Ipotiposi / Neve

2 Gennaio 2021

Nell’edizione del ’63 di Le parrocchie di Regalpetra, Leonardo Sciascia aggiunse un racconto, La neve, il Natale, in cui la presenza rara di una nevicata nella Racalmuto in cui nacque, nella Sicilia agrigentina di Pirandello, ribadisce il legame fra il coagularsi dell’inchiostro della scrittura e l’ac-cadere della morte. All’improvvisa felicità infantile per la sorpresa di una visita inattesa, presto si sovrappone una notazione luttuosa, il richiamo alla “disperazione e morte” che quel bianco incantato provoca negli uccelli e nei più fragili fra gli umani. “Col freddo i vecchi se ne vanno. Quagliano – qui dicono. Quagliare vuol dire cagliare, l’inavvertito cagliare della vita, la morte che lentamente si coagula nel corpo di un uomo, si fa gelida forma. È una espressione che viene usata per coloro che giungono senza strazio alla morte, ma a me piace spremerne un senso pirandelliano e universale”. La forma che si é raggelata blocca in un rigido stampo il magma incandescente della vita, e il manto depositato dalla neve diviene così lenzuolo, sudario. Al momento del ritrovamento del primo cadavere nel corso della cerimonia del Rosario, in quella parodia del “giallo” che è Todo modo, Sciascia si serve di una formula ancor più condensata: “… due camerieri gli nevicarono sopra un lenzuolo”. Subito il lettore immagina un bianco tessuto disteso ad annullare forme e colori della vita: al pari del suo opposto, il nero, che è assenza di colori, anche il colore acromatico, che contiene tutti i colori ma privo di tinta, porta in sé il connotato della cancellazione, della riconduzione del mondo al suo scheletro. 

   

Riportando le cose ai loro magri elementi disegnativi, la neve cancella la pittura del mondo, si fa così segno di lutto, metafora del gelido declinare delle esistenze. Nel finale di I morti (1907), con cui Joyce conclude I racconti di Dublino, la nevicata che si deposita sull’Irlanda rende consapevole il protagonista dell’inverno di una vita che non ha conosciuto la passione, ha osservato Franco Brevini in quella summa sul tema che è Il libro della neve. L’insegnante deluso e dalla vita spenta ha appena scoperto, al ritorno di una festa di Natale, che fra lui e la moglie si è sempre insinuato il fantasma di un lontano amore giovanile, un ragazzo morto per vedere la ragazza sfidando il maltempo. Dopo la banalità della cena, al suono di un canto irlandese, ecco irrompere un’autentica e dolorosa passione, quella di un semplice operaio la cui vitalità è più forte del distaccato atteggiamento di superiorità del professore. È il richiamo della vita che sgorga irriducibile e struggente, di fronte alla cultura che sconta la propria impotenza. “Osservò assonnato i fiocchi, argentei e scuri, cadere obliquamente contro il lampione. Era tempo per lui di mettersi in viaggio verso occidente. Sì, i giornali avevano ragione: nevicava in tutta l’Irlanda […]. Si ammucchiava fitta sulle croci contorte e sulle lapidi, sulle punte del cancelletto, sui roveti spogli. La sua anima si dissolse lentamente nel sonno, mentre ascoltava la neve cadere lieve su tutto l’universo, come la discesa della loro ultima fine, su tutti i vivi e su tutti i morti”.

  

Illustrazione di Enrica Passoni.


La neve è privazione, elimina i suoni abituali, produce silenzio e induce al silenzio. I rumori risultano attutiti perché i cristalli, legandosi tra loro per formare fiocchi, catturano aria, la organizzano in spazi che assorbono il suono e impediscono alle onde sonore di rimbalzare, spiega Daniele Zovi. Nella costellazione dell’immaginario la neve si apparenta al cotone, il bianco è l’equivalente cromatico del silenzio: la natura accede allo statuto di still life, quasi fosse messa in posa, in pittura e in fotografia, per dar figura al mondo assonnato a cui abbiamo dato il nome di “natura morta”. L’agitazione ordinaria della vita, il suo vano affannarsi, è messa in epoché: i fiocchi di neve si fanno cenere, polvere entropica dove domina l’uniformità indistinta, vengono meno le differenze che caratterizzano la varietas del mondo quotidiano. La neve è epifania del mattino, sorpresa del risveglio, spettacolo intimista per chi può permettersi di osservarla dal tepore domestico che la modernità ha conquistato. Quando ancora non potevamo contare su previsioni meteorologiche affidabili, il suo arrivo è rimasto cifra dell’evento inatteso, annunciato da uno strano silenzio, prima che la vista ne dia conferma. Così ne presenta l’apparizione Paul Valéry: “Che silenzio, rotto da un semplice rumore di vanga! … / Mi sveglio, aspettato dalla fresca neve / che mi sorprende avvolto nel mio caro caldo […] / Oh! quanti fiocchi, durante la mia dolce assenza, / Dovettero gli scuri cieli perdere tutta la notte! / Che puro deserto caduto dalle tenebre senza rumore / venne a cancellare i rilievi della terra incantata / sotto l’ampio candore sordamente aumentato / e a fonderla in un luogo senza volto e senza voce, / ove lo sguardo perduto scopre qualche tetto / che nasconde il suo tesoro di vita solita / appena offrente il voto di un vago fumo” (Neve). 

