Speciale
Paola Di Bello: sparizioni
1 La disparition, 1994
EG: Mi fa piacere che tu abbia scelto di partire con La disparition (1994), nonostante tante opere significative che hai realizzato prima, perché dietro questo titolo, che naturalmente spiegherai che rimanda a Georges Perec, c'è anche la possibilità che ci siano diverse altre sparizioni, per esempio quella della fotografia stessa intesa in modo tradizionale. Avevi in mente qualcosa a questo proposito?
PDB: In realtà con questo lavoro pensavo di aver superato tutta la mia esperienza precedente di fotografia, mentre invece ero e sono ancora lì. Per tutta la mia giovinezza ho sempre pensato alla fotografia non come presa diretta dalla realtà, ma come riproduzione da oggetti, libri, immagini, quindi quando ho fatto quest’opera ho pensato di fare un lavoro che andasse completamente nella direzione opposta rispetto alla fotografia rappresentativa – quella di ripresa dalla realtà, per intenderci – ma anche rispetto a tutta la fotografia degli anni ’80. Pensa, per esempio a Viaggio in Italia di Luigi Ghirri, che, a mio dire, come progetto è interessantissimo, ma tutta la fotografia in Italia, in quel periodo, era fotografia di paesaggio, di luoghi, di territorio. Dal canto mio la trovavo limitatissima perché rappresentativa: era la rappresentazione in scala di quello che abbiamo già davanti agli occhi.
Per me invece era centrale l'infraordinario di Perec e la ricerca di un modo attraverso cui dare immagine a questa quotidianità così quotidiana, così a priori, così trasparente che non si vede più. Quando sono arrivata a Parigi sulle tracce di Perec e, scesa dal treno alla Gare de Lyon, ho visto che c'era la mappa della metropolitana, mi sono detta: “Oddio, adesso dove trovo Gare del Lyon in questa mappa con tutte queste fermate?” E più mi avvicinavo per cercare, più ho visto questa mancanza, questa sparizione del posto in cui sei. E allora mi è venuto in mente di fotografare tutte le 350 stazioni della metropolitana, inquadrando solo la parte della fermata stessa che, per effetto della “consultazione tattile”, si presenta consumata in maniera sempre differente. Con tutte queste fotografie ho ricostruito l’intera mappa come un puzzle.
EG: Quindi è una sorta di contro-paesaggio.
PDB: È un contro-paesaggio, sì. Cioè per me in realtà è molto di più del paesaggio.
EG: C'è anche la questione della mappa che non è il territorio, Borges, Calvino, eccetera?
PDB: No, cioè c'è sicuramente Borges, anche per altri aspetti, però io volevo una rappresentazione visiva dell'uso, della vita della città. La mappa è sempre un fatto astratto. Nonostante io sia attratta dalle mappe, volevo qualcosa che la rendesse più vera, più reale, che registrasse i reali percorsi degli esseri umani nella città.
EG: Era un argomento situazionista, ma qui invece che l'autore di turno, per esempio Debord o Rumnay con le mappe che chiamavano “psico-geografiche”, qui sono gli utenti, sono le persone che fanno la cartina.
PDB: Esatto. Quindi per me la fotografia in questo caso era proprio una riproduzione fedele di quel dettaglio, tanto è vero che li ho fotografati con un distanziatore in modo che, tornata a casa e stampate tutte le immagini a macchina, combaciassero perfettamente: quindi assolutamente complanare, stessa distanza, stessa luce, stesso tutto. È questione di progettualità, alla quale credo ancora fortemente oggi. Il progetto è prima e la fotografia è una fase puramente realizzativa, in questo caso riproduttiva. Ovviamente stavo fotografando una traccia importante, perché in questo modo ho veramente visualizzato la reale frequentazione dei luoghi di Parigi.
EG: Mi interessa anche il fatto che la sparizione non è, come dire, “metafisica”, cioè solo del posto dove tu sei, come se l'assenza fosse, appunto metafisicamente, la ragione della presenza, di ciò che sta intorno al vuoto centrale, tutte queste questioni. Qui c’è piuttosto una moltiplicazione, proprio una mappa dell'uso.
PDB: Sì, anzi volevo che fosse più fotografia della fotografia, volevo avere la riproduzione fedele della somma di tutte le mappe presenti in ogni fermata, la somma di tutti i luoghi cancellati. Sono esattamente tutte le fermate della metropolitana di quel periodo. Dove non ci sono fotografie è perché non ci sono fermate.
EG: Quindi le hai fatte tutte nello stesso periodo?
PDB: Tutte in 10 giorni. E fra l'altro, secondo me, le zone mancanti paradossalmente rendono più reale la forma della città rispetto alla forma della mappa, perché in periferia la città si sfrangia e la metropolitana finisce. Nei vuoti ci sono i grandi parchi, per esempio. Fuori dal centro la città diventa un'altra cosa. Quindi, paradossalmente, La disparition, ancora oggi, mi sembra più concreta di una fotografia da terra.
