Giorgio Falco, il peso del corpo
«[…] si sente allontanare dal corpo, condotto ai margini della lentezza dove, un attimo prima di morire, ci si guarda morire».
Il corpo, il discorso del corpo. La presenza del corpo nel tempo, nel luogo, nello spazio. Come siamo, come siamo dentro il nostro corpo, come ci percepiamo, come ci percepiscono gli altri. La propriocezione, ovvero la capacità di riconoscere (o almeno di tentare di riconoscere) la posizione del proprio corpo nello spazio e lo stato di contrazione dei propri muscoli senza il supporto della vista, secondo gli studi di Charles Scott Sherrington. Altrettanto bella la definizione che ne dà la Treccani: «Insieme delle funzioni deputate al controllo della posizione e del movimento del corpo, sulla base delle informazioni rilevate da recettori periferici denominati propriocettori. Tali informazioni sono elaborate all’interno di riflessi spinali volti al mantenimento della corretta postura e a contrastare la forza di gravità»; cosa succede se del nostro corpo percepiamo (propriocepiamo) il peso, la mole, l’ingombro, non solo senza il supporto della vista, ma anche con l’inconscio, anche mentre dormiamo?
Il corpo, che ci piaccia o meno, comunica in prima battuta chi siamo, e la comunicazione è falsa, e la comunicazione può essere vera. E questa comunicazione riguarda soprattutto noi stessi, e ha a che fare, con l’esterno, massa grassa, muscoli, rughe, occhi, bocca e tiene a sé anche una grossa quota sentimentale, spartita con il sangue che riguarda entrambe le cose. Si tratta di un discorso complesso e molto attuale, discorso che regola il nostro rapporto con gli altri, lo sovrappone. Spesso gli altri ci vedono per quello che siamo, molto spesso per quello che non siamo, sovente ci vedono per come ci vediamo o percepiamo noi, sempre ci vedono per quello che vogliono vedere.
Molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni (o comunque negli ultimi decenni è più evidente) il corpo è diventato soprattutto punto d’osservazione: è con il corpo che osserviamo e interagiamo con gli altri, ed è con il nostro corpo che gli altri ci percepiscono, nel bene e, principalmente, nel male. Per via del nostro corpo appariamo belli o brutti, forti o deboli, grassi o magri. Il nostro corpo può diventare una prigione, è l’evidenza di una nostra disabilità, di un disagio. Il corpo è il medium sociale, attraverso il corpo possiamo controllare gli altri, gli altri possono controllarci, in qualche caso dominarci.
«L’esistenza interiore si forma, all’inizio, in uno stato di disinteresse nel quale tutto è unito, e i giorni sono senza albe e tramonti, e questo è il tempo».
Queste considerazioni nascono dopo la lettura del nuovo e bellissimo romanzo di Giorgio Falco, Il paradosso della sopravvivenza (Einaudi, 2023), un libro delicato e duro, opprimente e liberatorio, cattivo e romantico. Un romanzo che nasce dalla capacità di Giorgio Falco (evidente in ogni libro che ha scritto) di osservare la realtà e le cose per quello che sono, per come appaiono, per come avrebbero potuto essere. Di andare a fondo alle cose.
«Coraggio, qualcosa accadrà, dietro i vetri delle case dei vivi».
Il protagonista di questa storia si chiama Federico e nel paesino di montagna è per tutti «il ciccione». Federico è obeso, pesa più di centocinquanta chili, peso superiore che non conosce perché la bilancia del medico che lo segue da piccolo non va oltre quella soglia. Sarà proprio quel medico a spiegargli il paradosso della sopravvivenza. Secondo il quale «gli obesi, con scompensi cardiaci o dopo un evento cardiovascolare, hanno un tasso di mortalità inferiore rispetto ai pazienti magri. […] Secondo questa teoria ciò che ci uccide ci protegge, almeno in una prima fase, per eternizzare non certo la vita, quanto la sopravvivenza, come se sopravvivenza e vita fossero scisse».
