Massima sorveglianza
CCTV, cultura del controllo tormentoso e vigile o per una estetica della sorveglianza integrata.
L’interno della cella, con le appariscenti pietre squadrate delle sue mura, deve lasciar supporre che il carcere sia architettonicamente molto complesso. Sul fondale una finestra munita di inferriate con le punte rivolte verso l’interno. Il letto è un blocco di granito con sopra, ammucchiate, delle coperte. A destra una porta munita di inferriata.
Jean Genet, Alta sorveglianza, didascalia iniziale, 1947
Le videocamere ci controllano, ci esaminano, ci spiano, ci osservano: lo fanno per il nostro bene. Tante volte qualcuno nel supermercato globale in cui abitiamo, non avesse a rubare qualcosa che noi potremmo o vorremmo comprare. Tutto deve rimanere in bell’ordine, intatto e immobile come gli addetti agli scaffali l’hanno sistemato.
Il sistema CCTV non è per la nostra sicurezza, è per la salvezza delle merci e dei beni immobili. Tutela i palazzi dai taggers, tiene al sicuro le banche dai precari disperati che non riescono ad avere un mutuo, nemmeno ricorrendo alle consuete garanzie religiose. Viene da parteggiare per la streghesca signora Ganush, gitana in terre d’America, che nel divertente Drag me to Hell di Sam Raimi (2009), fa il malocchio a una tediosa signorina bancaria, dopo che le è stato rifiutato il rinnovo di una ipoteca. Solo la magia nera può permetterci infatti di escludere l’occhiuta sorveglianza dell’occhio elettronico che ci segue dalla mattina alla sera. Samuel Beckett l’ha individuato esattamente nella sua natura di belva, assetata di sangue, che vive del dolore altrui. Nel mirabile Film, Buster Keaton (1965), straziante fantasma del muto, fugge nelle periferie newyorkesi, cercando disperatamente di nascondersi, ma infine uno sguardo orrendo, appartenente a una antica divinità babilonese, lo inchioda alle sue responsabilità, sgradite e disamate, di essere umano.
La celebrata distopia del Grande Fratello orwelliano è ormai tediosa cronaca di vita condominiale, avventura quotidiana di fronte alle campanelliere delle dimore di lusso, dove uno sguardo di gelo ti blocca. Tanto i numeri sostituiscono da decenni i nomi, nel tentativo di mantenere un anonimato ipotetico, di vivere sotto copertura, da agenti segreti di se stessi. Tutti felici di sorridere di fronte all’obiettivo, di inchinarsi di fronte al giudice, alla platea immaginaria del reality di ogni giorno.
Eppure la cronaca nera è sempre lì a spiegarci che quegli sguardi non servono certo a garantire la salvaguardia degli esseri umani, assai meno interessanti delle merci per la logica globale. Nel 1997 il poeta Blake Morrison scrisse un libro durissimo sul caso Bulger: il piccolo James, di tre anni, venne rapito in un grande magazzino, da due dodicenni: Jon Venables e Robert Thompson. I ragazzi lo seviziarono e mutilarono, dopo una serie di atti tanto violenti quanto assurdi: il servizio CCTV riprese debitamente le fasi dell’avvicinamento dei due al bambino, ma nessuno intervenne per interrompere il misfatto. Come scrive lo scrittore britannico: “sicurezza non è certo salvezza”. Il rapimento avviene di fronte a uno scaffale di patatine in tubo e in sacchetto: tutto mantiene il proprio aspetto sorridente e il proprio colore acido, come voleva il galateo pubblicitario di quegli anni di consumismo sfrenato. Il destino del bambino è segnato.
La sicurezza fornisce lo scenario di molte ricerche estetiche degli ultimi decenni. Jean Genet, profetico e visionario come di consueto, nel 1947 riassume la sua esperienza di detenuto nella pièce Alta sorveglianza. Tre detenuti si esaltano delle proprie imprese criminose, per lo sguardo cupido di un sorvegliante che li tiene d’occhio. Francis Ford Coppola nello smagliante La conversazione (1974) entra nella testa di un intercettatore, che ascoltando decide del destino degli altri. Al momento del crollo delle dittature dell’est, gli archivi dei grandi fratelli polizieschi hanno fatto sognare molti. Le inquietanti gemelle Jane e Louise Wilson allestirono nel 1999 alla Serpentine Gallery una loro gelida visita guidata alle stanze della STASI, la polizia politica della Germania Est. L’ente nefasto a cui è dedicato il film premio Oscar Le vite degli altri di Florian Henckel von Donnersmarck (2006), cronaca e epopea di uno spione telefonico. William E. Jones nel progetto artistico di grande interesse Tearoom (2007) individua le fratture del desiderio nelle riprese alle comunità omosessuali americane fatte in segreto dalla polizia americana all’inizio degli Anni ’60. L’operatore che sta celato dietro la porta di un bagno, per riprendere le azioni di sesso degli omosessuali di una cittadina degli stati del sud ha un tic: si lecca la lingua e osserva con molto interesse le azioni degli avventori.
Georges Banu, notevole studioso francese dello spettacolo, ma rumeno di origine, nel 2006 ha pubblicato un saggio che ha come titolo La scène surveillée. Il tutto parte da una visione del Britannicus di Racine, che gli permette improvvisamente di fare un cortocircuito con il tempo trascorso sotto l’osservazione della Securitate. Da quel momento egli individua in molti classici del repertorio, da Amleto a Tartufo una situazione di controllo. La storia del teatro diventa la vicenda di un potere che tiene tutti sotto sorveglianza, allestendo una recita dai colori sgargianti, in cui la condizione minoritaria di chi è osservato, per solito si perde nel fasto della messinscena.
Dal vivace mondo rumeno, giunge anche la voce straordinaria di Herta Müller, premio Nobel e voce del mondo di frontiera del Banato Svevo, minoranza linguistica tedesca tormentata dal dittatore di Bucarest. Nel romanzo Cristina e il suo doppio (2008), indaga in modo aguzzo sulla sua condizione di sorvegliata. Dopo la fine del regime, ha infatti potuto leggere i documenti che la riguardavano negli archivi dei servizi segreti, scoprendo che la creatura inventata da chi la spiava era una sua versione alternativa, simile eppure diversissima da lei. Nel suo dolente pamphlet Il re si inchina e uccide (2003), ella analizza come e quanto la lingua stessa sia sottoposta a un efferato controllo, come nemmeno le parole più “sicure”, perché presenti fino dalla prima infanzia, possano ormai offrire riparo dallo sguardo indagatore del potere. Lo stesso tema era al centro del notevole Infelicità senza desideri di Peter Handke (1971), epicedio per la madre morta suicida. In quel caso il motivo primo dello scollegamento dalla realtà, trasformato nel veleno della depressione, era il sequestro della lingua. Il tedesco delle poesie di Hölderlin, alfiere di libertà, era diventato strumento di propaganda di morte e di controllo del pensiero. Una ferita letale era stata inferta alla relazione tra il parlante e l’idioma, laddove la fiducia di secoli era per sempre venuta meno.
Nel perpetuo mirino della telecamera sorridiamo felici della sicurezza: “smile, you are on camera”, “in questo esercizio sono attive delle videocamere”. Siamo attori nel panopticon di Jeremy Bentham che tanto aveva suggestionato l’attenzione di Michel Foucault. Una struttura reclusoria, in cui tutti i prigionieri erano per sempre esposti allo sguardo spietato degli osservatori, senza poter sapere se questo accadeva o meno. Altrettanto siamo in scena tutti ogni giorno di fronte all’idolo CCTV: sempre disponibili a una cultura del controllo tormentoso e vigile.