Speciale
Respirare / L’abbraccio e il bacio
L’abbraccio
Mi è sempre piaciuto il fuori, più del dentro.
Quando d’estate la cena era finita, e la mamma e la nonna cominciavano a chiacchierare, restando sedute a tavola, il nonno si alzava e usciva fuori per fumarsi una sigaretta. Guardava con gli occhi semichiusi la campagna davanti a casa, un orizzonte piatto dove la terra sconfinava nel cielo. Lo seguivo, mi accovacciavo accanto a lui sul gradino della porta d’entrata per farmi abbracciare, e cercavo di socchiudere gli occhi, imitando il suo sguardo. Mi piaceva l’odore della sigaretta, e il calore del gradino di cemento scottato dal sole di tutta la giornata. Stavamo lì, vicini, allacciati, fino a diventare piccoli piccoli. Il fuori si faceva vivere in tutta la sua completezza, in tutta la sua vaghezza, cancellando i momenti in cui il dentro, con la sua furia aggressiva e imprevedibile, affiorava dal nero.
Il bacio
A un certo punto, da piccola, ho smesso di respirare. L’apnea era per me un esercizio pericoloso di convivenza sociale. Me ne sono accorta dopo uno svenimento a casa dei vicini. Il vecchio Augusto mi diede un grosso bacio per ringraziarmi di avergli portato dei fichi. Era appena uscito dalla stalla e aveva la faccia sporca, non ricordo bene di cosa: quell’odore grasso di animale mi impose di trattenere il respiro e lo trattenni così a lungo che svenni. Trattenere il respiro era normale per me, soprattutto ogni volta che venivo toccata. “S’a saràl suzêst?”* si chiedeva la nonna: ”Sta babina la magnêva la merda di pol, e adès l’è dvènta ‘n a schifiltosa. L’a n vô che inciôn i la tóca!”* Cos’era successo? Chissà. Qualcosa di grave che forse non volevo ricordare, e che la nonna non poteva immaginare.
Quando mi trovavo accanto alle persone, soprattutto se in gruppo, trattenevo il respiro, e mi ammutolivo. L’odore della pelle, dell’alito, dei piedi, diventava così intenso che mi impedivo di respirare. A volte mi allontanavo, cercavo una finestra, uno spiraglio d’aria dove buttare l’urlo del respiro, ma spesso mi sembrava scortese muovermi da dove mi trovavo, e poi ancor più faticoso dover giustificare ai presenti un malessere. E cosa dire? Che c’era puzza? Ma non era proprio solo puzza. Era qualcosa che non riuscivo a spiegare neppure a me. Se non respiravo mi sentivo protetta, sollevata da quella condizione che non volevo vivere. Così, poco a poco mi trovai a subire la compagnia di un’apnea possessiva che prese il sopravvento sui miei polmoni. Mi allontanava da un regolare respiro per produrne un altro, celestiale, quasi di vetro, interno, privo di contatto. Un portato di ferite multiple, tutte invisibili, che costringevano il corpo a non rilassarsi mai. Più trattenevo il respiro, più indurivo il corpo. Stavo combattendo una guerra privata con fantasmi maligni che richiedevano una corazza senza pori. Durante l’adolescenza riuscii a lasciar andare queste insofferenze respiratorie, ma non ho mai imparato a convivere con la naturalezza del respiro.
*Cosa sarà successo?
** Questa bambina mangiava la merda dei polli, e adesso è diventata una schifiltosa. Non vuole che nessuno la tocchi.