 

Il manto nevoso diviene “puro deserto”: due forme estreme di materia ostile dove, oppressi dalle sensazioni opposte di caldo e di freddo, i sensi si perdono. Il deserto di neve, come tutti i deserti, è “feroce resistenza purificatrice alle seduzioni della terra”, scrive Gilbert Durand: diviene allora vettore di ascesa morale, di religiosa trascendenza, preludio di apocalisse e apertura verso un infinito, forse più temporale che spaziale, come suggerisce un verso di Rilke: “il giorno troppo bianco assume un aspetto di eternità”. La bianchezza della neve esorta alla purezza, invita ad un’adorazione religiosa: la Vergine immacolata appare nei luoghi nevosi, anche il Cristo della trasfigurazione porta vesti bianche. “Nell’universo dell’inverno il pensiero si raccoglie e diventa angelico, lontano dalle esuberanze carnali dell’estate”, rileva Durand. Nei luoghi impervi della solitudine si rifugiano eremiti e asceti (nella Tebaide o sull’Himalaya), quanti inseguono la conversione, in cerca dell’assoluto del vuoto e del silenzio. È qui che sorge la consapevolezza della vanità delle esistenze mondane, qui dove, eliminato il superfluo, si fa esperienza dell’essenziale; nel film documentario di Philip Gröning del 2005, Il grande silenzio (Die Große Stille) – dedicato alla vita quotidiana dei Certosini della Grande Chartreuse fra le Alpi savoiarde, a cui la parola è concessa solo per le preghiere e i riti religiosi –, quel che Roland Barthes, parlando della fotografia, definiva il punctum è il monastero sommerso dalla neve, quando al silenzio delle cose fa eco quello degli uomini. 

 

Illustrazione di Enrica Passoni.

 

Le cose di tutti i giorni, provvisoriamente sepolte dal manto nevoso, sono lasciate intatte, ma suoni, forme e colori sono come attenuati, fino ad cancellare o proteggere la sensualità esuberante che si manifesta nella vitalità della natura. La neve nasconde ma al contempo rivela, ci mostra quel che in genere non vediamo, l’invisibile allo sguardo quotidiano, illumina il paesaggio che di solito ci è precluso dal rumore e dal caos quotidiani. Il mondo coperto dal manto di neve è come posto in sospensione, sfugge alla logica ordinaria, quella per cui le cose debbono servire a qualcosa, sono da manipolare e sfruttare; la neve restituisce le cose al loro essere-cose, le presenta come avrebbe fatto Van Gogh con le scarpe, stando all’interpretazione che ne propone Martin Heidegger nel saggio L’origine dell’opera d’arte. La cosa, che nel mondo viene riconosciuta per il suo valore d’uso, come strumento a disposizione, nell’opera d’arte disvela il suo essere-cosa, si fa epifania della verità (aletheia) dell’essere.

  

Gilbert Durand ha osservato che il suo maestro Gaston Bachelard ha dimenticato la neve nei suoi studi sull’immaginario degli elementi materiali, dimenticanza scusabile per chi era nato nella Champagne, una regione che, al pari della Borgogna, è troppo vincolata alla terra, troppo carica di sapori e profumi. La neve in quei luoghi resta episodio breve, una tregua nelle fatiche del vignaiolo; per l’uomo della terra dura troppo poco per dare nutrimento al sogno, resta sfuggente e fuggitiva come i bagni di mare o il fuoco del campo. Certo, in Bachelard è la terra l’elemento primario che sollecita la rêverie, più dell’acqua cara al marinaio, dell’aria alpestre e ascensionale, del fuoco del camino o della fiamma della candela. Per il cittadino, dieci giorni di terreno innevato nel corso dell’inverno possono essere un piacere, ma restano, come i riflessi sulle acque, troppo evanescenti per innescare il sogno in profondità. Per gli abitanti delle montagne la neve diventa invece essenza, presenza che dura fino all’ossessione: diventa materia che può innescare la rêverie, sostanza che, al di là dei quattro elementi empedoclei, assume un valore perché dotata di intensità.  

