Speciale
Le soglie di Silvio Wolf
1 Le due porte, 1981
EG: Hai deciso di partire da un’opera del 1981, Le due porte.
SW: Sì, questo per me è un lavoro molto importante, nel quale ha iniziato a definirsi con chiarezza un’idea fondamentale, messa ancor più a fuoco nei lavori successivi.
In sintesi la definirei con l’idea di Soglia. Ho concentrato la mia attenzione sui luoghi di transizione, i punti di passaggio, ciò che unisce e separa interno/esterno, presenza/assenza. In questo lavoro si evidenziano contemporaneamente due soglie: l’arco Islamico in primo piano e quello Occidentale in secondo piano.
Fondamentalmente questa immagine definisce l’esistenza di un luogo reale ma non direttamente visibile: lo spazio nero tra le due porte. Ora, questa osservazione nasce da una difficoltà tecnica nella ripresa fotografica, l'impossibilità di gestire una latitudine di posa troppo ampia, significa che se esponi le luci alte, le parti in ombra non si leggeranno, ma questa difficoltà tecnica ha dato risultati sorprendenti, perché vedendo per la prima volta la diapositiva di ciò avevo scattato, mi sono accorto che l'importanza dell'immagine risiedeva esattamente in ciò che non ero stato in grado di rappresentare, l’assenza dello spazio definito dal perimetro delle due porte. Secondo me questo lavoro indica l'idea di un percorso esperienziale, la necessità di un passaggio. È un'esperienza che io indico attraverso l’immagine.
EG: E c'è l'Oriente e l'Occidente.
SW: Sì, ci sono entrambi. L'immagine fu scattata in un caravanserraglio nel deserto del Marocco. La cosa particolare è che i valori luminosi erano gli stessi all’interno e all’esterno dell’edificio, per cui nell’immagine è difficile definire quale sia l'interno e quale l'esterno, una posizione relativa solo al punto di vista dell'osservatore.
Quel viaggio fu davvero iniziatico, perché mi mise in contatto con un'altra idea di spazio, con l'idea di vuoto e d’assenza che ho avvertito nella cultura islamica, una cultura aniconica nella quale l'architettura gioca un ruolo molto importante in assenza della rappresentazione della figura umana. Vediamo una porta rettangolare che sembra gravitare nel vuoto, perché non è allineata con l’altra. Più penso a quest’immagine, più sento che molte cose si sono definite attraverso di essa, sintetizzate in quella frazione di secondo, nell’errore fotografico, in ciò che non ho saputo rappresentare.
EG: Lo dico brutalmente: tu pensi che bisognava andare in Marocco per trovare la propria visione? Voglio dire: non è un dato ricorrente questo dell’uscire dal proprio contesto per fare un salto?
SW: Si può andare ovunque, però la vita ti porta esattamente in quei luoghi e non in altri, quelli nei quali incontri, rifletti e ti sperimenti. Forse uno dei motivi per cui la pratica fotografica è così affine al mio sguardo è il fatto che della fotografia valorizzo molto l'aspetto esperienziale, l'incontro con un luogo e una circostanza coi quali devo necessariamente confrontarmi. L'immagine talvolta può essere anche un vago ricordo del luogo, ma è sempre l’inizio di un processo trasformativo della realtà.
EG: Però io ho anche l'impressione, per restare nella metafora, che bisognava uscire dall'Italia, da una situazione, per trovare l'incontro, un allontanamento dal luogo, un’uscita…
SW: Sì, senz'altro.
EG: C'entra con la soglia, no?
SW: Ho fatto tre viaggi in Medio Oriente, il primo fu in Marocco, poi andai Egitto e infine in Turchia. In tutti e tre mi sono confrontato con spazi per i quali ho avvertito una grande risonanza. Ho scoperto qualcosa che non conoscevo.
EG: Se non sbaglio ho visto per la prima volta quest’opera a una mostra alla galleria Weber di Torino.
SW: No, ti sbagli, questa non c’era. C’era Il grande myhrab, del 1989.
