Massimo Troisi, l’amico geniale
Il 4 giugno del 1994 era sabato. Io e mia sorella, con i soliti amici e amiche, eravamo stati fuori. Forse a ballare, più probabilmente ad ascoltare musica dal vivo. A quei tempi a Napoli si suonava sempre, si suonava dappertutto. Tornammo a casa di notte, molto tardi, perciò doveva essere già il 5 giugno. Mentre mangiavamo la nutella dal barattolo, un rito prima della buonanotte – come è bella la gioventù – accendemmo il televisore e così scoprimmo che Massimo Troisi, il nostro Massimo, era morto a soli 41 anni. Prima ancora di capire davvero cosa e come fosse successo, prima di trasportare la notizia del telegiornale notturno nella realtà, cominciammo a piangere, prima più piano poi a singhiozzi; infine ci abbracciammo, tra lacrime e nutella.
Basterebbe questa scena per spiegare cosa rappresentava Massimo Troisi per noi. Era l’amico geniale, una specie di fratello maggiore, uno a cui ispirarsi, a cui pensare con affetto; era quello che ti faceva divertire, ridere tantissimo e che pensava – o almeno così ci pareva – le cose che pensavamo noi rispetto al tempo in cui vivevamo, al contesto sociale.
Troisi era capace di risata, aveva tempi comici incredibili, una gestualità in grado di parlare. Grazie a quei suoi particolari talenti, riusciva a ribaltare gli stereotipi, a parlare di problemi sociali e di politica, ma sempre all’interno di un disegno comico, di un racconto divertente. Era un grande attore, poi un grande regista. Gli volevamo bene, ed era morto in un giorno di primavera, di pomeriggio mentre riposava, poche ore dopo aver girato le sue ultime scene di Il Postino. Da quei giorni – e questa cosa non è mai cambiata – ho sempre pensato a lui con sentimenti che mischiano malinconia e allegria, ho guardato e riguardato i suoi film decine e decine di volte, conosco molte battute a memoria – e come me migliaia di altri –, sono in grado di ripetere a occhi chiusi quasi tutti gli sketch della Smorfia: la posizione di Troisi, quella di Enzo De Caro, l’entrata o la battuta di Lello Arena e così via. Senza contare le battute delle ospitate televisive o delle interviste. Tutte.
Il mio Troisi è pieno di cose, e tutti quelli che lo hanno amato hanno il proprio. Di certo è così anche per Mario Martone, autore del documentario Laggiù qualcuno mi ama. Nel film c’è il suo Massimo che in diversi punti coincide con il mio, o con quello di altri; ma ci torniamo tra poco.
Troisi è nato il 19 febbraio, lo stesso giorno di mia nonna, e il fatto che in quella giornata io li ricordi entrambi la dice lunga sull’affetto. Ci sono persone che continuano ad accompagnarti, anche se non li hai mai conosciuti di persona. Le mie, oltre a Troisi, sono Diego Maradona e David Foster Wallace; ma forse per Massimo c’è qualcosa di più profondo. Il giorno del ventennale della sua morte ho scritto una serie di poesie, terzine irregolari le ho chiamate, molto improvvisate ma abbastanza riuscite. Poesie che mettevano in relazione noi (io, mia sorella, i miei amici) e Troisi, come era stato, cosa ricordavamo, come lo vedevano gli altri, anche quelli che non lo capivano, quelli che si lamentavano del dialetto. Invece poi, a poco a poco, come ha scritto anche Roberto Benigni in una poesia, lo hanno capito tutti e mai più dimenticato.
La cosa che mi è piaciuta di più del documentario di Mario Martone riguarda la chiacchierata a più riprese con Anna Pavignano, che con Troisi scriveva i film, e che ne è stata prima la compagna e poi sempre amica. Pavignano lo racconta con un bel sorriso a fior di pelle, tirando fuori le agende, i post-it, gli appunti, raccontandolo per com’era. Grazie a Pavignano possiamo ascoltare dei brani registrati su audiocassetta, nei quali Troisi si presta a verosimili sedute psicoanalitiche, sentire quella voce appena un po’ più bassa del solito che scherza e ricorda degli episodi dell’infanzia è molto bello. Commovente, poi, leggere, le pagine dell’agenda dove sono segnate le fasi della prima operazione al cuore a New York, al tempo fu fatta una raccolta fondi per far operare quel ragazzo ancora sconosciuto.
L’altra cosa interessante è quella dei rimandi a un certo cinema francese che personalmente non avevo mai colto, e non sono sicuro ora di aver colto del tutto, ma è un aspetto che Martone inquadra bene, da regista: ci sono elementi come la corsa, come le riflessioni davanti allo specchio, come le espressioni del viso e delle mani, una sorta di monologo senza voce.
Molto bello l’intervento di Ficarra e Picone, che notano come in Non ci resta che piangere a Troisi scappi una risata che trattiene in un mezzo sorriso con maestria da vero attore. Martone si sofferma molto sulla bravura di Troisi come regista e come attore, e fa bene. È bello rivedere, per esempio, la scena finale di Pensavo fosse amore invece era un calesse attraverso gli occhi di Martone che la mostra per quello che è: una scena pensata e girata da un grande regista. Con le comparse che accolgono l’entrata di Francesca Neri vestita da sposa nel bar dove Troisi attende, ma fuori dall’inquadratura. Nel momento in cui la macchina si sposta su di lui, e si concentra sui due protagonisti, tutto il resto scompare, il bar diventa vuoto, e man mano che la regia si allontana, di quella scena noi sentiamo solo le battute. Neri e Troisi scompaiono, le loro facce diventano quasi un fatto privato, come tutte le storie d’amore.