 

Illustrazione di Enrica Passoni.

 

È vero però che, se ripeto per la neve l’esperimento del pezzo di cera, nelle cartesiane Meditazioni metafisiche, e la accosto alla fiamma, la materia si scioglie, perdo anche l’attributo generico che conserva ogni corpo, quello dell’estensione geometrica (res extensa). La neve appare in tal senso a Durand un ostacolo epistemologico, una materia che non si lascia classificare in quanto semplice acqua gelata; può assumere le qualità più diverse, senza rispettare i principi della logica, sfugge allo spirito che promuove la scienza per offrirsi al gioco ambiguo dell’immaginazione. La neve è un elemento mutevole, sostanza di metamorfosi: elemento dell’effimero, si scioglie al sole, ma si stratifica nei ghiacci e porta così memoria del passato. Per cogliere la costellazione delle immagini suggerite dalla neve (dove i contrari coabitano senza annullarsi, dove l’ambivalenza è più forte delle contraddizioni dei pensieri), dovrei allora passare ad un materialismo non fisico ma sensuale e affettivo, ad una dimensione poetica. In termini sonori a dominare è il silenzio, in termini visivi è la bianchezza a trionfare: la purezza marmorea può farsi manto funebre, il candore che esalta la bellezza femminile si converte nel cereo pallore della morte. Nella neve coabitano la purificazione dai peccati – “Anche se i vostri peccati fossero rossi come scarlatto, diventeranno bianchi come neve” (Isaia, 1,18) – e la manifestazione terribile del male impuro: “la sua mano era diventata lebbrosa, bianca come la neve” (Esodo 4,6). 

  

La neve possiede una dolcezza tranquilla che rende luminose anche le tenebre notturne, ricorda Rimbaud: “J’ai revé la nuit verte aux neiges éblouies” (“Ho sognato la verde notte dalle nevi abbagliate”, recita un verso del Battello ebbro). E anche se l’umida pesantezza della valanga è distruttiva, nel suo cadere la neve è evocazione della leggerezza, della sostanza pulviscolare del mondo, la stessa della scrittura, suggerisce il Calvino lucreziano delle Lezioni americane. Nel verso di Guido Cavalcanti, “E bianca neve scendere senza venti”, la replicazione dei quattro accenti tonici tutti in e restituisce il ritmo monotono del suo cadere incessante; la ripresa dantesca, “Come di neve in alpe senza vento”, serve per trasposizione analogica, a dare figura della pioggia di fuoco che cade implacabile sul sabbione infernale (XIV). La trama sonora provoca un alleggerimento del linguaggio che, in Cavalcanti, diventa “un elemento senza peso, che aleggia sopra le come una nube o meglio un pulviscolo sottile”, quasi ad assumere la stessa rarefatta consistenza della neve.

 

Illustrazione di Enrica Passoni.


Nella costellazione poetica la neve è un essere dell’aria: negli haiku è spesso associata al concetto zen di vuoto, e in Giappone il suo cadere è assimilato al turbinio struggente dei fiori di ciliegio. Risolutamente anti-terrestre, la neve, nel gioco ossimorico della metaforica poetica, pur essendo acqua gelata, riscalda e protegge. Oltre che casta colomba a cui il vento ha rubato le piume, può assumere allora la funzione lustrale del fuoco, il più feroce purificatore delle sporcizie terrene, come attesta il Battesimo della Pentecoste. Di qui la valorizzazione termica della neve, nei culti stagionali del rinnovamento, fiamma nella notte invernale, buona novella del solstizio: la neve non si limita a sospingere verso le rêverie del focolare, verso l’intimità riscaldata dalla stufa o dal camino, finisce per esserne causa, nell’immaginario poetico non c’è fuoco senza freddo e la neve è calda al cuore. Così è in Paysage di Baudelaire: quando giungerà “l’inverno dalle nevi monotone”, potrò immergermi nella voluttà “di estrarre un sole dal mio cuore, e di fare / dei miei pensieri ardenti una tiepida atmosfera”. 

