Speciale

Campigotto extraterrestre

7 Dicembre 2024

1 Piramide di Micerino, Cairo 1995

LC: Qui siamo al Cairo. Avevo già realizzato nel 1991-92 in bianco e nero il mio primo “vero” lavoro, quello su Venezia di notte. Ho cominciato verso il 1986-87 a fare sul serio, ma solo qualche anno più tardi mi sono detto: “provo a costruire un vero progetto”. Ho fotografato la mia città di notte per evitare persone nell’inquadratura e la solita iconografia a colori. Ho scattato con una macchina di grande formato, molto lentamente, come se dovessi scoprire delle rovine, fingendomi uno di quei fotografi che avevano creato i miti esotici dell'Ottocento – che poi è il periodo della fotografia che amo di più. Penso a Francis Frith in Egitto, o alle immagini del West americano di Carleton Watkins e Timothy O'Sullivan, a Roger Fenton e ai fratelli Beato.

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Al Cairo ero andato per aiutare Bruno Carnevali, chiamato per la sua tecnica strepitosa a fotografare i vetri e gli specchi prodotti dalla fabbrica più grande dell'Africa. Io spostavo le luci e poco altro, poi di sera lui mi accompagnava in giro a fare le mie fotografie. Questa è la piramide di Micerino, la più piccola delle tre piramidi di Giza. Era ormai buio pesto e non si vedeva più niente: a un certo punto mi sono girato e mi ha colpito questa scena decisa da un lampione, l'unica fonte di luce nei paraggi. Ho esclamato: “Speta un momento che provo a far questa”. E lui: “Ma và, no vegnarà fora niente, xe massa scuro”. Io ho insistito: “Speta che provo”. E infatti... ho lasciato la macchina in posa per 5-6 minuti e la fotografia è venuta fuori proprio come l’avevo immaginata.

EG: Cioè?

LC: Cioè una specie di astronave. Una presenza oltremondana. Un’astronave primordiale, preistorica.

EG: Sì, c'è tutto un immaginario fantascientifico sugli egizi visti come extraterrestri, dèì ibridi scesi sulla Terra...

LC: Sì, ma non perché mi interessino queste domande – chi le ha costruite e come, dove sono orientate, eccetera – ma proprio perché la loro presenza scenica è così inaudita da renderle assolutamente stranianti. Poi al buio sono ancora più sorprendenti, e siccome la cosa che sempre mi affascina di più è il senso della meraviglia, beh... una gigantesca piramide scura è una presenza straordinaria tout court. E poi c’è il bagliore incongruo del lampione, che viene invece da un'epoca così familiare, meno “nobile”. Sapevo che la combinazione fra l'alta luce e il cielo nero avrebbe creato questa atmosfera. Nella stampa originale, che è molto difficile riprodurre in un libro, i gradoni della piramide si intravedono appena, ma si vedono. Mi è sempre piaciuto che nelle ombre profonde si senta quello che c'è dentro, che l’oscurità non sia un nero pieno, chiuso. La mia regola è mai bruciare le alte luci e mai chiudere troppo le ombre. I passaggi tonali, pur mantenendo il contrasto, devono esserci tutti. Così anche la luce del lampione è forte, quasi bianca, ma i sassolini si vedono tutti, come si sente lo stacco tra il buio del cielo e quello della piramide.

EG: Mi fa molto piacere che tu abbia cominciato da questa immagine perché ha una presenza misteriosa per cui anche chi guarda capisce che non è il dato documentario quello che conta, ma l’apertura su significati diversi. Mi interessa partire da qui, perché la fotografia di paesaggio soffre sempre di questa limitazione. La meraviglia di cui parli è la chiave estetica che va oltre il carattere documentario. Qui si vede una sorta di definizione della notte, si vede il fantasma del passato, si vede un rimando all’arte astratta. Mi interessa questa distinzione in particolare nel contesto della fotografia di paesaggio. La tua posizione è singolare, non sei un fotografo documentario, pur mantenendo un forte legame con la tradizione paesaggistica, sia in senso tecnico che iconografico e compositivo, una sorta di “classicità” portata nel contemporaneo. Così non sei nella scia né di Ghirri né di Basilico, non hai quel tipo di sguardo e di interesse. Mettiamo allora a fuoco il tuo rapporto con la storia. Credo che sia interessante farlo attraverso il rapporto particolare che hai con l'idea di rovina.

