Una nuova traduzione / Gli addii di Juan Carlos Onetti

12 Dicembre 2021

Gli addii (Sur 2021, traduzione di Dario Puccini) è un libro dal quale non ci si separa mai, non lo si saluta, non lo si dimentica. L’effetto di questo romanzo agisce sul lettore in maniera opposta al titolo, quasi ossimorica,  e crea un legame che resiste ai distacchi raccontati da Onetti. Soprattutto genera uno stato di partecipazione alla trama (che poi vera trama non è) disponendo disorientamento e attrazione, sgomento, senso di perdita, chiarore, mille bagliori che si fanno fascio di luce, spiegandoci che le nostre vite potrebbero non esistere per quello che sono, ma potranno continuare a essere raccontate attraverso la letteratura, la cosa che ci riguarda secondo Onetti, la sola che sappia orientare il passato verso il futuro. Gli addii è stato pubblicato per la prima volta nel 1954, molto amato e controverso, discusso, è considerato da molti il capolavoro di Onetti; di sicuro, come ha più volte dichiarato, il suo preferito. Prima di proseguire però bisogna fare una riflessione sulla parola capolavoro rispetto a Onetti, perché la sua opera intera lo è. Come potremmo scegliere tra La vita breve e Il Cantiere (entrambi ripubblicati quest’anno sempre da Sur, per approfondire si vada qui Su Onetti), tra Il pozzo e Gli addii, fino a Per una tomba senza nome?

 

«Non posso dire se l’avevo vista prima o se la scoprii in quel momento, appoggiata allo stipite della porta: una parte della sottana, una scarpa, un lato della valigia che entravano nel fascio di luce delle lampade. Può darsi che io non l’abbia vista neppure allora, nel momento in cui cominciò l’anno, e che abbia solo immaginato, non ricordo, la sua presenza immobile situata con esattezza fra la baldoria e la notte».

Qual è il territorio in cui si muove la scrittura di Onetti? Potremmo dire si tratti di una sorta di zona di nessuno, di una macchia inesplorata (e inesplorabile per molti): un luogo senza tempo, in cui lo spazio si dilata e i protagonisti arrivano tutti da posti indefiniti, trascinando con loro strati di stanchezze, oblii accumulati, speranze scivolate fuori dalle tasche e cadute chissà dove. Ognuno ha perso qualcosa e la cosa ha spesso a che fare con la propria essenza, ciascuno è una conseguenza di un fatto che non ci è dato sapere. I loro volti, cappelli, cappotti, sono cumuli di polvere, di ricordi sognati, di relazioni interrotte, di segreti senza corpo, senza confessori. Ogni cosa assume il colore del perduto, dello smarrimento.

 

In quest’autunno esce un altro testo importante Teoria della prosa di Ricardo Piglia (Wojtek 2021, curatela di Federica Arnoldi e Alfredo Zucchi, traduzione di Loris Tassi). Si tratta di uno studio bellissimo e importante, grazie al quale Piglia svela molti dei meccanismi che muovono la grande letteratura sudamericana (e non solo). Piglia esplora i congegni che legano (e differenziano) il racconto dal romanzo breve – definita forma ambigua e nominata dal francese nouvelle –, lo fa attraverso una serie di lezioni in cui è attraversata e studiata anche l’opera di Onetti, che ha spesso seguito la forma della nouvelle. Piglia coglie un nesso tra narrazione e segreto e poi, proprio nella prima lezione afferma: «Quando si dice che una narrazione ha un segreto, spesso immaginiamo che questo segreto sia destinato a noi; questo è il caso di Gli addii, un testo in cui agisce un vuoto che l’autore conosce ma non rivela». Piglia che spiega Onetti è da applausi, ma ci tratteniamo e cerchiamo di comprendere almeno in parte.

 

Il vuoto, potremmo azzardare, è il non luogo, il paesaggio zero da cui ogni personaggio arriva, nasce, è stato immaginato. Piglia prosegue e, circa il rapporto tra scrittore e lettore, ipotizza la partecipazione del secondo, in questo modo: «[…] Non si tratta durante la lettura di interpretare ma di narrare ciò che manca. […] Onetti ha cifrato in Gli addii un segreto che non ha mai rivelato». Qui facciamo una pausa e stavolta applaudiamo, mentre prendiamo fiato. Respiro che ci era più volte mancato durante la lettura della nouvelle di Onetti, perché abbiamo colto l’invito nascosto, abbiamo seguito (all’indietro) il vuoto, e con il nostro immaginario abbiamo provato a narrare le mancanze, fallendo, ma il nostro fallimento è vicino a un certo tipo di miracolo, o di fortuna. Abbiamo partecipato alla storia, ne abbiamo seguito il dipanarsi procedendo per deduzione, sottrazione e, principalmente, facendo congetture, come fanno tutti gli attori presenti sul palcoscenico denominato Gli addii, fatta eccezione per l’uomo e le due donne, che sono il segreto, il centro del testo di Onetti, l’oggetto delle supposizioni e delle ipotesi.

