Le nuove frontiere della finanza etica

18 Marzo 2015

Qualche anno fa, quando ancora era all’apice del settore bancario, di cui era considerato il manager più capace, Alessandro Profumo sorprese una platea di studenti dichiarando che «lavorare in banca è noioso». Non aveva torto. E la considerazione vale anche per la finanza etica. Che, comunque la si guardi, significa fondamentalmente acquistare e rivendere denaro. Se non siete Ebenezer Scrooge è difficile trovarlo divertente.

 

Per fortuna nella finanza etica c’è qualcosa che va oltre. È, o dovrebbe essere, la permanente tensione verso la ricaduta concreta, diretta, delle operazioni realizzate nei confronti degli obiettivi sociali che ci si è dati. Qualcuno parla anche di impatto. Che però non sempre è così visibile. Un conto è una pratica di affidamento, con la quale prestiamo denaro a soggetti cui con tutta probabilità altre banche non avrebbero dato alcuna fiducia. Vediamo con i nostri occhi l’effetto prodotto da quel prestito, possiamo seguirne le evoluzioni nel tempo, gestirne le relazioni che ne derivano. Altro è un bonifico, la gestione di un dossier titoli, la profilatura antiriciclaggio della clientela, eccetera.

 

Qui si fanno i conti con due grandi temi che ormai condizionano l’attività di qualunque operatore finanziario. Il primo tema è la compressione della redditività, oggi patita anche dalle banche ortodosse e frutto di aspetti tanto esogeni (il livellamento dei tassi di interesse) quanto endogeni (il modello imprenditoriale della banca che appare non più adeguato agli assetti dell’economia e della società e che arranca nel seguire il dirompente sviluppo delle tecnologie). Qualunque impresa ha il problema della sostenibilità economica. Un tempo per gli intermediari finanziari non era così. Oggi sì, anche (soprattutto) per quelli di finanza etica. L’altro tema critico deriva dalla rilevante funzione pubblica svolta dalla finanza, che per questo è giustamente sottoposta a una forte attività di controllo e regolamentazione da parte delle autorità di vigilanza (Banca d’Italia, Consob, Antitrust, ministero dell’Economia, Banca centrale europea, Autorità bancaria europea, tra le principali). Si calcola che dall’inizio della crisi vi siano stati due nuovi provvedimenti al giorno tesi a modificare i comportamenti delle banche e degli intermediari finanziari. Questa complessità e intensità di regole vale per le grandi banche, per le multinazionali della finanza ma anche per i piccoli operatori cooperativi, quelli del microcredito, le Mag e Banca Etica. Così, una buona dose dell’entusiasmo, dell’energia, delle competenze che animano queste realtà controcorrente viene spesa giocoforza per stare a galla – adempiere le regole (essere compliant) – piuttosto che per andare con determinazione verso la direzione ricercata. Con il rischio di trovarsi in trappola. E di cadere nel paradosso dell’isomorfismo organizzativo, ben noto a molte istituzioni nonprofit: costretti a rispettare regole pensate e scritte per banche tradizionali, gli operatori alternativi si conformano progressivamente alle stesse logiche e col tempo perdono la propria capacità di essere agenti di cambiamento.

 

Tracey Emin, I've Got it All, 2000

 

Quali gli antidoti? Di sicuro, come per ogni attività a scopo sociale e ancor di più per quelle a effetto indiretto, sarà importante trovare metodi e strumenti di misurazione dei risultati prodotti. Per verificare l’effetto che fa il proprio lavoro, per renderne conto a soci, risparmiatori, destinatari dei finanziamenti e tutti gli stakeholder, per aggiustare costantemente il tiro dell’operatività.

 

Oggi che tanto si parla di finanza d’impatto, grande calderone in cui i “buoni” fanno confluire la finanza etica e i “cattivi” le grandi banche d’affari che finanziano lo smantellamento dei servizi pubblici, la partita della misurazione si fa ancora più agguerrita. Presto, con i loro potenti centri studio e mezzi di comunicazione, i colossi mondiali della finanza sapranno “raccontare” anche ciò che non fanno (o fanno poco, e virtualmente), avendo speso tempo e denaro a costruire indicatori, griglie, benchmark... La finanza etica più pura, impegnata nel quotidiano a fare il proprio mestiere, potrebbe essere spiazzata da questa controffensiva. Una ragione in più per attrezzarsi rapidamente e in modo adeguato.