2 Cima Bocche, prima linea austro-ungarica, Trentino 2013

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LC: Prima al telegiornale vedevo delle riprese di Gaza e Beirut bombardate, proprio come due anni fa guardavo le rovine dell'Azovstal, l’immensa acciaieria in Ucraina, e sinceramente pensavo quanto mi piacerebbe fotografarle. Mi dicevo che forse ho una qualche forma di perversione, qualcosa che sarebbe da indagare psicanaliticamente – un’attrazione fatale per ciò che è abbandonato, distrutto, e malgrado tutto, in qualche modo, con i suoi giganteschi mozziconi rimane ancora in piedi.

EG: Sì, è proprio questo che volevo sentire da te: la rovina per quello che è rimasto.

LC: È un interesse iniziato col Molino Stucky, il soggetto del secondo libro che ho pubblicato su Venezia. È stato il più grande edificio industriale d'Italia tra XIX e XX secolo. Era abbandonato da almeno cinquant’anni quando sono riuscito a entrarci nel 1995 e l'ho fotografato da cima a fondo. Una serie di enormi edifici collassati dal tetto fin giù. Solai marciti, guano e macerie, ma le colonnine di ghisa erano ancora tutte in piedi, dal primo fino all’ultimo piano. Questa visione trasmetteva la sensazione che qualcosa resiste sempre. Che poi è il fascino di ogni sito archeologico: la sedimentazione del tempo, la forza di quel che è riuscito ad attraversare i secoli. In quei luoghi capisci cos’è la Storia. 
Analogamente, la prima linea austro-ungarica a Cime Bocche, vicino a San Martino di Castrozza – una trincea che ancora conserva i legni del rivestimento interno – è un’archeologia, diciamo, “di guerra”. Nel 2013, su incarico della Presidenza del Consiglio, ho percorso le montagne della Grande Guerra per un arco di 600 km, dalla Slovenia fino al passo del Tonale, fotografando solo gli sfasciumi originali, niente baracche e trincee ricostruite a scopi didattici, ma solo quello che è rimasto di autentico e oggi fa tutt'uno con il paesaggio – con la Storia, appunto. Un effetto simile lo fa Angkor, in Cambogia, con i templi conquistati dalla vegetazione. In fondo, la stessa compenetrazione di natura, paesaggio, storia, arte, archeologia... Un mix ricco di pathos. Le fotografie che ho fatto sembrano delle nuove concrezioni in cui gli elementi disparati ormai si armonizzano insieme.

3 Shanghai 2016

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EG: Anche queste circonvoluzioni delle autostrade?

LC: Io ho due, tre filoni di innamoramento. Quello che ha a che fare con i paesaggi, con l'archeologia, con i viaggi, viene dai miei studi di storia – mi sono laureato con una tesi sulle grandi esplorazioni geografiche – e in quelle immagini so di cercare l’eco di secoli che avrei voluto vivere, un desiderio di avventura e di esotismo, anche se il termine oggi è assai sdrucciolo.
Un altro filone è quello del cinema, con l'ambientazione scenografica e l’illuminazione da set immaginario. La mia fotografia sulle città di notte viene da qui. Venezia e Il Cairo, i miei inizi, sono teatri della Storia in bianco e nero. Mentre lavorando su New York sentivo rimbalzarmi negli occhi tutti i film che ho visto. Inseguivo ambientazioni cinematografiche e vecchie fotografie. Cercavo, insomma, una città che non esiste più.

4 Tribeca, New York 2007

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EG: Stai parlando di questa?

LC: Sì, per esempio. Questo lo chiamo il mio “angolo Hopper”, un muro di mattoni che mi ricorda la luce di Edward Hopper, uno dei miei ispiratori putativi. Anche qui si tratta della caccia a qualcosa che è andato estinguendosi.

