La moglie di uno psichiatra ricorda

19 Settembre 2012

“Erano i primi anni Settanta. Alcuni psichiatri che lavoravano, come mio marito, in manicomi alle porte di Milano, cercavano di ripetere l’esperienza di Basaglia. Avevano aderito con convinzione e la applicavano con passione. In gruppo, accompagnavano i ricoverati fuori dai confini dentro i quali erano vissuti, in totale isolamento dall’esterno, per molti anni. Uno di loro, con una psicosi grave, da sempre. Un omone, aveva poco meno di quarant’anni. Ricordo una gita a Venezia, con loro, al Lido fuori stagione. Lui se ne stava sulla spiaggia, un po’ in disparte dagli altri, chiuso nel suo mondo anche quando il mondo finalmente gli si apriva.

 

Di colpo, con la sua mole imponente, si era messo a correre verso la nostra bambina, che aveva quattro anni e raccoglieva conchiglie in riva al mare. L’aveva quasi travolta, poi l’aveva presa in braccio. Istintivamente, io mi era gettata verso di lui, ma mio marito mi aveva trattenuta. Non succede niente, mi aveva detto con la sua fresca e salda fede basagliana, sta’ tranquilla. Non mi ero mossa, ma guardavo mia figlia in braccio all’omone molto agitata. Fissavo anche mio marito con rimprovero.

 

Sapeva quello che faceva o era incosciente più di me che lo seguivo? Le fedi, com’è noto, a volte accecano. Così mio marito mi aveva raccontato la storia di quell’uomo smisurato in tutto, o meglio, un piccolo particolare che non ho più potuto dimenticare e che per me tappa la bocca a qualsiasi rigurgito antibasagliano. Nell’armadietto dell’omone, tra gli “effetti personali” del periodo in cui era entrato in manicomio, c’era una sola cosa: un camicino da neonato. Quando era stato internato non aveva ancora un anno”.

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