2 Espèce d’espace, 1997
EG: Pare che Perec abbia avuto un ruolo importante anche da un punto di vista teorico su tutte queste riflessioni, tant'è che ritorna in almeno un altro progetto e forse anche di più.
PDB: Sotterraneamente torna in tutti. Infatti anche questo ha un titolo perecchiano, Espèce d’espace, che però suona anche molto milanese! Motivo per cui l'ho scelto perché si tratta della metropolitana milanese, in cui si consuma un tipo di visione che a me interessa. Qui forse ho cominciato sì a fare delle riprese dalla realtà, ma sempre con un espediente visivo importante. Questa è la fermata della metropolitana di Porta Venezia dove c’è un corridoio molto largo. A un certo punto, al centro del corridoio, ci sono stati dei negozi che poi sono stati tolti. Di questi negozi è rimasto solo il soffitto dipinto di bianco e il pavimento chiaro. Se tu ti metti perfettamente a cavallo di questa linea, proprio con la prospettiva geometrico-rinascimentale, hai una visione quasi doppia, opposta: di qua chiaro, di là scuro, di qua giorno, di là notte. Io ho scattato questa fotografia, rigorosamente in bianco e nero proprio per sottolineare...
EG: Però sono due scatti!
PDB: No, no, è uno scatto solo, guarda bene le piastrelle del pavimento! Questa riga divisoria è reale, solo che uno non la vede, perché non cammina mai su questa linea. E, siccome tutti pensavano si trattasse di un collage, allora ho fatto un video di 30 secondi di cui 25 sono fermi. E allora ti dici: “Beh, succederà qualche cosa”. Negli ultimi 5 secondi una persona attraversa lo spazio, e sale anche l'audio della metropolitana quindi precipiti nella realtà. Quello che era una tua fantasia diventa la realtà.
Già con questo lavoro mi interessava proprio la potenza della visione…
EG: Perché “potenza”?
PDB: Perché il desiderio di immagine è tale che l’occhio vede cose anche laddove non ci sono. Allora la fotografia può rendere visibile questa possibilità che lo sguardo ha di vedere e di creare. Come nelle nuvole.
Un altro lavoro che si basa sulla potenza della visione è Video-Stadio (1997), in cui si vede chiaramente che la rampa gira. Invece è un effetto ottico-percettivo: la continuità del lento movimento degli spettatori che, finita la partita, escono percorrendo la spirale della rampa dello stadio di San Siro crea un effetto ottico-percettivo come se la torre girasse su sé stessa. Si intitola Video-Stadio perché per me era lo stadio del video, cioè era esattamente la questione del vedere.
EG: Dunque non è un dittico come hai fatto per altri lavori, ma funziona per divisione in due: l'orizzontalità e la verticalità si rovesciano, entrano in collisione…
PDB: Sì, è il tema del doppio. La disparition era un vero collage, questo sembra un collage ma è uno spazio comunque doppio, che l'occhio fotografico coglie perfettamente.
Un altro lavoro che ho fatto nello stesso anno, il 1997, è stato quello sulle porte di Napoli. In questo caso si tratta di dittici. Mi era stata commissionata dal Comune di Napoli una lettura delle periferie. Periferie e Napoli rischiano sempre di essere, secondo me, l'apoteosi del luogo comune. Quindi ho fotografato, attraverso le porte dei campetti di calcio in periferia, quello che traguardava la porta stessa facendo una fotografia da una porta e una dall’altra, perché tutti i campi di calcio hanno due porte. In questo modo mettevo anche a confronto l'ambivalenza delle periferie: facendo le due foto, compivo un'azione importante sul discorso fotografico, cioè mostravo ciò che di solito non vediamo, ovvero ciò che è diametralmente opposto, ciò che sta dietro le spalle del fotografo. A differenza del fotografo comune che guarda solo da una parte e inquadra solo uno spicchio della realtà, ho provato a mostrare il fuoricampo. Non quello calcistico, ovviamente!
3 Concrete Island, 1996
EG: Passiamo alla terza immagine.
PDB: Si intitola Concrete Island, che è un titolo preso da James Ballard. Il suo romanzo racconta di un uomo che ha un bel lavoro, una bella casa, una bella fidanzata, una bella macchina e tutti i giorni percorre la tangenziale intorno a Londra per tornare a casa. Un bel giorno ha un incidente, cade giù dall'autostrada e finisce in una “concrete island” e non riesce più a uscirne. Comincia così a fare esperienza della vita di senzatetto, di emarginati, di oggetti buttati, che vivono in questa isola come in una realtà parallela.
