Octavio Paz, biografia di un poeta
«C’erano miracoli semplici chiamati uccelli /Tutto era di tutti / Tutti erano tutto / C’era solo una parola immensa e senza rovescio», sono quattro versi di una poesia di Octavio Paz che mi è sempre piaciuta molto, testo incluso in Il fuoco di ogni giorno, uscito per Garzanti nel 1992, con la traduzione di Ernesto Franco, libro pressoché introvabile. Mi sono tornati in mente in questi giorni, leggendo due importanti volumi pubblicati da Mimesis e curati da Massimo Rizzante: Octavio Paz nel suo secolo di Christopher Domínguez Michael (traduzione di Stefano Pradel) e L’altra voce di Paz stesso (tradotto da Rizzante). Il primo volume è una biografia, ma non è solo questo come vedremo, è un complesso e ricco saggio critico sull’opera e sulla vita di Paz, di come siano non scindibili, di come – da qualunque lato si osservi il premio Nobel messicano – risultano evidenti la sua capacità di visione, il suo pensiero luminoso, il suo saper leggere il passato storico e letterario e da lì, da ciò che è stato immaginare il futuro delle parole, della poesia, del tempo. Paz quando scriveva tracciava linee, superava un confine dopo l’altro, si accorgeva prima di altri (come pochi atri poeti-critici, per esempio Pound, Eliot, Yeats) di qualcosa che finiva, una fase storica, un periodo letterario. Paz metteva il punto quando altri stavano ancora leggendo l’ultima frase.
«Non darei la vita per la mia vita. La mia vera storia è un’altra».
I versi che mi sono tornati in mente suonano alla luce di queste due arricchenti letture come se da una radio fosse uscita la voce di Paz che diceva: ecco cosa è successo, ecco come sono andate le cose. Di ogni poesia riuscita il lettore fa ciò che vuole e ricorda ciò che gli serve. I due versi Tutto era di tutti / Tutti erano tutto li prendiamo e li trasportiamo nel campo del linguaggio, delle sue infinite possibilità. Paz conosceva il potere della parola, sapeva che l’invenzione e la reinvenzione del linguaggio, della grammatica, della sintassi era la strada, l’unica, da seguire. Ogni parola poteva aprire una porta, ampliare il margine del campo della rivoluzione. La rivoluzione aveva bisogno di parole, le parole messe nella giusta posizione, una dopo l’altra, una per una facevano la rivoluzione. Se tutto era di tutti, o era stato di tutti, tutti potevano prenderselo o riprenderselo. Più importante ancora suona Tutti erano tutto ogni individuo può essere ogni cosa, avere quindi le stesse possibilità, non esiste il me stesso, ma solo il me stesso con gli altri. Paz sapeva che anche la poesia più riuscita raggiungeva davvero il suo scopo quando raggiungeva gli altri, quando gli altri ne prendevano possesso. La usavano. C’era una sola immensa parola e senza rovescio; qualcosa da cui deriva tutto il resto, qualcosa di estremamente limpido e chiaro, qualcosa con cui si deve avere a che fare, qualcosa da moltiplicare ed estendere nel tempo.
«Grazie a lui ci sentivamo contemporanei della Rivoluzione messicana e della Rivoluzione russa, del secolo delle avanguardie che si biforcavano in guerra e in sogno».
Christopher Domínguez Michael nella premessa al volume spiega molto bene il suo approccio alla biografia di Paz. C’è un avvicinamento e uno studio da critico, e poi ne esiste uno affettivo, Domínguez Michael ha lavorato per molti anni con Paz, soprattutto nella redazione della leggendaria rivista Vuelta. È, perciò, molto preciso nel declinare i fatti, del perché Paz fa una cosa, scrive un testo, come lo scrive, quando lo scrive, come si muove, come si sposta di luogo in luogo, sempre in funzione di un’idea, di un’invenzione, dell’intuizione di un prossimo mutamento. Sa essere, però, anche commovente quando, per esempio, racconta le telefonate di Paz che quasi mai erano brevi, a volte sembravano lunghi monologhi (roba da prendere appunti) o svoltavano in discussioni fitte. Chissà come deve essere stato bello starsene lì, a casa la sera, suonava il telefono: Buonasera, sono Octavio, que pasa? E poi aggiunge che il controverso (e qui anche divertente) Paz usava il telefono ma pure lo detestava, e aveva pensato di scrivere un saggio contro il suo uso.
«A volte, è vero, la gioia finisce male: ci sono litigi, insulti, pallottole, coltelli».
