Giacomo Serpotta / La ragione dello stucco

26 Luglio 2017

Lo stucco finge il marmo, è di minor costo, ma sempre di grande effetto, ha tradizione antichissima e si trova in tutto il mondo, per un motivo principale: tutti hanno bisogno di ornare le proprie dimore. I decoratori in Italia, con tutti i chilometri di chiese e di palazzi che nel barocco c’erano da riempire, certamente non avrebbero potuto fare opere solo con blocchi di marmo di Carrara, bianco abbagliante, come voleva la tradizione dei Gagini, o nemmeno nella linea degli squisiti intarsi mischi di tradizione siciliana. Nel Seicento la pratica era comune, se vi attendeva perfino il gran Bernini, e i maggiori scultori del suo tempo con lui. E poi, più specificamente, in Sicilia non c’erano abbastanza soldi per rifornirsi sempre alle cave di Michelangelo. Palermo, di stretta osservanza bianca, sulla scia della perduta Tribuna del Duomo, affamata di assoluto candore di neve scultorea, continuamente ricorreva allo stucco per le sue figurazioni allegoriche, sempre necessarie per tutte le chiese e gli innumeri oratori.

 

 

L’incontro nell’impasto è tra due materiali specialmente: la calce spenta (idrossido di calcio), che ha anche un nome più poetico al suo arco: latte di calce, a cui si mischia polvere di marmo. Per spegnere la materia, che per solito si concepisce nel suo stato «vivo», serve una procedura stregonesca, degna di una scena del Macbeth. Si butta acqua e il liquido rapidamente arriva ai cento gradi, ribollendo. Il volume aumenta, circa del 7- 8%, e la calce è idrata, finalmente. Altri lo chiamano grassello, oppure bianco o gesso di Firenze, o infine, e sembra una invenzione di un poeta simbolista, bianco di calce bianca, dove la tautologia trionfa nel perfetto candore. Anche se in realtà è una sostanza che si usa nei campi più diversi, dove la materia si sporca volentieri, tra chimica, petroli, ripulitura delle acque sporche dei serbatoi. Serpotta a questo procedimento diffuso aggiunge la sua specifica magheria, per fingere fantasime d’esistenza, corpi che sembrano vivi. Pare che il suo segreto nell’impasto fosse la caseina, mischiata con una percentuale misteriosa di gesso, una quadratura del cerchio con un altro materiale color del latte: ma a oggi non ci sono certezze. L’allustratura poi era un colpo da maestro, un brevetto di perfezione, che rendeva quei corpi duri, oggetti rotondi e seducenti di morbidezza. I suoi puttini cicciottelli sono sempre disponibili a qualsiasi giravolta, a ogni tipo di acrobazia. Bisogna lavorare la materia presto e bene, perché subito si rapprende e poi è durissima, non più maneggevole.

 

A quel punto Serpotta faceva agire la sua personale magia, l’allustratura, di cui i chimici hanno svelato i componenti, ma che mantiene i suoi misteri, come le vernici dei violini di Stradivari. Gli ingredienti erano sempre il grassello tuttofare, la cera e la polvere di marmo: e poi olio di gomito, come se piovesse, perché la levigatura era lunga, minuziosa, e si svolgeva per mezzo di panni di lino e spatole calde. Gli stucchi amano gli interni, non sono adatti al fuori, e detestano le infiltrazioni d’acqua, come in molti oratori si è drammaticamente visto.

 

Il fatto è che sui cantieri si sentiva sempre tossire. Lo stuccatore, prima dell’epoca delle mascherine, inalava polveri sottili che non gli si toglievano mai dal corpo: i colpi secchi di tosse, continui, erano la vera scansione del lavoro, la sua metrica segreta, che ha un nome scientifico, solenne: pneumoconiosi. Che poi è un termine collettivo, ma nasconde tante specifiche minuzie di dettaglio. L’antracosi è il «polmone nero», per via del carbon fossile che entra dentro l’apparato respiratorio e lo rende monumento inutilizzabile, pietra dei disastri che taglia il respiro.

 

Nel mondo dello stucco invece, come per la silicosi, tutto si fa bianco, come statua. Quella materia sembra debole, friabile all’attacco del tempo,ne invece che resistenza, quanta astuzia! Tutelati negli interni, gli stucchi se la cavano meglio di certi sontuosi marmi funebri, che prendono un colore giallo malsano, e sono poi smangiati via dal tempo, fino a sbriciolarsi.

I committenti degli edifici lo sapevano che si trattava di materiale resistente e potevano pensare anche a funzioni curiose per quella tecnica, tant’è che negli accordi per il perduto Oratorio di San Bartolomeo degli Incurabili, il contratto proposto a Serpotta dai committenti prevedeva che le sculture fossero davvero resistenti: «forti etiam a botti di cannone che si spariassero per il castello», ossia dal vicino Forte di Castellammare, e «in caso che cascassero li habbia di novo rifare». Non accadde, ma le cautele, evidentemente, non erano mai troppe.

 

da Bianco tenebra. Giacomo Serpotta, il giorno e la notte, Sellerio 2017.

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