   

Allo sguardo della scienza, la neve è ancella obbediente a quel che Gadda chiamava “il suggerimento cristallografico di Dio”. Nell’opuscolo Strena seu de nive sexangula (dove il latino “strena” ha il significato arcaico di presagio, e poi di dono che accompagna gli auguri per il nuovo anno), Keplero aveva indicato nella forma esagonale del cristallo la struttura geometrica di base della neve, cosa di cui darà conferma Robert Hooke nella Micrographia del 1665 con il conforto del microscopio. Nel frattempo, il Cartesio delle Meteore (uno dei tre scritti scientifici che fanno seguito al Discorso sul metodo del 1637) si era occupato di quei “misti imperfetti” – a differenza di quel misto perfetto che è il sale – che sono i fenomeni che avvengono nell’atmosfera, fra la terra e il cielo. Le nubi e l’arcobaleno, la pioggia e la neve si possono ricondurre all’ordine geometrico della natura, alla lingua rigorosa del divino artefice. Oggi possiamo disporre di programmi di geometria frattale con cui disegnare fiocchi di neve a partire da una struttura ad albero, che viene riprodotta sei volte, come se fosse in un caleidoscopio. Un esempio elementare di forma frattale è la curva di von Koch, proposta dal matematico svedese nel 1904, detta anche “a fiocco di neve”, la cui dimensione è superiore a 1. Se ad un triangolo equilatero ne sovrapponiamo un altro rovesciato (cioè, inseriamo al centro di ciascun lato un nuovo triangolo equilatero di lato pari a un terzo del precedente), otteniamo una stella a sei punte; inserendo triangoli sempre più piccoli nel centro di ogni lato della stella, otteniamo il fiocco di neve. Per spiegare come si formino quei merletti di ghiaccio, la geometria dei frattali ipotizza che, attorno ad un “seme”, si attacchino particelle che giungono ad esso per moto browniano e poi si aggregano per diffusione; così viene a formarsi la struttura esagonale dei fiocchi, del tutto simmetrica per la casualità di aggregazione.

 

Illustrazione di Enrica Passoni.

 

Descartes scorgeva nei corpuscoli di neve piccole rose a sei petali, o ruote con sei denti arrotondati, ma soprattutto vi ritrovava la forma di piccole stelle a sei punte perfettamente disposte, seguendo la logica rigorosa delle celle esagonali, ben nota all’architettura delle api. La gelida freddezza della Ratio analitica parla la stessa lingua dell’immaginario. “L’immagine simbolica della neve è la stella”, ricorda Durand: anch’essa, in quanto essere della luce e della purezza, del fulgore e del silenzio, apre una prospettiva cosmica. La sensazione del vuoto è la stessa di quella che aprono gli spazi interstellari, il paesaggio innevato di montagna ha un aspetto lunare, la luce delle stelle è più brillante nella notte invernale, ed anche la stella è epifania dell’anti-terra. Chi osserva il cielo al telescopio vede nevicare miliardi di stelle, che rimandano ad un tempo originario, ad una nebulosa primitiva, magma lattescente delle origini.

  

Il silenzio della neve esorta alla meditazione, sviluppa una stimmung specifica, un sentimento, un’emozione, in cui lo stupore si mescola alla nostalgia. Il suo lento cadere riporta al passato, risveglia sensazioni e sentimenti dell’infanzia, si fa vettore di istanze poetiche e fiabesche. E forse il senso della favola è più vivo in chi, come Orhan Pamuk, conosce la neve come presenza rara, compagna passeggera lungo le coste del Mediterraneo. “La neve era una parte essenziale dell’Istanbul della mia infanzia. Come alcuni bambini che non vedono l’ora che arrivi l’estate per poter viaggiare, anch’io non vedevo l’ora che nevicasse. Non per andare in strada a giocare con la neve, ma perché la città mi pareva più ‘bella’ ammantata di bianco; e non per la novità o la sorpresa che portava coprendo il fango, la sporcizia, le crepe e gli angoli dimenticati della città, ma per l’atmosfera di emergenza, anzi di calamità che creava […]. E siccome la città e i suoi abitanti, staccandosi completamente dal resto del mondo, si chiudevano in se stessi, Istanbul, nei giorni invernali di neve, mi pareva più deserta, più vicina ai suoi vecchi giorni di favola”.

