Picasso lo straniero

11 Novembre 2024

L’idea di partenza è bella e importante, di quelle che vengono dall’attenzione all’attualità, che altrimenti non si notano, e di fatto non aveva ancora avuto nessuno. Picasso, è stato detto in conferenza stampa, non senza una sfumatura polemica, chissà perché – o meglio, si sa bene perché: ci vuole sempre un nemico, mi diceva un amico, da quel giorno diventato nemico! –, Picasso è stato (fin) troppo in balìa delle interpretazioni “formaliste”, nessuno si è ricordato che era uno straniero, come dice il titolo della mostra (Palazzo Reale, Milano, fino al 2 febbraio 2025), un emigrato non solo in condizioni di povertà ma di difficoltà di rapporti sociali durate decenni.

Certo, dicevo, è una visione che solo l’urgenza della questione dei migranti oggi poteva far cogliere in questo modo, ma non è la forzatura di un momento: Annie Cohen-Solal, la curatrice, non l’ha cavalcata giornalisticamente e genericamente, ha invece capito che c’era tutto un mondo, tutta una documentazione dietro questa urgenza d’attualità, per cui per anni è andata in ogni archivio possibile, di polizia, di tribunale, di giornali a mettere insieme le notizie in diretta di questa storia. Il risultato è un corposo libro, Picasso: una vita da straniero, edito da Marsilio, promotore anche dell’esposizione, anzi delle esposizioni, come vedremo, e relativi cataloghi. Così ha ricostruito tutta la vita dell’artista alla luce di tale condizione, dagli inizi, quando, giunto a Parigi, frequentava naturalmente la cerchia dei catalani, tenuti d’occhio dalla polizia perché ritenuti anarchici e disturbatori, fino alla tardivissima proposta di cittadinanza, quando Picasso era già una star internazionale, e si avvicinava ormai agli ottant’anni, nel 1958, a questo punto da lui respinta.

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© Succession Picasso by SIAE 2024. Foto di Vincenzo Bruno.

Gli inizi, non fosse la tragicità della situazione, fanno molto film di serie B, con i poliziotti stupidi, le spie che paiono delle caricature, l’approssimazione e il luogo comune come regola. Ma la descrizione della vicenda è ricchissima e sfaccettata. L’aiuto ma anche i tradimenti dei compatrioti, la morte traumatica dell’amico Casagemas, ritratta in decine di quadri e disegni, l’affetto e l’apprensione della madre che gli scrive ogni giorno, migliaia di lettere conservate al Museo Picasso parigino, e il sostegno dei poeti più di qualsiasi altro, francesi intendiamo, in primis Max Jacob, poi Guillaume Apollinaire e gli altri, un’amicizia e un interesse che Picasso non abbandonerà mai più, circondandosi sempre più di poeti che di colleghi, facendo loro i ritratti, illustrando a decine i loro libri – e ampiamente ricompensato da altri poeti in quantità, anche non compagni di strada.

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La chiave di lettura è dunque di quelle che illuminano, o qui piuttosto ombreggiano, in ogni caso scolpiscono una figura e la storia in modo più dettagliato. Il libro ripercorre tutta la vita, davvero passo passo, non solo gli episodi e le frequentazioni più note – come non notare che anche i suoi sostenitori della prima ora erano degli stranieri, da Kahnweiler a Uhde agli Stein a Barr? – ma veramente ogni passaggio, dall’inizio del cubismo, “vittima collaterale dell’isteria germanofoba”, alla collaborazione con i Balletti russi e il successo presso l’aristocrazia, ai seguenti “cinque anni sull’orlo del baratro” della guerra nazista, e così via fino al “vecchio maestro” sempre “da straniero” – per ripercorrere alcuni titoli di capitoli del libro.

Con la stessa chiave interpretativa la mostra si ammanta di un velo di dramma e di tristezza che è difficile scrollarsi di dosso durante la visita. Si leggono i giustamente numerosi pannelli e le scritte pensando alla sofferenza di una simile condizione, si vedono nelle opere, o più che nelle singole opere, forse nell’accanimento a disegnare e dipingere tutto e costantemente, una reazione e una risposta all’isolamento, misto di orgoglio e di mestizia, che ora notiamo più chiaramente nei suoi autoritratti, nel suo sguardo allucinato, all’inizio il più delle volte basso o laterale poi più spesso fisso su di noi come un  monito –, nonché la libertà di stile gettata in faccia a chiunque fin dal 1906 (si dimentica spesso che Les demoiselles d’Avignon non piaceva a nessuno, nessuno).

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Credo dunque che la mostra a Palazzo Reale sia non un’altra mostra di opere di Picasso, ma una mostra altra di un Picasso, differente, da guardare con quel pensiero in testa. Così tutto cambia e vediamo diversamente. È importante per una mostra. I documenti esposti stanno a ricordarcelo passo passo anche solo per questo, anche al visitatore che non sta a leggerli tutti o a guardarli con interesse storico. Dopodiché, insomma, Picasso sorprende sempre, non si finisce mai di guardare le sue opere e tutte parlano, non sono mai irrilevanti, anzi tutte strabilianti, fin nei più occasionali disegni. Picasso pensava con la matita e il pennello in mano, e non finiva mai di pensare. La chiamano “forma” per accusare di formalismo chi la segue, ma è il modo di pensare, non è una fissazione o un’astrazione. Così come se vuoi dipingere la miseria e la tristezza devi usare una dominante fredda, il blu, se vuoi dipingere non solo quello che vedi devi scomporre, aprire e sfaccettare, se vuoi dipingere delle donne sulla spiaggia le devi fare come un gioco di sassi impilati; e davvero il volto di una donna che piange o che si appoggia addormentato sul braccio si deforma. davvero l’eccitazione erotica arrotola le forme per esaltare il tatto.

