Diario 4 / Camminare tra cose derelitte

8 Luglio 2020

Il 29 giugno a Roma è la festa dei patroni. È una festa che svuota Roma e le dona l’aspetto che manterrà per tutta l’estate: l’aspetto di una città abbagliante, lenta, spopolata, infiacchita dal caldo e dalla luce. È una festa che non è una festa, è più una condizione atmosferica da quadro impressionista: un pieno sole.

È nel pieno sole che Tommaso e io ci vediamo per una passeggiata sotto i muraglioni del Tevere, a contatto col fiume, tra ciclisti, pescatori e improvvisati set fotografici. Tommaso e io siamo amici. Ci vediamo tre volte l’anno. In questa città vedersi tre volte l’anno è già tanto. È la frequenza che consente di mantenere intatte le relazioni. In un’altra città non ci si considera amici di persone con cui ci si vede tre volte l’anno. In questa città invece, in questa città in cui si vive di acrobazie, vedersi tre volte l’anno è stare perfino al di sopra della media.

 

 

Mi considero amico di persone con cui mi vedo due volte l’anno. Oppure una volta l’anno. Ma mi considero amico anche di persone con cui mi vedo meno di una volta l’anno, ossia mi considero amico di persone con cui non mi vedo affatto. Non vedersi è forse la condizione ideale per rimanere amici delle persone, non si ha motivo di rovinare le amicizie. Del resto la questione del mantenersi amici in una città come Roma è quasi insolubile.

Tommaso e io non ci vedevamo da prima dell’isolamento. Ma nel nostro caso l’isolamento non è stato un ostacolo alla nostra amicizia, perché la frequenza annuale con cui ci vediamo non ne ha risentito. La nostra media è rimasta inalterata. L’ultima volta che ci eravamo visti era stato un po’ prima che cominciasse l’isolamento. E immagino che ci rivedremo per la terza volta entro l’autunno, e sarà l’ultima per quest’anno. Così la nostra amicizia sarà salva.

 

 

Da bambino Tommaso sognava di fare l’ornitologo. Ha un occhio eccezionale nel riconoscere gli uccelli. Mentre scendiamo le scale verso il fiume mi indica un airone cinerino. Provo sempre un po’ d’invidia per le persone che possiedono un’abilità nel riconoscere. Riconoscere specie animali, piante, funghi. Durante la nostra passeggiata alterniamo le chiacchiere con l’osservazione della fauna del fiume. Ma alterniamo le chiacchiere anche con l’elencazione dei nomi dei ponti sul Tevere, nomi che io non ricordo mai, e alterniamo le chiacchiere con la contemplazione dei resti di un barcone incendiato, e di due nutrie che amoreggiano, e di un enorme pesce morto che galleggia a pelo d’acqua. Camminiamo per due ore fra tutte queste cose derelitte.

 

Il direttore generale dell’organizzazione mondiale della sanità ha dichiarato che il peggio deve ancora arrivare. Dal che – se ne deduce – c’è stato un meglio, ossia un tempo che era il meglio. Poi questo meglio ha lasciato il posto a una scala discendente di valori, una scala che finirà per toccare il suo punto più basso: il peggio, appunto. Ma cos’è meglio e cos’è peggio nessuno lo può dire. Quale sarà il peggio lo si può dire meno di quale sia stato il meglio, per il semplice fatto che il peggio deve ancora accadere. E anche ammesso che accada, non si annuncerà come il peggio, poiché potrebbe esserci un peggio del peggio ancora di là da venire. Allora mi chiedo perché questi esercizi sul meglio e sul peggio. Alcuni si lamentano della prova pubblica di pessimismo del direttore generale dell’organizzazione mondiale della sanità. Ma io non credo che il direttore generale dell’organizzazione mondiale della sanità sia un pessimista. Anzi, credo che sia un impareggiabile ottimista. Lo credo perché per il vero pessimista l’universo vive un eterno crepuscolo, un tramonto che non ha mai avuto principio e che non avrà mai fine. E quindi per il vero pessimista non esiste né il concetto di meglio né quello di peggio. Esiste soltanto il perpetuo divenire. L’ottimista al contrario crede in questi due estremi assoluti e pretende sempre di avere la verità a portata di mano.

