Come stanno le cose per Vincenzo Agnetti

23 Dicembre 2024

Vincenzo Agnetti è uno degli artisti italiani più importanti del dopoguerra e uno dei meno compresi, perché dei più “difficili”, di tutta l’arte contemporanea italiana, anche dopo tante mostre e relativi cataloghi. Diverse sue opere sono entrate nell’immaginario diffuso, più di tutte, credo, il Libro dimenticato a memoria (1970), con le pagine bucate in tutta la parte riservata al testo, o La macchina drogata (1969) che traduce le parole in numeri, o i suoi Assioni (1971), proposizioni paradossali scritte su quadrati neri di bachelite, e altre, ma restano fluttuanti in una storia che non si riesce a inquadrare nell’insieme. Un po’ è il destino di tanta arte detta “concettuale”, che continua a rimanere ostica per le menti affaticate degli storici e dei collezionisti, un po’ è che davvero Agnetti è uno dei più enigmatici, ermetici, complessi.

Finalmente – atteso da decenni, visto che Agnetti è scomparso nel 1981 – esce su iniziativa e cura di Federica Boragina la raccolta dei suoi scritti, Scritti d’arte (1959-1981) (per Abscondita), con una postfazione di Marco Meneguzzo. Finalmente abbiamo il percorso per intero, non solo attraverso le parole dell’artista, i suoi testi, ma anche e soprattutto, direi, per l’eccellente lavoro svolto dalla curatrice che introduce con precisione e completezza ogni sezione e ogni testo, contestualizzandolo e richiamando le circostanze, i fatti, le opere dell’artista.

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Boragina, lavorando a stretto contatto con l’Archivio Agnetti e la sua direttrice Germana Agnetti, ha distinto i testi secondo cinque sezioni. Nei cosiddetti “scritti proposizionali” sono raccolti i testi sulle posizioni critiche e teoriche dell’artista, a partire dal famoso polemico testo scritto per il primo numero della rivista “Azimuth, inizio dell’uscita dall’Informale su iniziativa in particolare di Piero Manzoni e Enrico Castellani, che inquadra subito il contesto in cui Agnetti inizia a sua volta. Il titolo, meraviglioso per vis polemica: Non commettere atti impuri; il finale, perentorio: “Il superamento fa paura a qualsiasi principio”. Davvero questi testi vanno riletti uno ad uno, senza timore delle difficoltà di decifrazione a volte impervie: non è che i testi di Agnetti siano più “facili” delle sue opere, l’artista non concede spiegazioni lineari e didascaliche, anzi pesa le parole e costruisce le frasi in modo che si debba sempre pensare e ripensare alle diverse letture a cui si aprono – era un poeta, era contro le facilità semplificatorie, traditrici della necessaria dialettica con cui tutto va affrontato. L’estrosità del linguaggio è per scansare i luoghi comuni e lavorare al pensiero: “La tautologia come parametro convincente. La contraddizione come parametro stimolante. Gli opposti come casi stupefacenti” (Ai critici di poesia di musica (e) d’arte naturalmente, 1976).

Poi vengono gli “Interventi spontanei per alcuni amici”, i quali amici corrispondono ai nomi dei già ricordati Piero Manzoni (testi fondamentali e indimenticabili, eppure così poco citati), Enrico Castellani, quindi i “vecchi astrattisti” Mauro Reggiani, Fausto Melotti, Antonio Calderara, poi i più giovani Turi Simeti, Nanda Vigo, Paolo Scheggi, Francesco Lo Savio, Eva Sorensen, e ancora i più innovativi Tomaso Binga e Claudio Parmiggiani.

La terza sessione è dedicata alle “Inserzioni anonime”, un gruppo compatto di testi pubblicati a scadenza regolare sulla rivista “Data” tra il febbraio 1972 e il giugno del ’73, “in bilico fra dichiarazioni di poetica e suggestioni critiche”, dice bene Boragina, che ne evidenzia anche il carattere di “operazione editoriale”, una sorta di “opera” – come degli Assiomi più dilungati – concepita in forma di pubblicazione in rivista.

