I cavalli e il dolore di Gerald Murnane

23 Gennaio 2024

«Come me era un ballerino senza speranza e la compagnia femminile lo metteva a disagio. Spesso, per lui, le corse dei cavalli erano quello che a volte sono state per me: una specie di vocazione più alta, che ci esentava dal doverci occupare delle cose terrene».

Lo scrittore Juan Carlos Onetti, in apertura del suo primo romanzo, Il pozzo (Sur, traduzione di Ilide Carmignani) scrive: ««Poco fa stavo camminando per la stanza e di colpo mi è venuto in mente che la vedevo per la prima volta». Si tratta di una frase che gira molto tra gli amanti di Onetti. Il protagonista di quel romanzo, intorno ai quarant’anni, decide di scrivere le proprie memorie, non ha mai scritto fino a quel punto, e vede la stanza in cui vive per la prima volta nell’istante stesso in cui decide di raccontare. Onetti offre così, quasi senza farsi notare, la sua prima grande lezione di scrittura, ovvero che nessuna cosa esiste fino a che non viene scritta e allargando il campo: nessuna storia è accaduta fino a che qualcuno non venga a raccontarcela. Il protagonista di Onetti pensa che debba fissare su carta i fatti che gli sono occorsi fino a quel punto, specie quelli che ritiene interessanti, ed è allora che vede la stanza, scorge gli arredi e – senza muoversi – vede tutto quello che sta oltre la finestra: la strada, la città, la gente, il mondo. La memoria mi riporta il passaggio e l’idea di Onetti ogni volta che mi metto a leggere un libro di Gerald Murnane, forse il maggiore scrittore australiano vivente, molto conosciuto e anche molto sconosciuto. Murnane è nato nel 1939, è quasi ogni anno candidato autorevole al Premio Nobel, ma è ancora poco noto ai lettori italiani e non solo a loro. La nostra fortuna è che un piccolo editore attento, Safarà, da qualche anno ha cominciato a tradurlo, pubblicando fino a oggi quattro suoi libri, l’ultimo Qualcosa per il dolore (traduzione di Roberto Serrai, che ha tradotto anche tutti gli altri), uscito nei primi giorni del 2024. 

«Gli altri giorni, se non fossi andato a giocare a Riversdale o al Commonealth Golf club, sarei rimasto nel mio studio al piano di sopra, con vista su Dandenong Road, ascoltando una sinfonia di Sibelius come sottofondo mentre cerco di scrivere una poesia alla maniera di Thomas Hardy».

Perché l’uomo che nota la sua stanza per la prima volta mi ricorda Murnane? Perché lo scrittore di Melbourne vive da sempre nel Victoria occidentale, non ha mai preso un aereo, e praticamente quasi mai si è mosso dal suo territorio. Il Victoria è la sua stanza, eppure da quella stanza, da quella porzione di terra così distante, aperta e affascinante, ha saputo raccontare storie che ci riguardano, seppure con i suoi protagonisti non abbiamo nulla a che fare, seppure all’Australia non ci siamo mai avvicinati. Murnane quando scrive è toccato dalla grazia e riesce a trascinare chi legge in una sorta d’ipnosi, come se si avanzasse dentro a una nebbia fitta ma senza paura, una nebbia che ogni tanto si dirada e ci mostra il necessario, ciò che serve, e quando accade siamo preparati – per via della nebbia – ma non del tutto, perché frase dopo frase scivoliamo nella meraviglia.

Il primo romanzo di Murnane che ho letto, qualche anno fa, è considerato il suo capolavoro Le pianure; a un certo punto si leggeva: «Seduto in mezzo a quegli uomini al crepuscolo, capisco che il loro silenzio afferma che il mondo è un’altra cosa rispetto a un paesaggio», ed è il mondo lontano e quanto più vicino a noi che ci viene mostrato. Se pensiamo alla pianura pensiamo a qualcosa che abbiamo soltanto immaginato. La vera pianura non esiste, sta soltanto nel cuore delle persone, è di certo uno stato mentale, ma è molto di più: quando l’occhio può andare libero per molti chilometri non può far altro che costruire immagine dopo immagine, silenzio dopo silenzio, un nuovo paesaggio fatto di possibilità, dove il visibile e l’invisibile si sovrappongono, e ci smarriscono e ci confortano. Chi ha vissuto nelle terre basse conosce bene questo miscuglio sentimentale, chi non ci ha vissuto, leggendo Murnane, lo fa suo, lo capisce, lo sente. Grazie alla capacità dell’autore di alternare un linguaggio tecnico a quello poetico, e farlo nel giro di una frase. Per Le pianure si è parlato di poema in prosa, in realtà è un romanzo che suona come le migliori poesie, in cui ci sono uomini che parlano poco e le immense pianure sullo sfondo, in cui pare non accadere nulla e invece succede quasi tutto. Una volta letto quel primo romanzo tradotto da Safarà non restava che aspettare gli altri e non siamo rimasti delusi.