 

 

Ho approfittato di un appuntamento negli studi Mediaset del Palatino per passare un’ora a Villa Celimontana. Mentre percorrevo via di San Paolo della Croce, pochi metri prima della piazza in cui sorge la basilica dei Santi Giovanni e Paolo, ho adocchiato una scritta su un muro. Diceva: “Dio ti benedica cara Italia”. Le scritte sui muri hanno una voce. In genere è una voce rabbiosa, o irridente, o innamorata. È raro che una scritta sul muro abbia una voce benedicente. Sono entrato nel giardino della villa in cerca di una panchina all’ombra. Dall’alto incombeva un frastuono di cicale e uccellini, frotte di pappagalli tropicali strepitavano tra i rami. Un venditore di pubblicazioni religiose ha tentato di vendermi un libro sulla pace, ma io ho rifiutato la sua offerta di pace perché preferivo restarmene in guerra all’ombra dei cedri. Ma non sono riuscito comunque a godermi né la pace né la guerra, perché un ragazzo in calzoncini e maglietta ha iniziato a fare su e giù davanti a me, ripetendo a voce alta, compulsivamente, una lezione di diritto internazionale.

 

Da quando ho potato gli alberi sul confine del mio giardino vedo spesso la faccia del vicino. Prima non avevo mai incontrato il vicino. Il muro eretto dai cinque laurocerasi mi rendeva impossibile sapere chi fosse. A dire la verità non sono il tipo che si interessa ai vicini, tendo a dimenticare perfino di avere dei vicini. Adesso la nuova configurazione del mio giardino mi impedisce invece di dimenticare che ho un vicino. Col vicino abbiamo perfino scambiato qualche parola. Gli ho chiesto scusa perché un ramo appena potato era finito nel suo giardino, era finito dritto su un vaso, rompendo il vaso. Non si è mostrato particolarmente addolorato per la perdita del vaso, si è però mostrato interessato alla potatura dei laurocerasi, tanto da chiedermi se potevo fare un salto nel suo giardino per dare un’occhiata al muro di confine, non il confine che separa il suo giardino dal mio, bensì l’altro confine. Sull’altro confine possiede due o tre alberelli che stanno crescendo, a suo dire, in maniera preoccupante. Ma non sapeva che tipo di alberi fossero. Allora mi ha chiesto di dare un’occhiata. “La vedo sicuramente più esperto di me”, ha detto. Gli alberi erano laurocerasi, in tutto e per tutto uguali ai miei. Sono stato fortunato, così ho fatto la figura di chi la sa effettivamente lunga in fatto di piante. Gli ho consigliato di potare i laurocerasi prima che diventino alti come lo erano i miei, gli ho suggerito di potarli in modo da farne una siepe di confine simile a quella che ho realizzato io. A quel punto mi ha chiesto: “Quanto può costare un lavoro del genere?”. Ho risposto che non ne avevo idea. Al che ha fatto un’espressione sorpresa.

 

 

Mi ha lasciato intendere che credeva che fossi un giardiniere. A quel punto la nostra conversazione si è interrotta, senza che si risolvesse a chiedermi in realtà che mestiere facessi, ossia chi fossi, perché il mestiere in questo mondo determina sempre l’identità delle persone, e non si può essere qualcosa di diverso dal proprio mestiere, perché se per caso si è qualcosa di diverso dal proprio mestiere, gli altri individui ne resteranno disorientati. A lui interessava che fossi un giardiniere. Ma la scoperta repentina che in realtà non sono un giardiniere aveva risolto in un istante il problema della mia utilità. Non c’era altro in me che potesse suscitargli un qualche interesse. Avrei potuto essere un angelo, o un genio della lampada, e per lui non sarebbe stato abbastanza apprezzabile né degno di attenzione. Ai suoi occhi allora sono tornato a essere non una persona, ma il vuoto che inghiotte una persona. È incredibile il poco che siamo.

 

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