2 Il grande myhrab, 1989
SW: È un grande lightbox bifrontale. Ho riconosciuto in questa immagine la più importante metafora della fotografia che io abbia mai prodotto. So che può lasciare perplessi, perché ci si chiede cosa c'entri la fotografia con questo elemento architettonico. Quando la mostro difficilmente le persone capiscono cosa stiano vedendo: si tratta della nicchia che nella cultura islamica indirizza la preghiera del credente. Non è un luogo, ma piuttosto un'assenza che indica un’alterità, un vuoto che indirizza lo sguardo verso il luogo dove colui che prega dovrà recarsi una volta nella propria vita. Questo è il suo valore nella cultura islamica. Io non ne faccio una questione religiosa, piuttosto m’interessano gli aspetti fenomenologici. Ho pensato a quest’immagine come metafora del pensiero fotografico perché, come per la fotografia, si tratta di un'assenza che indica un altrove. Guardando una fotografia non hai l'oggetto al tuo cospetto, ma l’indice di una cosa che si trova lontana da te. Inoltre la fotografia, sottraendo la terza dimensione allo spazio, ne crea immagini bidimensionali, obbligandoti a venire a termine con l’effettiva profondità dei soggetti raffigurati. Sembra banale dirlo, ma normalmente hai un contesto di riferimento e un diverso senso della profondità dato dal rapporto di scala, che qui sono completamente assenti.
EG: Bidimensionali, però qui c'è l'ambiguità percettiva tra il la nicchia e la bottiglia, tra concavo e convesso.
SW: Sì, ma di queste cose, te l’assicuro, me ne accorgo dopo che è nata l'immagine. Nella mia pratica mi muovo come un rabdomante: rispondo, risuono, catturo, poi l’immagine si manifesta molto più tardi. A quei tempi scattavo diapositive che lasciavo fino a 2-3 anni a invecchiare al buio, sentendo il bisogno di allontanarmi dall'aspetto mnemonico della fotografia, per poi guardare l'immagine come una nuova realtà non più vincolata alla circostanza. Quando ho visto questa fotografia, ho pensato che non mi stesse ricordando ciò che avevo visto.
EG: Approfitto del mio errore per affrontare una questione: tu hai sempre esposto nelle gallerie d'arte, non di fotografia, cosa significa per te questa scelta?
SW: Ha significato poter portare il lavoro davanti ad altri occhi, altri sguardi, in un ambiente del quale francamente avevo maggiore stima. Intendo dire che il mondo della fotografia mi è sembrato un po’ “stretto”. In quegli anni riguardava un percorso culturale che si poneva come nicchia a latere di un altro. Siccome l’arte per me è sempre stata the highest reach, come dicono gli anglosassoni, ho sempre avvertito grande rispetto per la pratica artistica, e desiderato di avvicinarmi ad essa attraverso l’uso del mezzo il cui linguaggio conoscevo meglio, ricercando nella fotografia un forte elemento simbolico. Ultimamente la utilizzo meno, talvolta più a livello di progettazione che nella realizzazione del lavoro finale.
EG: Ne riparleremo. Intanto vorrei sottolineare che mi sembra che questo ruolo diciamo anche un po’ pionieristico in Italia ti sia riconosciuto, una sorta di ruolo generazionale. Sei stato tra i primi, in Italia perlomeno, che ha portato la fotografia nell’arte. Tu guardavi qualche altro autore in particolare?
SW: Sì, ricordo che un artista che mi interessò molto fu Jan Dibbets, e poi John Hilliard, Ken Josephson e Georges Rousse. Seguivo anche chi utilizzava il mezzo fotografico in area concettuale, notando però che loro non si “sporcavano le mani” con lo scatto, affidandolo ad altri.
EG: È un dato storico molto interessante che chi opera con la fotografia in ambito artistico spesso sia uscito da esperienze concettuali; poi è andato per la sua strada, in cui il concettuale si è anche perso…
SW: Sì, mi hanno trasmesso una particolare attenzione al pensiero analitico, per me molto importante, al punto che rendo pubbliche le mie immagini quando sono anche in grado di sostenerle con un pensiero; non posso mostrare un'immagine se non riflette l’articolazione di un mio pensiero.