La precedente, quel girotondo di cavalcavia, è quasi un gioco. In Cina tutto mi è sembrato esagerato, sovradimensionato, proprio com’era apparso al mio illustre concittadino Marco Polo. L’inquinamento atmosferico e luminoso è impressionante: di notte i cieli sono viola, rosa, gialli o magari arancioni. Le strade di Pechino sono di quattro corsie che vanno e quattro che tornano. Quando piove, gli edifici dall’altra parte sfumano nella caligine, o non si vedono neanche.
Quel ponte di Shanghai l'avevo visto in Internet e volevo fotografarlo a tutti i costi, ma dopo quattro giorni ancora non avevo trovato nessuno che sapesse dirmi dove fosse. Alla fine un portiere d'albergo mi ha spiegato come raggiungerlo, ma una volta arrivato non c'era modo di vederlo dall'alto come volevo. Mi aggiravo su e giù col cavalletto in spalla, e i sorveglianti dei condomini di lusso lì intorno mi mandavano via in malo modo. Proprio quando stavo per andarmene, dall’ombra è sbucato un cinese invisibile, magro, sporco, che mi ha fatto un segno d’intesa. Per 20 dollari mi ha guidato attraverso un percorso folle, iniziato in una stanzetta al piano terra, appena rischiarata dal bagliore azzurrognolo di un piccolo televisore. Sopra a un materasso lurido era appesa una rastrelliera di chiavi: ne ha preso una e ci siamo incamminati. L'ho seguito per almeno cinque minuti attraverso corridoi, garage, muri sfondati, due ascensori, altri corridoi, finché siamo arrivati in cima, al ventesimo piano. Ha messo la chiave per aprire la porta della terrazza ed era la chiave sbagliata! Mi ha fatto cenno di aspettare. È tornato indietro a prendere la chiave giusta e quando finalmente la porta si è aperta, ho avuto la sensazione che la foto in realtà si fosse già fatta nella mia testa. Bastava solo piazzare il cavalletto e tutto era come avevo segretamente sperato che fosse. Sotto di me, il ponte era una trottola luminosa, impazzita... divertente.

Col passare degli anni ho scoperto che una parte di me resta attaccata al “fascino del dramma”, se così posso dire, mentre un’altra parte vorrebbe, invece, essere più giocosa. La mia transizione al colore ha forse a che fare con questo, con il bisogno di sperimentare una cosa più leggera, e più mortale. Mentre il bianco e nero è un linguaggio autoreferenziale perfetto, poetico, indiscutibile, il colore è un rischio continuo, come fai sbagli, e poi invecchia velocemente. Io lo faccio una volta saturo e un’altra desaturato. Poi lo mischio al bianco e nero. È un modo di giocare con la mia visione. E il computer mi offre l'opportunità di provare tante varianti velocemente – una vera droga dopo 25 anni di camera oscura, dove tutto il procedimento accade molto lentamente. Col computer in un attimo puoi avere un'idea di come variare la luminosità, i colori, i contrasti. Il cervello va più veloce, spesso rischia di fare scelte troppo azzardate ma, grazie alla disciplina ereditata proprio dalla camera oscura, so scegliere con decisione più rapidamente, d’istinto... mi fido di me stesso e, soprattutto, mi diverto di più.
Poi, dopo aver fatto dentro di me tanti ragionamenti, ho letto una frase di Eggleston che dice: “Il mondo è a colori, e non possiamo farci niente”. Come dire: inutile che “scappi” mettendo questo velo del bianco e nero tra te e il tutto, gioca a carte scoperte.

EG: Quindi tu lavori le immagini al computer?

LC: Sì, quando ho cominciato a scattare a colori stampavo nel laboratorio del grande Arrigo Ghi, che mi ha subito aiutato a individuare la mia idea del colore, qualcosa che avevo intuito appena ma di cui non ero ancora consapevole. Per esempio, mi ha fatto scoprire che non sopporto il verde dell’erba in fotografia. Ma il laboratorio chimico ti permette solo di fare la stampa più chiara o più scura, più calda o più fredda. Attraverso il computer, invece, potresti anche passare il resto della tua vita a modificare la stessa foto. È una camera oscura potenziata all'infinito.

Io ho in mente colori diversi per progetti diversi. Per le montagne della Grande Guerra ho usato toni grigi, verdastri, un cromatismo che richiamasse l’atmosfera spoglia di certe foto dell'epoca. Tinte smorzate, ridotte al minimo. Mentre nelle città di notte mando in scena l’esplosione dei colori. È stato proprio forzando la saturazione che mi sono avvicinato a quella che era stata l'impressione che la Cina mi aveva fatto, cioè di essere completamente un altro universo. La libertà che offre il computer di testare e ricostruire impressioni e idee al volo mi è diventata irrinunciabile. Anche se, in fondo, quello che cerco di fare è tornare sempre all'emozione primaria, a quella di quando ero là a scattare la fotografia, per poterne rivivere l’emozione.

Quindi, cerco di seguire l’insegnamento di Eugenio Montale: quando scrivi qualcosa chiudilo in un cassetto e dopo tre anni rileggilo, se è ancora buono allora significa che è buono davvero. Le fotografie che ho fatto mesi fa in Brasile non le ho ancora guardate. Mentre l'altro giorno ho mandato a un editore un menabò con 50 immagini fatte a Angkor quasi vent'anni fa che mi sembrano ancora meravigliose.

