Ron Rash, La terra d’ombra
«Quella valle non sarà mai abbastanza sepolta per me, disse un uomo più anziano di nome Parton, e quelli con cui condivideva la panchina davanti al negozio gli diedero ragione con un movimento del capo».
Una valle in cui la luce fa fatica a entrare, dove tutto si gioca sulla solitudine e sul resistere a un tipo di esistenza indotta dalle circostanze. La conformazione del territorio e il modo di pensare della maggior parte della gente, due cose che messe insieme possono far danni parecchio grossi, specie se ci troviamo in alcune zone rurali degli Stati Uniti d’America, se gli anni sono quelli degli inizi del Novecento, con il secolo precedente ancora poco distante. Qui, siamo negli Appalachi, in questo luogo angusto – ma non per questo meno bello di altri – nessuno vuole abitarci: leggenda, tradizione, pettegolezzo, superficialità, ignoranza e, perché no, cattiveria, vogliono la valle, la terra d’ombra, un posto misterioso e pericoloso, abitato da creature soprannaturali.
Qui vivono Laurel, una giovane donna che tutti credono una strega e suo fratello Hank, appena tornato dalla Francia, reduce di guerra, senza una mano. Sono queste le premesse da cui parte il romanzo di Ron Rash, La terra d’ombra, tradotto magistralmente da Tommaso Pincio per La nuova frontiera. Rash è uno scrittore di narrativa strepitoso e anche un bravissimo poeta, abbiamo imparato a conoscerlo e amarlo l’anno scorso quando, sempre grazie all’accoppiata Nuova frontiera e Pincio, era arrivato ai lettori italiani Un piede in paradiso (di cui avevamo scritto qui: Rash/Paradiso). Ce ne siamo innamorati per via della scrittura dal sapore faulkneriano, per il perfetto mescolamento tra terra, lingua, silenzi e destino. Attendevamo curiosi un suo nuovo libro e non siamo rimasti delusi.
«Laurel prese un pizzico di pasta tra l’indice e il pollice e ci coprì la prima puntura, ne trovò altre sette prima di arrivare a mani e polsi. Sbottonò la parte superiore della maglia per medicare stomaco e torace, infine si occupò del collo e della faccia».
Gli Appalachi attraversano un territorio molto vasto, che si spinge dall’Alabama al Canada. Territorio selvaggio, misterioso, fatto di gente brusca, fatto di meravigliose storie che abbiamo avuto la fortuna di leggere (basti ricordare come esempio Chris Offutt, di cui pure ci siamo occupati qualche volta tra queste pagine). La prosa di Rash è figlia di queste terre, di questa natura si nutre e di queste donne e uomini racconta.
Qui l’essere umano non può essere separato dal paesaggio, sono più legati che altrove in una sorta di dipendenza binaria, che ha origini che si perdono fino ai pellerossa (o ancora più indietro) e conseguenze che mutano di ora in ora. La valle si trova nella Carolina del Nord – Rash vive nella Carolina del Sud, e queste sono le zone in cui prendono corpo le sue storie –, qui costruire un pozzo, tirare una recinzione di filo spinato, raccogliere fagiolini non è mai compiere soltanto un gesto ma è soprattutto comunicare con l’ambiente circostante e tra i protagonisti.
«Si guardò attorno per capire come potesse apparire la stanza agli occhi dello sconosciuto. Non c’era molto da notare, niente quadri o calendari alle pareti, niente radio o carillon. Forse l’orologio Franklin con le lancette fisse sulle dieci e le due come due ali acquietate o la lampada a olio anch’essa sulla mensola del camino o la stufa a legna con il nome della marca, raven, scritto in rilievo sullo sportello di ferro».
Laurel è considerata una strega – una donna da tenere lontano e da irridere (che è un modo antico per l’ignorante di combattere la paura) – soltanto perché sulla sua pelle c’è una macchia viola, e allora chissà che presagio, quale segno di sventura incombente. Hank è un bravo ragazzo, benvoluto, è comunque un reduce di guerra, uno che ha combattuto per il paese: certo, è il fratello della strega e con lei vive in quel posto che è soltanto foriero di sventure. I due si vogliono molto bene e, nonostante la diffidenza degli abitanti della città, sono apparentemente sereni. Hank presto si sposerà; inizialmente non lo dice a Laurel per imbarazzo, perché sente (o sa) che a lei non potrà accadere. Un giorno capita un fatto: Laurel sente una bellissima musica uscire dal bosco, la suona con il flauto un uomo che è ridotto abbastanza male.
Ore dopo lo ritroverà quasi moribondo dopo essere stato punto da vespe, perciò col corpo pieno di veleno. L’uomo si chiama Walter, è muto, non sa leggere, non sa scrivere. Laurel lo porta a casa – convince Hank che non c’è nessun pericolo – e si fa aiutare. Walter si riprenderà e comincerà a lavorare con Hank, i due vanno d’accordo; Laurel e Walter si piacciono, si innamorano; Hank vede una prospettiva gioiosa anche per la sorella, un tempo a venire più giusto. La strega, il reduce senza mano, il muto, un trio che si fa forza e nella valle scura viene raggiunto da una luce che per alcuni momenti sembra essere la felicità.
Il lettore che si avvicinerà a questo libro non avrà dubbi e capirà molto presto che per questa storia non è previsto il lieto fine, Rash lo lascia intendere in maniera molto chiara, semplicemente raccontando; non ci sono inganni, solo una bella storia scritta (e tradotta) benissimo. Perciò non diremo più niente della trama ma solo della scrittura.
«Era qualcosa di più raro. Felicità, pensò Laurel, deve essere questo».
Rash muove i tre protagonisti così come muove le foglie di un albero, lascia scorrere l’acqua del fiume, fa sì che il sole sorga o tramonti, che un parrocchetto passi sopra le loro teste. Li muove nell’ambiente, li lascia parlare con i silenzi, con le cose taciute, con gli sguardi. Costruisce un codice comunicativo – tra Laurel e Walter, tra Walter e Hank e tra loro tre – sensibilissimo, pieno di sfumature, di cose che non si possono spiegare. Le paure di Laurel verso quello che non sa, il suo istinto che la spinge a superarle, a scegliere. I silenzi di Walter, da dove arriva, chi è, chi è stato, chi potrà essere. La musica del flauto, una torta preparata per la sera, il fuoco del camino. La dolcezza scende a spaccare in due la durezza del luogo e quella dei cuori. In alcuni momenti di questo libro Rash riporta alla mente quella grande scrittrice che è stata Carson McCullers, in particolare per l’abilità di saper bilanciare un silenzio con un alito di vento, una giornata di pioggia con una vaga speranza.
Scrivendo del precedente libro di Rash avevamo riflettuto su come non esistesse un grande romanzo americano, ma come questa (ormai) figura retorica non fosse altro che la somma di tanti frammenti, di molte prove narrative che la andavano costruendo. Le particelle di Rash continuano a dare il loro contributo.
Alla fine del libro si ha la certezza di essere stati in posti mai visti, di aver superato più volte il confine tra vita e morte, tra giusto e sbagliato, di aver compreso che strega è solo un aggettivo usato per paura, che a un uomo basta una mano sola per fare la cosa giusta, che uno che sa suonare non smette mai di saperlo fare, che una valle è meravigliosa o minacciosa a seconda di chi la osserva, di chi la racconta.