Maradona. In campo la vita sparisce
«Richiude gli occhi, ricade nel nero del vuoto senza fondo. Da lì rivede e rivive la sua vita».
Lo scrittore francese Olivier Guez, un paio d’anni fa ha pubblicato un piccolo libro, dal titolo Nel paese dell’aquilone cosmico (Neri Pozza, 2021, trad. Margherita Botto), chi segue minimamente il calcio non può non sapere chi sia l’aquilone cosmico e quando sia nata quella definizione. Il calciatore è Diego Armando Maradona, il paese è l’Argentina, il luogo in cui scavare, omaggiare, cercare è Buenos Aires. La definizione nasce dalla voce del telecronista uruguaiano Victor Hugo Morales durante la telecronaca del celeberrimo quarto di finale dei Mondiali di calcio del 1986, vinto dall’Argentina per 2-1 contro l’Inghilterra. La partita del gol di mano, burla, schiaffo e sberleffo alla Thatcher per la storia delle Falkland, «Li ha voluti umiliare» recita il grande Renato Carpentieri, a tal proposito in È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, ed è così. Poco dopo però li ha elevati segnando loro il gol più bello della storia del calcio, gli inglesi non lo ammetteranno mai ma, con il senno di poi, per loro è stato meglio essere stati sconfitti da un capolavoro, tanto sconfitti lo sarebbero stati comunque. La telecronaca, una sorta di rosario che eleva il gioco del calcio al racconto mistico, a un certo punto recita: barillete cósmico de qué planeta viniste? Aquilone cosmico da quale pianeta sei venuto? Una meraviglia che mette i brividi ancora adesso. La definizione forse più riuscita per definire la grandezza di Diego Armando Maradona, che è stato un indimenticabile extraterrestre, uno che faceva cose che nessuno mai più è riuscito a fare. No, nemmeno Messi. Questa frase, che ogni tanto sento risuonare nella testa come una specie di mantra, mi è tornata in mente appena ho cominciato a leggere il romanzo In campo la vita sparisce di Loris Caruso (Castelvecchi, 2022), un libro intenso, decisamente riuscito, che va dal giovanissimo Maradona a Villa Fiorito all’ultimo quello che resta da solo con i suoi demoni, quello in cui – ancora e più di una volta – stringe gli occhi e si mostra come il più umano di tutti gli dei, così come intitola l’ultimo capitolo Caruso.
«Andiamo a Napoli a giocarci la vita. Ricominciamo tutto da capo».
Facciamo un passo indietro, chi scrive questo articolo se crede in un Dio crede proprio nell’aquilone cosmico, ha creduto e nemmeno sempre soltanto in Maradona. Un essere umano, un extraterrestre verso il quale mi sento di usare la parola fede. Infatti, non è strano che nel giorno della sua morte mi siano arrivati messaggi di condoglianze in misura maggiore di quelli ricevuti per mio padre, non mi sono stupito, ho solo pianto commosso, non si sarebbe stupito nemmeno papà e non si sarebbe offeso. Questo sentimento religioso verso Maradona non riguarda solo me ma un sacco di gente sparsa per il pianeta. Siamo pazzi? Non credo. Siamo appassionati del gioco del calcio, e abbiamo avuto la fortuna di aver visto giocare da vicino il più forte calciatore mai esistito. In più, lo abbiamo capito, non subito, non immediatamente, quando aveva già smesso, quando era già lontano. Lo abbiamo capito però, ci siamo riconosciuti nelle sue debolezze, ci siamo commossi, quando abbiamo visto l’aquilone cosmico un po’ rabberciato come in un giorno di fine estate, abbandonato sulla sabbia, con i bambini tenuti per mano dai genitori che gli davano la schiena perché era tempo di andare.
«Il giorno della partita la pioggia è torrenziale e continua. Il prato è pieno d’acqua, sembra di giocare nel diluvio. È a casa: è come un campo di Fiorito. Dal primo minuto è incontenibile, giocate continue, serpentine, veroniche, cross di tacco, assist. Segna il primo gol: eliminando diversi difensori arriva davanti a Fillol […] dribbla anche lui, può tirare ma preferisce rientrare e dribblare un altro difensore ed entra in porta col pallone. Il pubblico è muto, poi entrambe le tifoserie esplodono in un applauso lunghissimo. […] Da quel giorno Diego non è più un semplice idolo del Boca, diventa il suo mito».