Nel tempo sono usciti saggi critici, testi biografici scritti da autori che – come Domínguez Michael – conoscevano bene Paz e allora bisognava scrivere qualcosa di diverso, qualcosa che raccontasse e raggiungesse Paz in altro modo, più vicino al sentire del critico / biografo, più profondo, che tenesse conto di ciò che era stato già pubblicato, che lo rispettasse e che in qualche modo lo disattendesse. Il libro Octavio Paz nel suo secolo è un testo mobile e modulabile, nel senso che – come afferma l’autore nella introduzione – è migliorato nel tempo, con delle aggiunte avvenute anche dopo le traduzioni. L’edizione italiana è (per il momento) la più completa.
«(Leggere) è un esercizio mentale e morale di concentrazione che ci porta in mondi sconosciuti che a poco a poco si rivelano la nostra patria più antica e più vera: è da lì che veniamo».
L’esistenza e la vita intellettuale di Paz seguono una traiettoria che ha influenzato notevolmente il Novecento, sia nei suoi aspetti letterari sia in quelli politici e, ci pare di capire, di sentire, che quell’influenza non abbia ancora esaurito il suo effetto. Sotto questo punto di vista, in particolare, Octavio Paz pare un autore che andrebbe raccontato a scuola, raccontato per bene, come argomento di approfondimento. Come si scrive un saggio, come si ragiona sul tempo, come si capisce il senso della Storia, come si scrive una poesia, come la si legge. Domínguez Michael documenta, con la tenacia dell’archivista e dello storico, l’impegno e la vocazione e, soprattutto, con il passo del critico e con un certo tipo di sguardo sentimentale (nell’accezione più alta del termine) compie un’attenta e profonda riflessione sull’opera letteraria di Paz. In particolare, l’analisi sulla sua poesia matura, quella che va dagli anni Cinquanta e Sessanta (nata durante i soggiorni in India) agli anni Settanta (quelli del ritorno in Messico) offre uno sguardo nuovo. Come accennato in apertura, si parla degli anni formidabili della rivista Vuelta, che è stata un’avventura sì letteraria ma anche politica. Nell’ultima parte del volume si racconta della svolta liberale di Paz (anni Ottanta) e poi le sue posizioni, le sue idee, dopo il 1989 e la rivolta neozapatista in Chiapas.
«Tra rivoluzione e religione, la poesia è l’altra voce».
Octavio Paz è stato molte cose e in questa biografia le troviamo tutte, riconoscendo e sentendo tra le pagine la sua voce, il suo essere fuori da ogni schema predefinito, lo schema lo creava lui di volta in volta, di saggio in saggio, di poesia in poesia; poi studiava, osservava e lo cambiava di nuovo.
Alla luce di questo libro è importante rileggere anche i saggi contenuti in L’altra voce. Qui Paz esamina la situazione della poesia nel mondo contemporaneo, la sua evoluzione, la sua rinnovata importanza, data dal tempo, dai tempi, dalla Storia. Paz spiega bene che non si stanno attraversando i giorni in cui la poesia finisce, ma soltanto quelli in cui finisce una tradizione poetica, cominciata con i grandi romantici, proseguita (più che luminosa) con i simbolisti ed è tramontata – in piena luce – con le avanguardie e i modernismi del XX secolo. Tracciata la linea, osservati (nuovamente) i legami tra poesia e rivoluzione, Paz si interroga su quale sarà il ruolo della poesia nel XXI secolo. Non descrive, non prevede, ma manifesta nuovamente la sua fede nell’arte poetica e nella sua capacità di mutare, di rivelare.
«[…] Sentire questa voce è sentire il tempo stesso, il tempo che passa e che, nonostante ciò, ritorna portando con sé alcune sillabe cristalline».
Leggendo i due volumi, l’ottima e attenta curatela di Massimo Rizzante che scatena ulteriori riflessioni, testi che ampliando il testo, rileggendo un discreto numero di poesie, emerge un Octavio Paz quanto mai attuale, da studiare e ristudiare, da chiamare tra le pagine quando si ha bisogno di un po’ di conforto. Pare vederlo emergere attraverso le parole che lui stesso scrive in un altro testo molto importante Anch’io sono scrittura (Sur, traduzione di Maria Nicola), un bellissimo testo biografico, un racconto dell’uomo che si osserva andando all’indietro e che scrive: «Mi vedo, o per meglio dire: vedo una figura indistinta, una sagoma indistinta sperduta su un immenso divano circolare dalla seta logora, posto proprio al centro della stanza […]», così vedo Paz mentre chiudo questo articolo, una figura indistinta seduta al centro della mia stanza che mi parla con voce calma, con impressionante lucidità.