 

 

«E loro se ne stavano muti a guardarsi, attraverso il tempo che non può essere misurato né separato, il tempo che sentiamo scorrere insieme con il nostro sangue. Erano immobili e tranquilli».

Un uomo che (a un certo punto si capirà) è stato un importante giocatore di basket si trasferisce in un piccolo posto senza nome. Lo scenario ci mostra delle montagne, un emporio da cui tutti passano, nel quale si riceve la posta. Nel piccolo posto ci si va per curarsi, ci arriva gente con non molte speranze, gente silenziosa che si muove tra l’albergo e il sanatorio. Gli autobus arrivano a orari stabiliti, i discorsi sono frammenti di altri discorsi che paiono avere avuto origine in altri tempi, quasi in altre lingue. Sono suggestioni, sono pensieri cui ci porta la penna di Onetti. Dell’uomo non conosciamo il nome e non lo conosceremo fino alla fine, così come non conosceremo mai il nome delle due donne che a un certo punto verranno, poi andranno e poi di nuovo torneranno.

 

Le due hanno con l’uomo un legame sentimentale, e vasto è il campo del ricordo, e vasto è il perimetro del sentimento. Il narratore del romanzo, anche lui senza nome, è il proprietario dell’emporio, colui che tutto pare intuire: che coglie da un movimento, da uno sguardo, da una mezza parola, gli stati d’animo, le sensazioni dei personaggi. Il narratore osserva e ipotizza il tempo passato, butta lo sguardo sul tempo a venire. Chi ha nome sono i medici, l’infermiere, l’aiutante all’emporio, chi lavora all’albergo: i personaggi minori (ma fondamentali). Sono i latori dei frammenti, i descrittori delle scene fuori campo, sono – come noi lettori – coloro che si producono in supposizioni. Personaggi di carta ma di una certa importanza sono due tipi di lettere indirizzate all’uomo, due diverse grafie, che giungono puntuali all’emporio.

«[…] scoprendo – con un timido entusiasmo che non avrebbe mai dovuto accettare – che niente dura né si ripete».

 

Davanti all’emporio tutti arrivano e tutti partono, tutti potrebbero non esistere. Il libro è introdotto da una bella nota di Chiara Valerio che coglie appieno il disegno suggestivo di Onetti. Valerio ricorda che i romanzi sono un come e non un cosa, ed è il motivo per cui si scrivono e si leggono. E il come di Onetti è un incanto, è un inganno, come detto. «Pare che Onetti dica, in ognuna di queste pagine, che si rinuncia alla verità per la vita e che solo così si vive. Nell’incertezza di chi siano gli altri». Valerio crede a Onetti, e a lui crediamo anche noi, tenendoci stretto quel verso di Anna Maria Carpi: «Mai il vero mi ha interessato».

Perfino il narratore non può che supporre, anche lui è costretto da Onetti a origliare, a rielaborare, a dilatare il tempo, a costruirne un altro in cui tutte le eventualità si possano tenere. Il proprietario mentre registra quel che accade immagina, mentre sta per giudicare, aggiunge qualcosa che gli consentirà di capire qualcosa di più dell’uomo, di confortare ora una donna ora l’altra. E i tre personaggi nitidissimi che vediamo nelle loro esitazioni, nei gesti appena accennati, negli abiti, gli occhiali, una valigia appoggiata in un modo, una luce che cade su una scarpa; che vediamo ogni volta di più nei tre diversi gradi di disperazione che li riflettono negli occhi degli altri, che li asciugano, fino ad assorbirli del tutto.

 

«Forse non aveva scelto un ricordo ma una colpa, vergognosa, pubblica, sopportabile, un danno di cui si riteneva responsabile, che ormai non danneggiava più nessuno, e che lui poteva rivivere, attribuirsi, esagerare fino a trasformarlo in catastrofe, fino a renderlo capace di sovrastare ogni altro rimorso».

Juan Carlos Onetti è uno scrittore senza eguali, lo sa Piglia, lo sa chiunque lo legga, che ne resta ipnotizzato. Impressiona, in ogni suo libro, il ritmo delle frasi, l’affermazione e la negazione continua di ogni evento, il modo in cui i corpi suonano sulla scena, le parole si elevano lasciando a terra più significati, nessuna risposta. La faccenda misteriosa di ciò che sia letterario o no sembra chiarirsi tra le sue pagine. Più i protagonisti si fanno vapore, fino a diventare l’immagine – perché no – salvifica della perdita, più la letteratura si compie. Torna il vuoto cui accenna Piglia ed è origine e sipario, è una sorta di amore in varie forme, e l’illusione, l’impossibilità della sopravvivenza, il segreto – per fortuna – non rivelato.

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