EG: Ti interrompo per dirti un pensiero che ho avuto guardando le tue foto, che cioè mi sembrano sempre ammantate di una grande solitudine.

LC: Forse perché tante volte viaggio da solo. Con il passare degli anni mi pesa molto di più andare in giro da solo.

EG: Ma più che l’andare in giro da solo, a me sembra che ce la metti.

LC: Sì, è vero, è una condizione che mi rendo conto di cercare sempre quando fotografo. La vivo come una “sfida” corpo a corpo con il soggetto. Il mio personale duello western che, peraltro, affronto sempre con il massimo rispetto. Che poi il soggetto è fondamentalmente l’idea che hai dentro – quello che cerchi, quello che vorresti ti evocasse. La famosa meraviglia che speri ti travolga.

5 Miniera abbandonata, Iglesiente, Sardegna, 2020

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EG: Questo mi fa pensare all’ultima immagine che hai scelto, ma prima mi riaggancio al discorso che facevi sul colore, che mi sembra esaltato in modo particolare nella serie degli ambienti industriali che hai esposto recentemente forse per la prima volta in una mostra dedicata solo ad esse. L’effetto della lavorazione del colore in queste foto mi ha fatto sembrare che siano l’opposto di quelle di paesaggio, degli spazi aperti, un effetto iperrealistico, iper nel senso di esasperazione, e dunque il contrario del realismo, simulacrali si può dire, per fare un rimando a tutta una problematica dell’immagine.

LC: Può darsi, non saprei dirti. Io il colore lo uso un po’ da “praticone”, da uno che si innamora di una soluzione. Per me questa foto – una miniera abbandonata nell'Iglesiente in Sardegna – non è così diversa dalle altre. Sembra anch’essa un’ambientazione cinematografica pirotecnica. Un intreccio di tubi e macchinari misteriosi trafitto da colpi di luce. Una cosa rara da vedere, straordinaria in senso letterale.

EG: Ecco, appunto, a me è sembrato che tu abbia lavorato il colore proprio in modo “innaturale” per accentuare questa differenza. Anche le altre immagini che c'erano in mostra, i cantieri navali, le turbine enormi, i grovigli di tubi. Insomma la turbina non è una forma astratta, un cerchio che potrebbe essere accostato al triangolo della piramide, non è trattata allo stesso modo.

LC: Non ho una vera risposta. Ho voluto accentuarne la stranezza. Ogni immagine finale è una sorta di approdo, quel che cerco di raggiungere attraverso il ricordo. Come se dovessi raggiungere a nuoto l’altra riva. Anzi, forse ancora più importante è quello che credo di aver visto, o addirittura quello che avrei voluto vedere. Quindi non solo un lavoro sulla memoria, ma anche sull’aspettativa e sulla delusione, sulle illusioni, su quello che fantasticavi e invece non hai trovato. È per questo che amo rimaneggiare le immagini a distanza di anni, imbrogliare il tempo e me stesso – è una carne viva, finché sono vivo io sono vive anche loro.

6 Lapponia 2003

EG: Mi piace finire con questa immagine, con questa nave veramente impressionante, vorrei dire “mitologica”, un mito contemporaneo. Presa da sotto, è esaltata e esaltante.

LC: È una immagine che ho “visto” prima di scattarla. Il rompighiaccio si arresta di colpo appena i motori si fermano e resta intrappolato nel punto esatto dove si trova. Scendendo dalla scaletta mi sono detto: “Adesso vado sotto prua e lo vedrò così”, e quando arrancando sono arrivato lì davanti la scena era esattamente come l'avevo immaginata un minuto prima. Proprio come credevo sarebbe stato: uno squalo preistorico prigioniero del gelo – ancora qualcosa che ha a che fare con l'avventura e col mito, appunto.

EG: A proposito di animali mostruosi, anche alla mostra dei soggetti industriali mi è venuto da pensare diverse volte ad animali giganteschi.

LC: Sì, fin dalle fotografie fatte a Marghera trent'anni fa, la mostruosità degli impianti industriali non smette di sedurmi. Ricordo le gru della Fincantieri che come dinosauri allungavano lentamente il collo verso le navi in costruzione. Era una selva furibonda di macchinari zoomorfi. Il girone dantesco degli Alien.

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