EG: Sì, lo testimonio, anche della tua lentezza nel farlo!
SW: Sì, sono molto misurato, assolutamente sì. C'è un aspetto percettivo forte, ma anche uno concettuale sul quale rifletto molto.
EG: E tecnico. Ricordo che sei stato tra i primi, credo, a usare il Cibachrome.
SW: Sì, lo usavo per due motivi. Prima di tutto per la sua qualità non realistica di riproduzione della realtà, causata da quella sua superficie metallica molto lontana da una certa idea di fotografia narrativa o di paesaggio. Mi resi anche conto che era l'unico materiale fotografico certificato che desse reali garanzie di conservazione. Se oggi guardi certi lavori fotografici degli anni ’70, penso ad esempio a quelli di Franco Vaccari, un artista che stimo molto, spesso le stampe sono virate al magenta. Anche molti lavori vintage di Luigi Ghirri hanno lo stesso problema. I miei Cibachrome ad oggi sono ancora perfetti!
3 Icone di luce, 1991-1999
EG: Procediamo con la terza opera.
SW: Le Icone di luce sono un ciclo di lavori che ho iniziato ad esporre all’inizio degli anni ‘90. Fotografie analogiche che realizzavo in condizioni di luce “scorretta”, fotografando i quadri a olio in chiese e musei da quel particolare punto di vista che in pratica ne impediva una chiara visione. Ricercavo l’abbaglio, il riflesso delle finestre o delle luci che specchiandosi sulle superfici a olio ne cancellavano l’immagine. Mi sono reso conto, come in molti miei lavori, d’essere in presenza di un doppio movimento: un'apparizione e una scomparsa, una presenza e un’assenza, assieme.
La stessa luce che ha permesso la cattura fotografica cancella l'immagine pittorica, mentre rimane incastonata nella fotografia. Le ho chiamate Icone di luce proprio perché ogni fotografia è prodotta dal riflesso della luce su superfici sensibili. Non guardavo i quadri da un punto di vista storico, autoriale, o per la natura dei loro soggetti, piuttosto per l'esperienza che produceva in me quella condizione di cecità, cancellazione e non visibilità.
EG: Poi le ritagliavi, le sagomavi, esponendole nella forma trapezoidale. Chiariamo che il bianco nella riproduzione è il muro.
SW: Sì, e le loro forme prospettiche, trapezoidali, sono dovute proprio al punto di vista sghembo delle riprese. Estraevo i quadri dallo scatto rettangolare. Osservando la prospettiva dell'immagine si coglie esattamente da dove stessi guardando i quadri. Se vuoi, questa è anche una questione concettuale: si tratta di non guardare le cose di fronte ma di lato, da un altro punto di vista. Così nascono alcune cose e altre scompaiono. È una soglia tra apparizione e scomparsa, le due cose accadono contemporaneamente e il piano della fotografia ne diventa il punto di coincidenza, di unione e separazione.
EG: Ormai si fotografava anche in arte, o forse non ancora in Italia.
SW: In Italia si è cominciato negli anni ’90. La mia personale con questo ciclo di lavori fu alla galleria Claudia Gianferrari nel ’93, a Milano; prima da Piero Cavellini nel ’92, a Brescia, e prima ancora da Alberto Weber a Torino nel ’91. E già nell’‘83 Vittorio Fagone mi espose in una importante mostra alla Lenbachhaus di Monaco di Baviera intitolata “Aktuell” e nell’ ‘87 esposi a “Documenta”, Kassel.
EG: E quindi, se posso fare una domanda così diretta, come dire?, ti sentivi solo nel panorama italiano? Come vivevi la tua situazione?
SW: Mi sentivo isolato, certamente. Il mio lavoro è poi stato associato a quello della generazione successiva. Mi hanno un po’ confuso, ma avevo, ho dieci anni più di loro!
4 Orizzonti, 2002-2020
EG: Bene, procedi con la quarta opera.
