La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera
Un’accoglienza critica assai positiva ha salutato il libro d’esordio di Alberto Ravasio, classe 1990, La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera (Quodlibet, 2022). Gli aspetti salienti di questo spumeggiante e bizzarro romanzo breve sono tre. Innanzi tutto, una «trovata» di trasparente matrice kafkiana: una mattina il protagonista si scopre inopinatamente «transessualizzato», il suo corpo ha assunto forme femminili.
In secondo luogo, il motivo fantastico è calato all’interno di uno scenario ostentatamente contemporaneo: siamo nella provincia bergamasca, in un paese (o paesello) più volte definito «stercoso», sempre uguale a sé stesso, eppure di fatto coinvolto in una diffusa, degradata realtà urbana che conosce frange e cascami, ma non alternative. Infine, la vicenda – per la verità piuttosto esile, anche se il finale non delude affatto – è narrata con un piglio stilistico estroso e originale: sulla base di un linguaggio molto parlato e spiccio s’innesta una serie di scarti, salti e soprassalti, con aggettivazioni insolite, impennate metaforiche, invenzioni lessicali e neologismi, che testimoniano di un’ispirazione tutt’altro che naïve.
Espressionismo stilistico, riferimenti metaletterari, radicamento nell’attualità: su questi elementi Ravasio costruisce una storia scanzonata e divertente, dai connotati ora farseschi ora tragicomici, che molto dice dell’immagine che può avere un giovane di oggi della società che ci circonda. E in effetti la cifra generazionale rappresenta uno dei pregi maggiori dell’opera. Sotto traccia, La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera declina un’accusa precisa contro gli immediati ascendenti (chiamiamoli, se volete, boomers).
A pronunciarla è un amico del protagonista, di nome Guido Coprofago: «Da bambini ci hanno ingrassati di desideri. E quando poi siamo cresciuti, c’hanno detto che erano finiti i soldi». Un modo quanto mai efficace di enunciare un disagio davvero epocale: per la prima volta, dopo forse due o tre secoli, nell’Occidente avanzato una generazione ha vissuto un ineluttabile, umiliante declino sociale, non contrastato da alcuna prospettiva rivoluzionaria (non importa quanto articolata e plausibile).
A essere colpito, anzi, sconvolto dalla metamorfosi – in quarta di copertina, una battuta ispirata a uno dei più proverbiali passi evangelici: «Dio mio! Dio che non esisti, perché mi hai transessualizzato?» – è un trentenne ben consapevole dello squallore della propria esistenza, e immerso in (o sommerso da) un’abulica, disincantata rassegnazione. Ex-studente di filosofia mai arrivato alla laurea, disoccupato, disimpegnato, socialmente disfunzionale, vive tuttora con i genitori (infelici la loro parte, e soli più che mai, benché cementati da un disamore arreso); e, non avendo mai conosciuto donna in vita sua («era stato dentro una vulva solo nel ruolo di spermatozoo»), si pasce di pornografia online.
Una inattesa scossa gli arriva da una chat che frequenta con il nome di Carmela Pene, dove, via algoritmo, entra in contatto con il Negro, sorta di parodia del «maschio scopatore» («Golem sessuale, col cazzo incazzato e monolitico, come le facce rocciose dell’Isola di Pasqua»). La fatale trasformazione avviene poco dopo.
Non seguiremo Guglielmo Sputacchiera nei suoi affannosi tentativi di recuperare l’identità sessuale perduta; segnaleremo solo, di passaggio, i gustosi incontri prima con il medico di base, la dottoressa Casoncelli, quindi con la psicologa di un consultorio, che innesca un flashback sul primo amore («e altre sciagure», come suona il titolo di un capitolo), infine con un santone delle valli che sa esprimersi solo in un alquanto rudimentale dialetto; senza peraltro dimenticare l’amico Guido Coprofago, ex ribelle che ha messo precocemente la testa a posto («ovvero nel cestino dell’umido»), andando incontro a un destino non si sa se più scialbo o desolato, e complementare a quello del protagonista: «Entrato in fabbrica in qualità di coso generico, in breve s’era ritrovato promesso sposo di una brava ragazza in entropia lipidica, padre di quattro gemelle schiamazzanti e mutuatario a vita».
Merita invece una menzione la bella copertina, con un disegno firmato da Gianluigi Toccafondo: un volto maschile grigiastro dall’assetto triangolare, con un fallico naso rosa intenso che precipita verso la punta rossa di una boccuccia, e una fronte così schiacciata da evocare uno specchio deformante: gli occhi si riducono a due incassate e torpide fessure, quasi nascoste dall’arcata sopraccigliare, in linea con le orecchie abbassate, come di un cane in castigo.
Metamorfosi a parte, il riferimento più stringente a Kafka – come ha ben visto Daniele Giglioli – riguarda la lettera al padre che introduce al finale. Dopo aver cercato di occultare l’accaduto, Guglielmo Sputacchiera si risolve a parlarne alla madre, da tutti ritenuta malata di mente, che invece si rivela portatrice di una sua forma di disillusa, tollerante saggezza.
Dopodiché decide di partire per la grande città (evidentemente, Milano): e lascia al padre una confessione che è quasi l’autodafé collettivo di una generazione cresciuta inerte e satolla come un animale domestico, senza muoversi dalla casa di genitori che intanto le venivano mangiando il futuro. E tuttavia, nessun astio verso il padre; anzi. Il che apre la strada alla sorprendente conclusione, non ignara del dramma dei Sei personaggi pirandelliani, con il web nel ruolo di Madama Pace.
Una specie di dis-personaggio, Guglielmo Sputacchiera. Il cognome certifica la vocazione all’avvilimento, e anzi l’adattamento a una flessione peggiorativa delle condizioni psichiche e materiali di esistenza, e perciò non meritevole d’altro che di sarcasmo e disprezzo. Non è però forse un caso che nell’insigne nome di battesimo sia contenuta (Wil-helm) la radice della parola «volontà» (e ciò sia detto senza scartare a priori l’eventuale riferimento all’omonima altura prealpina sul versante bresciano del lago d’Iseo, il Monte Guglielmo, italianizzazione di Gölem, da «cima», culmen).
C’è una speranza di riscatto, per l’eroe di Ravasio? Di sicuro, se esiste, deve passare attraverso tutte le magagne della sua scalognata Bildung. In primo luogo una sessualità decomposta, in cui confluiscono la crisi della mascolinità, la permeabilità e l’aleatorietà dei confini di genere, l’onanismo coatto e allucinatorio, l’impulso alla dissipazione.
Ma notevole rilievo ha anche una relazione con le figure parentali, incrostata di equivoci e malintesi, di aridità e incomprensioni, di delusioni reciproche, eppure depositaria di una residua possibilità d’intesa, almeno nei termini di una mutua, muta compassione. Dalla conoscenza degli altri può cominciare, forse, una costruzione o accettazione di sé, non importa se tardiva, parziale, controversa.
Ravasio ha talento, spirito e buona penna. Non tutto in questo romanzo è ineccepibile: talvolta la comicità si concede qualche troppo facile iperbole. Ma La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera è un libro che diverte e fa pensare, e che nella sostanza non ha nulla di banale o di gratuito. Non è poco.