Speciale

Il Metodo

12 Marzo 2012

Guadagnarsi il pane è davvero faticoso e triste.

L’uomo si inventa pietose bugie a proposito del lavoro.

Ecco un’altra abominevole idolatria,

il cane che lecca il bastone: il lavoro.

Luther Blissett, Q

 

Sono uno che soffre di rimorso cronico. È una vita che combatto contro il senso di colpa. Ne ho uno per ogni vizio più o meno innocuo che non riesco ad abbandonare: per il consumo smodato di wurstel crudi, per la masturbazione e per il tabacco. Fumare mi dava addirittura due sensi di colpa simultanei: uno per la consapevolezza ostinata con la quale ignoravo i danni del fumo; uno perché il fumatore è uno dei capri espiatori preferiti dalla società. Quindi, (un po’ per Clelia e un po’) per sopravvivere ai sensi di colpa, decisi di smettere. Fumai la mia ultima, epica sigaretta il primo aprile 2008. A questa fece seguito una prima eccezione, una seconda eccezione, una boccata in ricordo dei tempi del liceo, una in memoria di quando nei cinema e nei film si fumava tutti assieme il calumet della pace, e via mentendo fino a diventare un fumatore sì, ma occasionale! E che comunque ha smesso! È un inganno in piena regola: blandisce i sensi di colpa, ma non elimina il problema. Ma si muore un po’ per poter vivere, no? E poi funziona a meraviglia. Tanto che ho iniziato ad applicare il Metodo ad altre situazioni. 

 

La mancanza assoluta di lavoro, ad esempio. Sono quasi due anni che non faccio nulla di serio. È vero, magari non è tutta tutta colpa mia se sono disoccupato, ma il senso di colpa non bada a certe semplificazioni. In principio è stata dura. Mangiavo, bevevo e ho sempre avuto un tetto sulla testa, questo sì. Ma stare sulle spese di mio padre alle soglie dei trent’anni non era per niente facile da accettare. Dividevo le giornate in attività improbabili come “caccia all’impiego, “ricerca del curriculum vitae perfetto” e “applicazione delle leggi alchemiche di Melquíades ai sanitari”, il che lasciava un sacco di tempo libero per coltivare i sensi di colpa. E più le ore mi sembravano inutili più si allungavano a dismisura. I giorni duravano anni, le notti secoli. Mi sentivo in difetto, qualsiasi cosa facessi o pensassi. Inconsciamente ero convinto di dover spendere ogni energia nella ricerca di una posizione decente. Quando giunsi al punto di domandarmi se fosse lecito o meno, per uno nella mia condizione, continuare a comperare acqua imbottigliata, mi decisi ad affrontare la situazione. Però, che fare? Di rivoluzioni nemmeno a parlarne. Per prima cosa stabilii che non avrei rinunciato all’acqua minerale – anche perché dalle mie parti dal rubinetto esce arsenico e non ero pronto per tagli tanto drastici. Quindi scelsi di applicare il Metodo. Avevo solo bisogno di qualcosa che mi aiutasse a convincermi che ero un lavoratore, e che allo stesso tempo mi riempisse le giornate. Non fu semplice, vissi un ultimo, terribile momento di crisi. Poi, appena prima di riconsiderare la mia posizione sull’acqua da bere, l’illuminazione, il colpo di genio, il tocco d’artista, la soluzione: il dopolavoro. 

 

Avete presente? Quell’universo fatto di dipendenti che, dopo otto ore di lavoro al giorno per tutta la vita, chiede al proprio carceriere la cortesia di organizzargli il tempo libero dai lavori forzati? È lì che ho trovato la mia liberazione. Sono quasi sei mesi che partecipo a tutte le attività del Circolo Ricreativo Aziendale SiderSur. Sono riuscito a imbucarmi tramite un amico tornitore che mi doveva un favore. Ho pure la tessera. E se ho la tessera e sono tutti i sabati e le domeniche in giro con il dopolavoro è ovvio che non sono proprio disoccupato. Passo il tempo giocando a burraco e sono stato nominato alfiere ufficiale del gruppo SiderSud-Roma. Una domenica sì e una no porto lo striscione del club allo stadio. A me del calcio non importa granché, ma il Caffè Borghetti (tre cilindretti in plastica da 25 cc) è compreso nel pacchetto supporter insieme al buono pasto, e in più il biglietto è pagato. Insomma, mi sono integrato a meraviglia. Mi hanno pure regalato la tuta blu della ditta. E poi ci sono le gite in pullman. Sissignore! Le g-i-t-e! Una cosa a metà tra un viaggio d’istruzione delle medie, una televendita permanente dal vivo, e un week-end sul traghetto Stoccolma-Helsinki. L’unica differenza è che le femmine sono quasi tutte in menopausa e hanno capelli metà grigi e metà tinti di viola, e l’immancabile venditore di pentole – che a quanto ho capito è un ex dipendente caduto in disgrazia dopo una non meglio precisata “nomina sindacale” – non è esattamente Giorgio Mastrota. Ma va bene, non importa, nemmeno io sono un vero operaio. Sono solo uno con un evidente problema di rimorsi, terrorizzato dal tempo libero e con pochissimi scrupoli. Ciò che conta davvero è “tre giorni e due notti in autobus cinque stelle pernottamento in albergo prestigioso pranzo al sacco visita ai luoghi di Padre Pio partenza e ritorno piazza Dante no altre fermate”. Non c’è nemmeno da domandarsi cosa c’entri il santo di Pietrelcina con una brigata di metalmeccanici sulla soglia (fluttuante) del pensionamento. Conta solo perdere tempo in compagnia di chi durante la settimana risparmia persino le pisciate per non rimanere indietro con il lavoro. 

 

Questo è il placebo definitivo contro i mali del giovane disoccupato. È stando seduti per ventisei ore consecutive in pullman, fianco a fianco con la disperazione organizzata, che si rimane a galla sulla merda, trovando pure il modo di fare qualche respiro profondo e di rimorchiare come un ragazzino di tredici anni – vedi estemporanea relazione con signora Dora di anni 56, nata e consumata sull’A16 con piglio adolescenziale, tra una lasagna e un’avemaria. D’altronde, se c’è chi in patria non batte chiodo, prende un aereo e cambia continente per darsi alla lussuria low-cost, io ho preso un autobus per la Puglia e ho visto la chiesa di Renzo Piano a San Giovanni Rotondo. È stato lì, di fronte a quell’architettura incomprensibile, che ho capito, una volta per tutte e con chiarezza accecante, che la disoccupazione colpisce a caso. Lavorare o meno, oggi, non è solo una faccenda di capacità, preparazione e talento, è soprattutto un accidente della vita; un inciampo tra l’attesa e la raccomandazione; tra l’ozio e il circolo di conoscenze giusto. Va bene, pure questa è una mezza bugia, fa parte del metodo. Magari la realtà è un’altra. Dovrei semplicemente ammettere che ho qualche problema temporaneo. Si sa come vanno le cose: riduzione dei turni, cassa integrazione, fine rapporto… ma è un momento, c’è solo da aspettare in disparte. E sia. Intanto, però, dal dopolavoro non mi caccia mica nessuno, e con i sensi di colpa e il problema del tempo libero sono a posto, io.

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