Così ho cominciato a vedere gli oggetti abbandonati in strada – nel ’96 non c'era ancora la raccolta differenziata. Li ho fotografati semplicemente riguardandoli come quando erano ancora a casa. Quindi adeguavo il mio punto di vista a loro, diventavano loro il mio orizzonte visivo e dunque la realtà circostante risultava ribaltata, spaesata, storta. La fotografia ha qualcosa che non va perché l’immagine vince sulla forza di gravità.
Da questa serie ne è derivata un'altra che si intitola Rischiano pene molto severe. È una serie dedicata ai senzatetto che dormono nelle stazioni, che io ho fotografato, poi stampato a grandezza naturale e riposizionato in verticale.
EG: Sì, è molto curioso che ci sia questa rotazione del mondo, è molto suggestiva. La rotazione ha un grande ruolo nel tuo lavoro: rotazione del punto di vista, dell’oggetto, della fotografia, del senso anche, cioè al posto della metafora, dei rovesciamenti puri e semplici, delle opposizioni.
PDB: Certo, perché è sufficiente cambiare il punto di vista e l'oggetto che è fuoriuscito dalle nostre abitudini, che è uscito dalla nostra vita, diventa ciò a cui adegui il tuo sguardo. È come scriveva Bergson: “Quando gli oggetti smettono di essere utili iniziano a essere, semplicemente”.
EG: È anche un'altra accezione di periferia, l’attenzione alle cose e alle persone marginali, lo sguardo periferico. Così vale anche per gli homeless, e poi farai con i rom, e con l'adolescenza in altri progetti.
4 Ora e qui, 2016
EG: Passiamo alla seguente e anche qui c'è la compresenza...
PDB: Sì, anche qui c’è il tema del doppio. Questa, che si intitola Ora e qui, fa parte di una serie più ampia di fotografie in cui ho sommato sulla stessa lastra due scatti, uno di giorno e uno di notte, tenendo il cavalletto fermo, l'otturatore pronto. Il lavoro è nato a New York, dove sono stata parecchio tempo godendo di una grande ospitalità. Avevo quindi deciso di regalare un lavoro a chi mi ospitava, che volevo fosse un lavoro fatto apposta per loro. Mi venne l'idea di guardare la città dalle case degli abitanti e rendere speciale, straordinaria, la loro veduta quotidiana dalla finestra. Anche qui, se vogliamo, torniamo al discorso perecchiano dell’infraordinario. La veduta che io realizzo con il doppio scatto, diurno e notturno sovrapposti, è speciale soprattutto per chi abita quella veduta. Il lavoro si intitola Rear Window, che è il titolo originale del film di Hitchcock La finestra sul cortile.
In Ora e qui ho utilizzato lo stesso processo. Accade questa sorta di magia magrittiana che rende compresenti la vita notturna e la vita diurna di un luogo. Quindi hai insieme il cielo di giorno e le ombre animate notturne.
EG: Cavalco ancora questa idea della rotazione: anche qui c’è una sorta di rotazione della prospettiva, che non è più monoculare.
PDB: Infatti il titolo Ora e qui indica l’unità minima di tempo e l’unità minima di spazio, e a me interessava proprio perché smonta il “qui e ora” e diventa una visione impossibile per l'occhio umano ma possibile per la fotografia.
EG: Ti faccio una domanda come si suol dire un poco imbarazzante: c'è qualcosa di “poetico” in quello che fai? Questa dimensione ti interessa, o resta tutto distaccato e progettato?
DBP: Se per poetico si intende quella roba un po’ soggettiva, ondivaga, no. Se invece parliamo dell’impatto visivo che è e può essere anche emotivo, di attrazione, quello sì, a quello credo molto. Credo anzi che debba essere il primo livello di un'immagine, cioè prima di tutto un’immagine ti deve acchiappare per cui dici: “Ma che cosa sto guardando, che sto vedendo, cosa sta succedendo, che cos'è esattamente? È un collage oppure no, gira il pilone o gira la gente, è giorno o è notte?”. Cioè quell'attimo in cui tu ti interroghi: quello è il moto dell’anima che più mi interessa.
EG: Bene, prossima foto.
5 Un ritratto di Vienna, 2010
PDB: Questo è un altro lavoro che mette insieme tutte queste cose. Si intitola Un ritratto di... ed è una serie – in questo caso Un ritratto di Vienna. Non è un ritratto, né una foto di gruppo: è un collage di tante singole fotografie che compongono una strada che compongono un gruppo di persone. Per questo è un ritratto di Vienna.
Mette insieme due aspetti della fotografia e due altri miei lavori, ossia Dromografia (1997) e Framing the Community (2006). Diciamo che ho ripreso le strip di Ed Ruscha del Sunset Boulevard: lui le faceva in modo non sistematico, io invece ho voluto fare una riproduzione di un’intera strada, come fosse una scansione del fronte di tutti gli edifici che si affacciano sulla strada e la compongono. Inoltre metto insieme anche i ritratti delle persone che vivono, che abitano in quella strada. Il fatto che siano palesemente in posa davanti all'obiettivo mostra che c’è stato un contatto. C'era l'idea di far partecipare a questa fotografia gli abitanti della strada.