Federico è figlio unico di una famiglia normale. Il padre funzionario pubblico, la mamma casalinga. Famiglia con cui Federico ha sempre avuto un rapporto affettuoso ma distante, di rispetto ma solitario. I tre pare stiano sempre da soli, la madre con i suoi pensieri, Fede con il cibo e i desideri, il padre nella routine e nel silenzio. Non c’è conflitto apparente ma nemmeno complicità. Fede ha un rapporto affettivo più evidente con la zia che vive nella casa di fronte, la zia che a un certo punto diventerà strumento di salvezza, o almeno per tentare di raggiungerla. Il corpo di Fede è ingombrante, esagerato; il ragazzo è deriso a scuola, compatito in famiglia, come la cosa che sta lì. I bambini hanno i giochi, Fede ha gli spuntini e le merendine. Ma anche Fede desidera, anche Fede spera, anche Fede sogna. Negli anni dell’adolescenza, Fede incontrerà Giulia, magrissima, ai suoi occhi bellissima, sulla soglia dell’anoressia. Fede mangia, Giulia quasi per niente. Fede desidera Giulia, Giulia desidera dominare Fede.
La ragazza comincerà a usare il suo corpo in rapporto alla fame e al desiderio che ha il ragazzo per lei, e a usare il corpo e lo sguardo di Fede. Un gioco di potere, un vero e proprio dominio. Da questa situazione che potremmo definire umiliante – solo che Fede non la vede così, si tratta in fondo di uno scambio – il ragazzo troverà la forza, lo slancio per staccarsi dal luogo, da Giulia, dalla vita così come è stata. Proverà, cioè, a tentare la vita, ad agguantarla altrove. E l’altrove sarà Milano, un luogo diverso, grande, in cui la disabilità fa il conto con l’indifferenza. Falco, tra le altre cose, racconta come l’indifferenza pesi quanto il dominio che esercita Giulia in un dato periodo su Fede. L’indifferenza è un altro tipo di controllo.
La difficoltà di avere relazioni e gestirle, di trovare un lavoro decente, di stare nel tempo e nello spazio, tutto esercita una presa, una sorta di potere sulla fragilità di Fede. Fede mangia perché non ha le cose che gli altri possono avere, come il sesso, come l’amore. Fede non ha le cose che gli altri possono avere perché mangia a dismisura. Fede è la vittima ed è il carnefice, è l’assassino e il martire, ed è per questo che è sempre calmo, tranquillo, perché tutto sta dentro, i centocinquanta chili coprono tutto, perfino il dolore, perfino la malinconia.
«Cosa sarebbe l’anima senza il corpo? Il tuo corpo enorme non è osceno, ma al contrario, nella sua estrema evidenza, è morale».
Ogni giorno occupiamo uno spazio nel luogo e davanti agli occhi degli altri, ma non lo sappiamo, non ci facciamo caso. Falco è di questo che scrive, e poi scrive del potere che lo sguardo di chi osserva, di chi a che fare con noi, condizioni irrimediabilmente le nostre scelte. Il corpo è un linguaggio, ed è con la lingua che Giorgio Falco da sempre spinge all’attenzione, alla riflessione, non dimenticando mai di essere un romanziere e perciò che sta raccontando una storia, e nella storia empatia e sgomento e amore e dolore e indifferenza e cura vanno insieme.
Il paradosso della sopravvivenza è certamente la storia di un corpo immenso in un mondo che ingombra, che tende a decidere per noi, a scegliergli la vita, a collocarci. Il mondo non abbraccia Fede e non abbraccia chi ha un problema. Il modo ti vede, non gli piaci, ti scavalca passa oltre ed è doloroso. Nelle pagine leggiamo di quel dolore e leggiamo di un ragazzo che fa quello che può e stanco si accomoda in una poltrona troppo piccola, sempre troppo piccola per lui. Il paradosso della sopravvivenza è un romanzo bellissimo, che mostra il nostro tempo con la profondità di un saggio, ma con la forza e la bellezza con cui solo la narrativa può esplorare il reale.