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© Succession Picasso by SIAE 2024. Foto di Vincenzo Bruno.

Insomma Picasso ha stravolto per rivelare. La “forma”! Non ha scritto sui suoi quadri: Sono uno straniero, o: Abbasso la polizia, I francesi sono… D’altro canto anche gli amici… Né si è lasciato rodere dalla diffidenza e dallo scetticismo. Ha deciso la libertà che si manifesta, per un artista, nell’indifferenza allo stile unitario, alla presunzione del rigore, alle regole dei comportamenti di gruppo. Mai stato in un movimento, mai fatto parte di gruppi, neanche quello del “mondo dell’arte”, mai subito i giudizi. Bisognava essere straniero per fare questo. Era straniero in questo senso: estraneo. Lo è stato davvero per tutta la vita. La mostra di Palazzo Reale è completa, la ripercorre a sua volta tutta, divisa in tre sezioni: “Il paradosso Picasso” (gli inizi, dal 1900 al 1906), “Le tre stigmate” (il periodo delle avanguardie, dal 1906 al 1944) e “Uno stratega dalle molteplici risorse” (gli ultimi tre decenni, dal 1944 al 1973), e ci si rende conto che anche dopo il riconoscimento Picasso rimane straniero a tutto. Nelle foto, mi verrebbe da dire, è sempre concentrato su ciò che guarda, non interagisce mai veramente con chi gli sta intorno, che lo guarda con ammirazione e stupore proprio perché non riesce a catturarlo veramente e ammira questa sua separatezza come una forma di superiorità, di “genio”.

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© Succession Picasso by SIAE 2024. Foto di Vincenzo Bruno.

È interessante che la mostra di Palazzo Reale abbia un complemento a Palazzo Te a Mantova all’insegna della metamorfosi. Il sottotitolo della mostra per la verità è “Poesia e salvezza” e l’argomento è dunque il rapporto di Picasso con i poeti e la poesia, con dipinti e grafiche, illustrazioni e testi dello stesso Picasso. Un ambito meraviglioso ancora troppo poco studiato secondo gli aggiornati studi sul rapporto tra immagine e parola. Giustamente la mostra è a Palazzo Te, dove il rapporto con Giulio Romano esplode nella ricchezza dei rimandi starei per dire reciproci, nel senso dell’effetto anche a ritroso di Picasso sulla nostra visione di Giulio Romano. Ma il nucleo che emerge più di qualsiasi altro, soprattutto appunto nell’accoppiamento con l’argomento dello straniero, è la metamorfosi. La libertà di Picasso è la metamorfosi, dicevo appunto sopra, una strategia per sfuggire ai lacci delle categorie di ogni tipo, poliziesche, sociali, così come artistiche. E non paia solo lirica questa osservazione, ma anche storica, se si pensa, come numerosi studi in diversi ambiti ormai, da quelli gender a quelli postcoloniali, hanno indagato. E si pensi alla differenza tra metamorfosi e trasformismo, conformismo, adattamento, integrazione, eccetera: sempre fermo su sé stesso, Picasso si trasformava di mano in mano, Minotauro piuttosto che Teseo.

Si pensi allora, per concludere, alla poesia come linguaggio e pensiero che mira ad attingere alla profondità di questi temi e di queste esigenze, alla metamorfosi come scavo in sé stessi e nelle cose per capire meglio, o forse anche solo per sentire meglio e di più, per attingere al centro del labirinto.

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© Succession Picasso by SIAE 2024. Foto di Vincenzo Bruno.

Il libro di Anne Cohen-Solal è imperdibile e ormai un punto di riferimento, i cataloghi delle due mostre sono ricchi non solo di illustrazioni – ricordiamolo, con documenti e alcune opere mai visti prima, ben quaranta per la prima volta in Italia, oltre ai capolavori indispensabili – ma anche di contributi originali e indipendenti: un intervento di Niccolò Ammaniti oltre a quelli delle curatrici in quello di Milano, ben quattro saggi, oltre a quello della curatrice, in quello di Mantova, di Stefano Baia Curioni, Johan Popelard, Jèssica Jaques Pi, e Carlos Ferrer Barrera.

In copertina, © Succession Picasso by SIAE 2024. Foto di Vincenzo Bruno.

Picasso lo straniero, a cura di Annie Cohen-Solal e Cécile Debray
Palazzo Reale, Milano, fino al 2 febbraio 2025

Picasso a Palazzo te. Poesia e salvezza, a cura di Annie Cohen-Solal e in collaborazione con Johan Popelard
Palazzo Te, Mantova, fino al 6 gennaio 2025

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