Martone indugia sul Troisi di Scola, che io amo molto, soprattutto per i film Splendor e Che ora è: la malinconia e la bellezza che vengono fuori dal vedere Mastroianni e Troisi dialogare sono da brividi. Sarebbe stato forse interessante riproporre due spezzoni in cui Troisi scherza sulla notorietà di Mastroianni, alludendo al fatto che Scola avesse scelto lui per far conoscere il grande Marcello all’estero; oppure il monologo al ritiro della Coppa Volpi vinta da entrambi, in cui Troisi – data l’assenza di Mastroianni – lo prende in giro, raccontando di futili motivi per i quali non si era presentato al Lido.
L’ultima cosa importante del documentario è quella che riguarda l’intervista a Paolo Sorrentino che spiega la tecnica del finale dei film di Troisi – soprattutto dei primi due, Ricomincio da tre e Scusate il ritardo – quella del fermo immagine, il finale senza il vero finale. L’ultima battuta di Troisi a Giuliana De Sio in Scusate il ritardo, prima dei titoli di coda, è «Cioè, resta».
Martone non mi è parso agiografico. Con Troisi rischiamo di esserlo tutti: anche io mentre scrivo un po’ lo sono. Ma al film qualcosa manca – e qui torniamo al fatto che ognuno ha il suo Massimo. Manca per esempio Lello Arena, manca Roberto Benigni, manca Giovanni Benincasa, manca Renzo Arbore, manca almeno una voce delle attrici che hanno lavorato con lui. Non conosciamo i motivi per i quali non ci siano: sappiamo solo che mancano, e il documentario in alcuni momenti pare perdere un po’ di cuore, che ritorna ogni volta che Martone ripropone uno sketch della Smorfia o un pezzo di film.
Troisi che ribalta gli stereotipi e usa sé stesso per farlo, come quando nella scena finale di Ricomincio da tre prima manifesta tutti i dubbi culturali che non gli possono far accettare il figlio che forse non è suo, e dopo chiede direttamente a Fiorenza Marchegiani, nel caso, come potrebbero chiamare il figlio, fino alla strepitosa sequenza finale con la scelta dei nomi.
La locandina di quel film, incorniciata per bene, mi segue da molti anni, almeno da quattro case, ora è qua con me a Venezia, insieme alle foto più care, è di questo che sto parlando. Io Martone lo ringrazio perché si è preso un rischio, sapendo forse in parte di fallire, proprio per l’impossibilità di rendere totalmente il genio fuori dal comune di Massimo Troisi.
Ho amato il modo di Troisi di scherzare sulle banalità con cui è stata sempre raccontata Napoli. Più di tutto ho amato tre momenti e mi pare che sia giusto chiudere questo pezzo personale, raccontandoli.
Ai tempi della Smorfia il mio pezzo preferito è quello di San Gennaro. Troisi che parla con il santo chiedendo i numeri al lotto, fino all’intromissione di Lello Arena, con lo scambio tra i due e tra loro e il santo. Massimo è grande quando dice cose tipo «San Gennà, je nun avessa parla’ proprio», come a dire ci conosciamo così bene che non dovrei dire nulla; o quando accusa Lello Arena di partecipare a tutte le processioni di San Ciro, riducendolo perciò al ruolo di opportunista, non meritevole, come se lui invece non lo fosse. Si ride solo al pensiero.
Del Troisi televisivo il pezzo che preferisco è quello in cui – ospite di Indietro tutta – viene avvisato da Renzo Arbore di essere Rossano Brazzi e, siccome la televisione non può sbagliare, se ne convince anche Troisi. Dopo una serie di scambi irresistibili tra lui, Arbore e Nino Frassica, dice quella battuta geniale che si traduce più o meno così: Devo aspettare che tutti quanti vadano a casa stasera, così l’unica macchina che resta è quella di Rossano Brazzi e quindi la mia.
Infine, in Ricomincio da tre, di nuovo Troisi che ribalta gli stereotipi e ci spiega Giuda, il traditore per eccellenza. Intanto fa molto ridere quando alla ragazza che parla con lui dice che in caso di minaccia di tortura lui subito parlerebbe, scriverebbe, farebbe dei disegni. E alla battuta «Ma allora sei come Giuda», lui risponde no, è che non sopporta il dolore fisico; e nel minuto successivo fa a pezzi uno dei perni sui quali si fonda il Nuovo Testamento. Dice che se Giuda lo avessero fatto nascere ricco non avrebbe mai tradito, i trenta denari sono un buon motivo se uno è povero – la povertà è uno dei temi che Troisi ha affrontato più spesso – e spiega che la moglie di Giuda magari si lamentava del fatto che fosse sempre in giro con Gesù: non porti i soldi a casa, ci stanno le bollette, eccetera.
Troisi ha sempre giocato con la morte: forse ha sempre saputo che la corsa sarebbe stata breve. Nel 1982 aveva girato anche Morto Troisi, viva Troisi!, un bellissimo corto per la Rai sulla propria morte. Quando è uscito Il Postino non ce l’ho fatta ad andare a vederlo; l’ho visto qualche anno dopo, ero troppo dispiaciuto.
Per capire davvero Troisi bisognerebbe osservare la timidezza e la sfrontatezza contemporanea con le quali molti di noi, nati a Napoli, hanno alternato insicurezza a battute fulminanti, muovendo le mani, gli occhi, toccandoci le sopracciglia come faceva Massimo, come ancora fa. Non abbiamo fatto in tempo, eravamo giovani e distratti, o lo avremmo implorato rubandogli la battuta: «Cioè, resta».