SW: Sono gli Orizzonti, che ho cominciato a realizzare nel 2002. Innanzitutto non sono immagini ottiche, infatti non riguardano la realtà di fronte all'obiettivo, ma quello che accade all’interno del processo, in una condizione di chance, di non controllo durante il caricamento dell'apparecchio fotografico. La pellicola prende luce durante l’iniziale avanzamento manuale. Ciò che ingrandisco è il primo tratto, quello che definisce una linea di soglia separando la porzione esposta da quella “vergine”, nera, dividendo e collegando la potenza dall'atto, ciò che è stato da ciò che sarà: le future 36 fotografie.
Queste parti di pellicola non sono mie, ma appropriazioni dalle pattumiere dei laboratori fotografici. Il mio lavoro consiste nella definizione del punto di soglia, la demarcazione tra luce e assenza di luce, e nell’ ottimizzazione dei contrasti, luminosità e densità: nel farle divenire immagine, sottraendole alla loro latenza.
Questo mio lavoro fa parte della cosiddetta “fotografia astratta”, anche se ritengo che sia un lavoro assolutamente rappresentativo del linguaggio allo stato puro, proprio perché rappresenta la luce, il tempo e il processo. Questi tre elementi sono perfettamente visibili nell’immagine. Ho pensato che fossero le ultime immagini del XX secolo, come se non ci fosse più nulla di nuovo da fotografare, mentre il globo è stato completamente mappato e ricoperto da strati d’immagini. Ho pensato che la fotografia abbia dunque incominciato a indagare sé stessa, rappresentando i propri meccanismi, gli statuti del linguaggio e non più ciò che sta davanti alla lente.
EG: Non è quello che faceva l'arte concettuale?
SW: Sì, in modo diverso. Certamente di quegli anni l'aspetto d’indagine del linguaggio mi ha interessato molto. Il non prendere più nulla per scontato e verificare i meccanismi della visione, percezione, del pensiero mentre avvengono. È sorprendente che questi spezzoni di pellicola siano prodotti dall’incoscienza (la non coscienza) del fotografo, che non prende in considerazione il momento in cui fa prendere luce alla pellicola, benché senza questo gesto non possa dar seguito all’atto fotografico. Mi è molto interessato scoprire che la pellicola aveva già impresso il proprio DNA linguistico.
EG: La scelta è però arbitraria, o segui dei criteri?
SW: Faccio una grande cernita, perché moltissimi di questi spezzoni non sono interessanti: sì, trovo del giallo e un po’ di bianco, tutto lì, mentre in alcuni casi sono straordinari, con imprevedibili scale cromatiche. È sorprendente, perché di fatto raccogli qualcosa che si trova già nel mondo reale, qualcosa che è già accaduto e deve essere ripensato applicando un pensiero diverso. È un materiale che strumentalmente i laboratori agganciano a una clip metallica prima dello sviluppo per immergere la pellicola nelle vasche di sviluppo, poi lo tagliano e buttano via prima di consegnarti le “tue” 36 fotografie. L'atto d’arbitrio è per me tutt'uno con quello della scelta: non sai dove finisce l’uno e inizia l’altro. Ti muovi secondo la tua sensibilità, e a un certo punto risuoni, scegli e decidi.
EG: Poi le stampi molto grandi.
SW: A volte, non sempre. Ho diversi formati: il 200 x 125 cm mi piace molto, ma anche il 125 x 80 cm, ed uno gigante che ho potuto produrre solo due volte su commissione nella massima misura, cioè 180 cm di base per 320 cm di altezza. Sono incredibili: dei campi cromatici che si espandono nello spazio.
EG: E non diventano troppo “pittorici”?
SW: È un argomento spinoso. Questo lavoro è stato accostato a quello di Mark Rothko, un artista che amo molto, benché le premesse non possano essere più lontane. Lui partiva dalla tela bianca agendo secondo un processo additivo della materia, mentre il mio è esattamente al contrario un processo di tipo sottrattivo della luce e del tempo. A mio avviso nel gesto di Rothko non c'è casualità perché lui esercita un grande controllo nell'uso del colore, materia e composizione, mentre io parto da una cosa generata, come tu dici, secondo l'arbitrio, fuori dal controllato, né ci sarebbe stato bisogno di controllare alcunché. Ciò non di meno è interessante che i nostri percorsi, così diversi tra loro, siano infatti paragonabili. Quando vedi una riproduzione fotografica dei miei Orizzonti puoi pensare che si possa trattare di pittura, ma nulla potrebbe essere più lontano dalla realtà.