Loris Caruso è un sociologo, perciò conosce bene gli aspetti delle relazioni umane, dei rapporti tra società e individuo, tra fatti sociali e personali, ed è anche un narratore molto bravo. Si è preso un rischio quando ha deciso di scrivere di Maradona, il calciatore più raccontato di tutti, un personaggio sul quale esiste una letteratura vastissima che parte da Eduardo Galeano e che non si esaurisce mai. Caruso sceglie di scrivere non l’ennesima biografia o saggio su Maradona, ma di scrivere un romanzo perché è l’unica forma scritta che forse può arrivare a cogliere una verità che esca dalla cronaca, dal campo, dalla vittoria, dal fallimento. Per farlo parte naturalmente da fatti reali, il grosso del libro si basa su ciò che è accaduto, ma poi ci sono le sfumature, cioè cosa è stato e dove è stato Diego quando non era sul campo. Il posto in cui la vita spariva, ovvero dove si cancellavano le difficoltà e le debolezze, perché a detta dei compagni di squadra, di chiunque, quando Maradona metteva piede sul terreno di gioco, che fosse pure quello d’allenamento di Soccavo si trasformava. Diventava una creatura fatta di luce, leggera, solare, felice.
C’è un mondo fuori dal campo dominato dalle debolezze del campione e c’è il campo dove tutti lo abbiamo riconosciuto come Dio. Le sfumature, le pieghe, le terre di nessuno, qui si insinuano le pagine di Caruso che tentano di raccontarci il Diego totale, quello col pallone attaccato al piede, quello che finge di andare a sinistra e poi scarta sulla destra, quello che non trova nemmeno le scarpe e una faccia da indossare per uscire di casa, quello perduto e quello che ci ha aiutato a inquadrare i nostri sogni. Caruso per farci sentire la voce di Diego e per mostrarci tutto il tempo che ha attraversato aggiunge ai personaggi reali altri inventati, così come i fatti veri vengono supportati da situazioni aggiunte che assolvono al compito del narratore caro a Rodrigo Fresán quando scrive: «La parte inventata che non è, mai, la parte disonesta, anzi è la parte che trasforma davvero qualcosa che è semplicemente accaduto in qualcosa così come doveva accadere», non lo è, nel caso di questo libro è proprio la parte che serve per mostrarci i fatti sotto una luce nuova, aggiungere uno sguardo ai milioni di sguardi, diventare ancora una volta ciascuno di noi il piede di Maradona, il difensore dell’Inghilterra saltato, un portiere battuto, uno spacciatore di terz’ordine, un funzionario della Fifa corrotto, un tifoso impazzito di gioia e poi commosso dalla perdita.
«In quel cielo, in volo Diego scompare».
Il libro si divide in quattro parti: Principe, Re, Dio, Demone, intervallate (e introdotte) da quattro prologhi, è scritto in una lingua vivace che pare muoversi come si muoveva Diego: pronto a scartare di lato, a fermarsi, a immaginare un nuovo spazio dove gli altri non vedevano nulla. Ci sono moltissimi dialoghi, attraverso i quali pare di sentire, ogni tanto, il suono della voce di Maradona. Ci sono molte storie, fatti, momenti dolorosi, risposte terrorizzate a domande imbarazzanti, e poi ci sono i gol, le vittorie, le pesanti sconfitte. L’onestà di Maradona, che Caruso ben racconta, gli ha sempre consentito di non sfuggire alle sue colpe, la sua intelligenza ha fatto sì che sapesse dall’inizio e fino in fondo che ciò che è andato storto non è stato soltanto colpa sua. Ho sbagliato, dice Diego, nel giorno dell’addio al calcio e aggiunge – frase che ancora mette i brividi – «La pelota no se mancha». La palla non si sporca, Diego ha sempre salvato il pallone, il gioco, i ragazzi che lo guardavano giocare. Caruso ce lo ricorda, e ci ricorda perché è impossibile dimenticarlo, basta girare per Napoli in queste settimane in cui la città si prepara alla probabile vittoria del terzo scudetto, due murales su tre riguardano Diego, ed è molto difficile trovare una bandiera senza il suo volto raffigurato. È normale, è incredibile, è giusto così. Maradona pensava sempre al futuro quando giocava ed è qua in tutti i nostri futuri.