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«L’ippica mi fornisce un sistema di valori e uno stile di vita. Le corse dei cavalli, poi, come molte religioni hanno i loro santi, Essi sono, almeno per me, figure leggendarie piuttosto che storiche, Le leggende che riguardano questi santi sono tutte inventate da me. Difficilmente potrebbe essere diverso, visto che la mia è in gran parte una religione individuale, dove sono io il vescovo, il sacerdote, la congregazione e, in questo caso, l’agiografo».

Qualcosa per il dolore ripete l’incanto anche se per altre strade, altre piste. Si tratta di un memoir diviso in piccoli racconti, ventisette per l’esattezza, in cui Murnane ripercorre la sua vita attraverso la sua grande passione / ossessione, l’ippica. I cavalli, le corse, gli ippodromi, le scommesse, i traguardi, la polvere. La vita. Come ha scritto Ben Lerner, uno dei maggiori estimatori di Murnane, non è necessario essere appassionati alle corse dei cavalli perché ciò che conta è la qualità della mente ossessionata. E, aggiungiamo, la qualità con cui scioglie su pagine scritte la sua ossessione.

Murnane scrive della sua vita, da quando era ragazzino e da suo padre riceve (come un dono?) la passione per le corse dei cavalli. Capitolo dopo capitolo leggiamo di questo amore costruito con metodo, un’ossessione che asseconda più la pacatezza che lo slancio. Grazie alla prosa di Murnane noi sentiamo le vecchie piste degli anni Quaranta, Cinquanta, Sessanta, ne sentiamo l’odore, ne vediamo gli spalti rudimentali, scorgiamo ogni colore, percepiamo il rumore di ogni zoccolo, di ogni minimo suono che un cavallo procedendo nella corsa ha fatto. Ma lo seguiamo, di conseguenza, nei fatti più intimi della sua vita: le conoscenze, le amicizie, gli amori, la famiglia. E ancora, nel suono di diverse pagine, suono che fanno solo certe poesie, lo accompagniamo nei dolori, nelle debolezze. Murnane si dice ossessionato dai cavalli, di essere un alcolista controllato, uno che impara a bere con metodo, solo in certe ore, con la birra che si fabbrica da solo. In tutto segue una routine, come se l’amore centellinato un poco alla volta durasse di più (come cantava Gino Paoli in una bella canzone), e questo vale per l’amicizia, per le consuetudini lavorative, le scelte di vita, le piccole rinunce. Dove molti vedrebbero vizi, Murnane vede il mistico, qualcosa di prossimo alla religione, e il cavallo e i suoi effetti sull’uomo sono la cosa più vicina a Dio.

La grandezza letteraria di questo memoir sta, tra le altre cose, nel non esserlo del tutto. Perché tutte le corse di cavalli raccontate da Murnane sono avvenute davvero e sono inventate. Le radiocronache, le riunioni ippiche, le descrizioni degli allibratori, sembrano uscire da un grande romanzo, accade questo con le grandi opere letterarie. Per tutti i suoi 85 anni, Gerald Murnane, ha avuto un’accelerata di zoccoli dentro la testa e questo ha contribuito alla sua grammatica, alla tessitura della sua opera letteraria, che fa tutto muovendo dal niente.

«A volte, dopo che avevo bevuto parecchio, affermavo che l’ippica aveva da insegnarci tanto quanto Shakespeare […]»

Del resto, ci aveva insegnato che la fantasia può tutto, con Clement, il protagonista di Tamarisk Row (il suo primo romanzo), un ragazzino che si costruiva in giardino un ippodromo immaginario, perfetto, in cui pomeriggio dopo pomeriggio inventava un minuscolo regno dell’ippica, che lo portava altrove, facendolo sognare e, in qualche modo, crescere. In quelle pagine già leggevamo: «il minimo spostamento in avanti o indietro dei colori che si notano di meno è solo il risultato di un lieve tremore di uno dei lunghi e delicati fili che collegano ogni uomo e ogni sagrato e ogni ippodromo a Dio». Quel ragazzino che imparava come si crea un immaginario, ci insegnava come entrare nel magico universo di Murnane.

Così come scommette sui cavalli, in Qualcosa per il dolore, Murnane scommette sul suo talento, sulla lingua, sulla forza della parola e, ancora una volta, sull’ondeggiare della pianura, sui colori che mutano, su quello che si vede oltre gli occhi. Leggendolo, diventiamo vaghi, ovvero persone capaci di vaghezza, in grado di scrutare e – c’è poco da fare – nell’ultima curva che fonde la pianura con la pista noi vediamo un cavallo che corre ma ci pare che adesso, in questo istante, danzi.

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