EG: Dunque due aspetti fotografici, cioè il paesaggio e il ritratto.
PDB: Esattamente, solo che qua il ritratto è di una comunità di abitanti, di persone, che decidono di partecipare al progetto. Ogni singola fotografia ritrae una persona e uno spicchio di strada. È come se ciascuno di loro dicesse: “Questo è il mio spazio, ci sono dentro”. Solo costruendo il collage si ottiene il ritratto della comunità e l’intera strada di Vienna.
EG: Da quello che raccontavi anche prima si vede bene come il tuo lavoro, e con esso la fotografia grazie al tuo lavoro, segue anche certi sviluppi dell'arte in altri ambiti. Qui c'è un aspetto che viene chiamato “relazionale”, o “arte pubblica”. Come hai sentito questo aspetto?
PDB: Sì, questo aspetto mi interessa molto. Ancora oggi lavoro in questo senso e penso che l’approccio relazionale dovrebbe essere assunto da tutti quelli che hanno a che fare con un pubblico e che quindi ogni arte pubblica debba necessariamente essere relazionale, cioè debba tener conto di questo pubblico. Rappresentare questa strada, non solo da un punto di vista visivo-architettonico, ma anche dalla parte di quelli che ci abitano, è un’azione che va in tal senso.
Anche Video Rom (1998), per esempio, è stato letto tantissimo come un'opera di arte pubblica relazionale. In quel caso ho conosciuto i rom che vivevano dietro al Cimitero Maggiore di Milano e sono andata ad abitare a casa loro a Costei in Romania, perché loro, essendo qui, avevano lasciato casa loro, lì, vuota. Nel video, ho messo in parallelo le due immagini: Milano e Costei.
EG: Al tempo stesso c'è un riportare la fotografia alle sue origini funzionali, cioè il ritratto, la rappresentazione della vita delle persone, della realtà, ma in modo progressivo invece che regressivo, conservatore, e un reindagare le origini della fotografia, della storia della fotografia, che è un aspetto interessante da sottolineare, soprattutto rispetto al pubblico che pensa che queste siano un po’ delle fughe in avanti rispetto all'uso comune, “vernacolare”, come si dice oggi. Al tempo stesso proprio quella che oggi si definisce “postfotografia” è incentrata su una riflessione a partire dall'uso piuttosto che da aspetti estetici.
Ma veniamo all’ultima immagine, un altro tipo di comunità.
6 Community Specific Archive, 2024
PDB: Questo è un lavoro di quest'anno, appena completato. È un progetto realizzato allo Csac di Parma con Valerio Rocco Orlando – siamo colleghi all’Accademia di Brera e abbiamo vinto insieme il bando PAC-Piano Arte Contemporanea della DGCC.
La riflessione di partenza era a proposito della pandemia e del post-pandemia, in particolare sul disagio di una certa generazione, quella degli studenti. La mia idea era quella di provare a mettere gli studenti dell’Università di Parma a contatto con delle immagini da usare come innesco per un discorso sulle loro ansie, sui loro pensieri, sui loro desideri. Ho scelto delle immagini contenute nell'archivio dello Csac di Parma, che è un archivio enorme, in particolare sono partita con dei ritratti, non necessariamente autoriali ma di agenzia stampa, vernacolari, eccetera. Così ho cominciato a fare degli scatti in cui ho tagliato solo dei dettagli di queste immagini in modo che i pezzi fossero completamente decontestualizzati. In ogni scatto non si vedeva più com'è, dov'è, perché, cos’è, quand’è – domande tipiche della fotografia documentaristica. Diventavano immagini aperte che si prestavano a un dialogo esclusivamente visivo tra me e gli studenti, tra l’archivio istituzionale e l’archivio privato.
Questo, in particolare, è nato dal disegno di Lucio Fontana, che in parte è coperto e lascia solo intravedere l’atteggiamento della ragazza. Il collage ruota intorno alla seduzione, uno dei temi affrontati durante il seminario con gli studenti. Una di loro, che aveva scelto questa immagine, in risposta ha portato la fotografia di suo nonno e suo zio che mostrano uno sguardo seduttivo maschile. Al dialogo ho risposto con un dettaglio estrapolato da una fotografia di scena di Rocco e i suoi fratelli e poi, discutendo di seduzione, di corporeità, eccetera, sono nati gli altri abbinamenti. La composizione di tutti questi pezzi – 11 collage in totale – è avvenuta tramite un editing finale, che mostra quel dialogo per immagini e ricostruisce un po’ quello che erano stati i nostri tavoli di lavoro.
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