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Vengono poi i testi in forma di scheda storico-critica che a un certo punto Agnetti ha sentito di dover scrivere sulle proprie opere, fornendoci così un catalogo ragionato del suo percorso attraverso le sue dichiarazioni e intenzioni. Si parte dalle prime opere composte di testi, Assenza (1962-67), Obsoleto (1963-65), De repubblica (1967), che Agnetti dunque intende annettere alle opere “d’arte”, per non dire “visive”, o comunque alla sua genesi d’artista, che datano così i suoi inizi, per proseguire fino alle ultime da lui realizzate: Le stagioni (1980), quattro grandi “finestre” alte più di tre metri realizzate per la sua ultima mostra al Padiglione d’arte contemporanea (Pac) di Milano, composte di “photo-graffie”, carte fotografiche esposte alla luce, dunque nere, su cui l’artista disegnava graffiando.

Chiudono il volume un gruppo di quattro interviste, le uniche rilasciate dall’artista, riunite sotto il titolo “Come stanno le cose”, titolo dell’ultima, del 1979, che riflette sulla situazione del momento. Dice Agnetti: “Il presente seppellisce sempre il presente. Forse è per questo che più del mio percorso d’artista mi interessa la vita trascorsa. Il profilo biografico? Anche nelle biografie esiste un problema “ecologico”. L’inquinamento si verifica quando l’essere è sostituito dall’elenco delle opere fatte. È per questo motivo che mi limito a dirti che ho esercitato molte professioni; ho viaggiato molto e ho fatto l’assente per vocazione e ribellione. In poche parole mi sono arricchito d’arte, scomparendo per anni dalle strutture forzate del mondo dell’arte”, eccetera. Sintesi perfetta di prima mano.

Agnetti era un personaggio unico, si capiva subito che era tutto dedito all’arte. Credo che soffrisse di non essere compreso e apprezzato come avrebbe dovuto essere. Ebbe un momento di gloria istituzionale con la già citata mostra al Pac nel dicembre del 1980. Non era tardi, perché in realtà aveva solo 54 anni, ma sarebbe morto di lì a dieci mesi. Lo ricordo bene all’inaugurazione, anche perché era uno che si faceva notare, anche in mezzo alla quantità di persone presenti. L’avevo già conosciuto qualche anno prima, a un’altra inaugurazione, quella della sua mostra personale alla galleria Artra di Milano. C’erano le Autotelefonate (1972), serie fotografica con lui con due telefoni agli orecchi che dice, scritto a mano sotto le foto: “Una parola ripetuta diventa un’altra parola”. All’entrata c’erano i suoi libri di poesia, cui teneva molto e di cui parlò con mio fratello, che all’epoca se ne interessava in modo particolare. In quell’occasione aveva pubblicato un bel libro-catalogo intitolato Libro (particolare) 1978. Ne rimasi molto colpito.

Quando, due anni dopo, fece la mostra alla galleria Toselli, sempre a Milano, con la bellissima serie fotografica in cui cade buttando all’aria la pila di libri che teneva in mano (Surplace, 1979) – una sorta di anticipo più intellettuale di Bas Jan Ader –, mi ero appena laureato e convinsi mio padre a regalarmi un Agnetti per ricordo. Andai con l’assegno alla galleria e chiesi una “photo-graffia”. Vidi Toselli andare nell’ufficio e uscirne insieme ad Agnetti, che mi consegnò personalmente l’opera, ringraziandomi, con mia grande emozione, stringendomi la mano. Come ripeto, era una persona la cui presenza si sentiva, emozionava, un artista unico.

In copertina, 1978, Aprile 22 Agnetti nel suo studio sullo sfondo le sue opere Mass Media e Della Provvisorietà 2 di Oliviero Zanni 22 aprile 1978.

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