 

Vi è poi la necessità di mantenere un presidio organizzativo dell’attività finanziaria sempre appropriato rispetto agli obiettivi sociali. Dare valore alla relazione con le persone deve essere parte concreta del processo di gestione dei clienti. Eclatante nella valutazione del merito di credito, che deve incorporare e saper trattare elementi qualitativi (la soft information) che possono emergere solo dalla conoscenza e dalla relazione diretta, tale aspetto è altrettanto importante nella collocazione di prodotti di risparmio, dove non basta l’adempimento di una tanto corposa quanto inutile (perché solo formalistica) procedura Mifid, ma serve veramente la capacità di comprendere le esigenze della persona e consigliarla al meglio rispetto ai suoi bisogni. In questo ambito è fondamentale uscire dalla retorica della finanza etica, di chi pretende di declinare la propria diversità solo nella narrazione di sé e in un approccio moraleggiante, dunque soggettivo e personale, e sviluppare invece modelli e procedure coerenti, oggettivi, in grado di andare oltre la sensibilità delle persone e dei singoli operatori e di contribuire alla crescita e alla replicabilità delle migliori esperienze. Altra trappola da evitare è quella della filantropia. In un paese a basso civismo come l’Italia, la cultura della concessione dall’alto è ancora assai più forte di quella della responsabilità e dell’equità. Così qualcuno confonde la proposta della finanza etica con quella di una finanza a dono, caritatevole, che è altra cosa.

 

L’idea sottostante un prestito deve sempre essere la valutazione della capacità prospettica di restituzione da parte del prestatario. E il costo equo dello stesso credito deve essere tale da garantire all’impresa di finanza etica di continuare a operare nel tempo. Il successo della sua proposta infatti dipenderà dalla durata negli anni della propria azione più che dall’immediata economicità dell’offerta. Ma ciò è dannatamente difficile da comprendere, a volte per gli stessi operatori, troppo spesso per la clientela. In qualche modo siamo tutti vittime della mentalità mercantile e ci sentiamo furbi quando applichiamo gli stessi canoni di giudizio (anche se poi ci indigniamo quando qualcuno li applica a noi). Ne deriva che l’attività del finanziere etico non può mai dissociarsi da una sana e praticata educazione all’economia critica e alla consapevolezza dei guasti prodotti dal sistema capitalistico. Altrimenti, lentamente ma inesorabilmente, l’operatore alternativo tenderà all’omologazione e finirà per andare in crisi, di mission prima (perdita di senso rispetto agli obiettivi iniziali) e di business poi (trovandosi a competere sul terreno tipico della finanza senza averne i mezzi e i presupposti culturali e professionali).

 

 

Contaminarsi e fare rete unica ricetta possibile

Dove si impara tutto questo? Innanzi tutto osservando le pratiche migliori e consolidate. Tra queste vi sono certamente alcune storiche esperienze, come le già citate Mag (Reggio Emilia e Verona su tutte), o alcuni innovatori come PerMicro. Banca Popolare Etica resta il modello di banca alternativa, ancora insuperato in Italia, seppur in evoluzione, insieme al settore che è nata per servire (il nonprofit). L’invito è anche a conoscere da vicino le più diffuse Bcc, realtà che ancora oggi possono positivamente sorprendere per la dimensione artigianale del fare banca associata alla complessità dei prodotti offerti, frutto della grande rete di cui fanno parte (che – merita di essere ricordato – in aggregato rappresenta il terzo operatore bancario nazionale).

 

Questa è la “crema” della finanza etica italiana. Che si arricchisce poi di singole ed estemporanee iniziative di grandi gruppi bancari, da guardare con la giusta diffidenza ma sempre da valutare in base a criteri oggettivi, e di piccolissime esperienze, come quelle delle Fondazioni anti-usura, degli operatori non professionali di microcredito (uniti in Ritmi), delle organizzazioni mutualistiche per l’accesso al credito (cooperative e consorzi fidi). Senza dimenticare gli esperimenti più di frontiera, come quello di Caes, consorzio di cooperative sociali e associazioni che prova a dare una dimensione etica anche al mercato assicurativo, o la rete degli Impact Hub, network di innovatori che lavorano per mettere la finanza al servizio dell’innovazione sociale.

 

Al pari di tutte le materie eterodosse, anche la finanza etica non entra nelle università e nei corsi di specializzazione post-laurea. È una pratica eretica, e come tale si alimenta di imitazione, scambio di buone prassi, modalità reticolari di collaborazione per supplire alle piccole dimensioni e al rischio di inefficienze economiche che esse implicano. Ma non deve mai smettere di cercare la contaminazione tra il nuovo che sperimenta e il vecchio che ha solide radici. È a questa apertura verso gli altri, con la consapevolezza della propria diversità, che l’operatore di finanza etica orienta il suo comportamento quotidiano. Per cambiare lentamente le ingiustizie dell’economia. Svolgendo con pazienza un lavoro inevitabilmente noioso.

 

 

 

Estratto da Lavorare nel sociale. Una professione da ripensare (edizioni dell’Asino) a cura di Giulio Marcon.

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