EG: Sì, ma si dice “pittorico” anche nel senso del gusto per il colore, quel tipo di sensibilità...
SW: Anche per l'idea di astrazione.
EG: Sì. Tu esponi regolarmente negli Stati Uniti, lì cosa ti dicono?
SW: Questo è il mio ciclo di lavoro più conosciuto, considerato parte della cosiddetta area della fotografia astratta. È stato pubblicato più volte in quel contesto. Questa non è “pittura”, ma certo ci muoviamo lungo strade misteriose nella vita. Importante è la strada che percorri, e come arrivi a fare ciò che fai. Andavo raccogliendo questi spezzoni da anni non sapendo bene cosa farne, ma m’interessavano e li tenevo in un cassetto. Ricordo che nell’anno 2000 Marco Meneguzzo mi invitò a una mostra intitolata “La scomparsa dell’immagine”. Quando lessi “la scomparsa”, capii che per me la scomparsa era anche legata all’idea di apparizione! Questo dette il via al lavoro: ancora una volta mi serviva un concetto da associare all’immagine.
Ho dei pacchetti di immagini che raccolgo nel tempo, alcune sono in lentissima gestazione, ma quando parte un nuovo progetto e mi viene offerto di fare un’installazione, quando individuo il tema che m’interessa trovo le immagini che mi corrispondono. È sorprendente, perché le ho già, ma non le avevo mai portate a questo piano di consapevolezza.
5 Aperture, dalla serie “Soglie a specchio”, 2009-2022
EG: Andiamo avanti con la prossima opera.
SW: Questa fa parte del ciclo delle “Soglie a specchio” ed è intitolata Aperture. È stata prodotta dal lungo tempo di esposizione durante il quale ho lasciato aperto l'otturatore della macchina fotografica mentre mi trovavo davanti a una tenda nera che divideva l'esterno dall'interno di una sala oscurata di videoproiezione. Ero all’interno, e ogni volta che qualcuno entrava o usciva, la scostava facendo penetrare luce. L’immagine finale era imprevedibile, e questo dato di imprevedibilità, di arbitrarietà, mi interessa molto, anzi direi che è alla base del processo di costituzione dell’immagine.
EG: Qui dunque c'è il tempo.
SW: Si, tanto tempo. A un certo punto decido di chiudere l’otturatore e porre fine al processo, mentre ancora non so quanta luce verrà registrata e scritta. Quando finalmente vedrò l'immagine, sarà lei a sorprendermi, risultato dell’unione e separazione d'interno ed esterno, di luce e buio, presenza e assenza.
Ho cominciato a stampare queste immagini su superfici riflettenti quando mi sono accorto che il bianco, il “colore” che rappresenta la luce, con l’utilizzo di questa tecnica scompare, mettendo a nudo il supporto della stampa che non è più la carta bianca, ma la superficie specchiante. Un altro aspetto importante di questo lavoro è che per la prima volta esso muta a seconda del punto di vista dal quale viene osservato: da punti di vista diversi si vedono cose diverse. Normalmente guardando un quadro o una fotografia da sinistra o da destra si vede la stessa cosa, mentre non è il caso nelle “Soglie a specchio”. Se il riflesso intercetta una superficie bianca, possono sembrare immagini in bianco e nero, ma anche parti dell’ambiente o lo stesso osservatore possono apparire riflessi in quelle crepe che ho aperto nell’immagine. Sono fratture attraverso le quali chi guarda acquista centralità e consapevolezza.
In fondo la fotografia è sempre la forma simbolica del collegamento con un tempo passato. Se la fotografia esiste, è perché qualcosa è accaduto al cospetto del fotografo, ed essa ne è la testimonianza. Qui si crea un nuovo collegamento tra l’esperienza dello spazio-tempo del fotografo e il presente dell’osservatore. L’unione di questi due piani temporali per me è fondamentale, perché l'osservatore costituisce il senso e il completamento del lavoro.
