chiara Simonetti. 

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