EG: In riproduzione mi fa pensare anche a una fiamma, che comunque è un'immagine suggestiva, no? Di consumazione dell'immagine.
SW: Mi piace generare delle crepe, dei piccoli passaggi attraverso i quali poter entrare, vedere, pensare, immaginare.
EG: Naturalmente quando si parla di superficie specchiante viene in mente Michelangelo Pistoletto, ma qui accade esattamente il contrario, anzi, il suo rovesciamento
SW: Totalmente: Pistoletto fa aderire l'immagine sullo specchio, mentre io apro un varco al suo interno, cercando di mettere in collegamento il mondo dell'immagine con quello dell'osservatore.
6 Meditation, 2009
EG: Che cos'è quest'ultima opera che hai scelto?
SW: L'ultima è Meditation, un lavoro del quale ho sentito a un certo punto il fortissimo bisogno: volevo produrre una fotografia completamente nera. Tecnicamente è un foglio di carta fotografica esposta sotto l’ingranditore a un numero così grande di negativi, che non ha più potuto trattenere memoria di nessuno di essi: è dunque l’eccesso di informazione che rende la carta fotosensibile completamente nera. Quindi all'interno di quel nero profondo c'è la sommatoria di tutte le immagini che sono state proiettate: di tutta la luce e il tempo che ha assorbito.
EG: Quindi si può dire che è il contrario degli schermi cinematografici di Hiroshi Sugimoto, dove nel bianco c’è tutto il film proiettato.
SW: Sì, è esattamente l’opposto. Lo presento nella forma di un lightbox alla rovescia, cioè la luce al suo interno si riflette dietro all’immagine, sulla parete, attraverso l’opalino posteriore tagliato a 45° con uno spessore di 20 cm.
EG: E perché l’hai messo a rombo?
SW: Bella domanda! Avevo lavorato sul quadrato, ma a un certo punto ho provato a ruotarlo “mondrianescamente” ed è cambiato il senso del lavoro! Non potevo immaginarlo. Il quadrato era un'immagine nera, ora è una forma assoluta.
EG: È la Vittoria sul Sole? Mi riferisco al Quadrato nero di Malevič.
SW: È la purezza del linguaggio: invece che bianco e nero è luce e nero, tutto ciò che permette di scrivere una fotografia. Penso sia la cosa più essenziale che abbia mai prodotto.
EG: Per chiudere voglio aggiungere un'altra cosa. Non so esattamente da quando, me lo dirai tu, comunque da almeno un paio di decenni che ricordi io, hai realizzato in realtà, fuori dalla fotografia, anche diverse opere di installazione sonora.
SW: Sì, oltre che con la fotografia, dalla fine degli anni ’80 ho cominciato a lavorare prima con le immagini in movimento, poi con la luce, le proiezioni e il suono. Nelle mie installazioni la parte acustica ha un ruolo importante: è intangibile, immateriale e presente mentre pervade il luogo e muta la percezione dello spazio e delle immagini.
Spesso utilizzo la voce umana. Ti ricordi Luci Bianche, l’intervento all’ex Refettorio della Stelline di Milano nel 1995? Avevo registrato le voci del coro delle voci bianche del Teatro alla Scala: il Direttore del Coro aveva disposto le bambine in semicerchio, chiedendo di pronunciare il primo nome che venisse loro in mente, come fossero stati i tasti del suo strumento. Li ho poi trasmessi nello spazio dell’ex Refettorio, dove la loro presenza si è resa tangibile, sottile e pervasiva.
EG: Lì c'era anche una idea del fantasma, perché alle Stelline erano vissute le orfane milanesi.
SW: Sì, lo spazio era pregno della loro presenza, e anche della loro assenza. Mi fu detto che quell’installazione trasmetteva anche un senso di memoria olocaustica, quella di una comunità scomparsa, svanita e riportata virtualmente alla luce.
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