 

La neve evoca un tempo più felice, ingenera la nostalgia del tempo perduto, produce un sentimento di irrevocabile posterità: “Mais où sont les neiges d’antan?”, recita il ritornello di François Villon nei versi, cari a Georges Brassens, della Ballata delle dame di un tempo. Forte è l’idea che non nevichi più come una volta, forse perché il bianco manto invita ad una regressione all’infanzia, ad una vacanza dell’anima, sospende il tempo di lavoro per invitarci alla festa e al gioco. Il gesto elementare dell’homo ludens è la costruzione di pupazzi o il lancio di palle di neve, come nell’affresco di Gennaio del Ciclo dei mesi nel Castello del Buonconsiglio a Trento. La neve si fa emblema della labilità dell’esistenza, per il suo fondersi ai raggi del sole, immagine antica che si ritrova in Dante: “Così la neve al sol si dissigilla” (Paradiso, XXXII). È l’incanto della bellezza che subito svanisce, figura elettiva della vanitas, accanto alla polvere, alla cenere, al fumo dello spegnersi della candela. Forse, non è tanto la neve ad essere bella, è la bellezza a contenere “un cuore di neve”, una componente di durezza che la accomuna al “sogno di pietra”, come suggeriscono i versi di Baudelaire: “Sono bella, o mortali! come un sogno di pietra / […] Unisco un cuore di neve alla bianchezza dei cigni” (Beauté). 

  

Illustrazione di Enrica Passoni.


La neve si presta alle storie, ricorda, in apertura di Autobiografia della neve, Daniele Zovi, a lungo a capo del Corpo Forestale dello Stato, soprattutto nei territori dell’Altipiano di Asiago di cui è originario. Sono i luoghi della guerra e della “morte bianca”, quando gli austriaci potevano scavare per chilometri nel ghiacciaio della Marmolada i cunicoli sotterranei della Città di ghiaccio. Sono i luoghi in cui Ermanno Olmi, nel 2013, ambientò il suo ultimo film, Torneranno i prati, struggente evocazione di una microstoria della “Grande Guerra”. Lì Luigi Meneghello visse parte della sua esperienza partigiana, come raccontò in I piccoli maestri (1963). Il bianco manto resta a testimoniare il nostro passato, soprattutto per chi, come Mario Rigoni Stern, vi ritrovava le sue radici: “E a sera, attorno al fuoco, fumando trinciato forte, ci raccontavamo storie e vicende della vita […]. Lassù la montagna è silenziosa e deserta. La neve che in questi giorni è caduta abbondante ha cancellato i sentieri dei pastori, le aie dei carbonai, le trincee della Grande guerra, le avventure dei cacciatori. E sotto quella neve vivono i miei ricordi” (Sentieri sotto la neve). Nel freddo del gennaio del ’43, nel corso della ritirata degli alpini dalla Russia, irrefrenabile è l’impulso a stendersi sul terreno innevato ad attendere in silenzio la morte riparatrice: “Non alberi, non case. Neve, stelle e noi” (Il sergente nella neve).       

  

Quasi fosse una fiaba, la storia narrata da Zovi comincia con “c’era una volta”, perché è il grido di dolore che sale dalla Terra quello che l’autore ci fa ascoltare, nell’epoca del cambiamento climatico in cui la neve si fa presenza sempre più rara ed i ghiacciai scompaiono. Un tempo simbolo luttuoso, epifania della morte, ora è della neve che piangiamo la scomparsa. Il bianco e silenzioso manto raccontava una fredda gentile morte che portava in sé la promessa della vita, il tempo dell’attesa che precede la rinascita. Nel grande mito ciclico dell’inverno, la neve ricopre per scoprire più tardi, è la tomba passeggera che agisce da culla: “sotto la neve pane”, recita un antico proverbio della saggezza contadina, variamente declinato in tanti dialetti. “La neve è l’iniziazione naturale al mistero della vita”, scrive Durand: il tempo sospeso del riposo invernale prepara la rinascita primaverile, nell’alternanza ritmica che scandisce il metabolismo della vita. La rêverie nevosa è antitesi in senso dialettico, è il travaglio del negativo che opera la trasformazione e prepara una nuova affermazione. Ce lo ricorda la poetessa cara ai frequentatori delle montagne, Antonia Pozzi: “Io sognai nella neve di un’immensa / città di fiori / sepolta” (Nevai, 1° febbraio 1934). La neve resta auspicio di rinascita, canta René Char: «In amore, in poesia, la neve non è la lupa di gennaio, ma la pernice del risveglio» (Inserto). 

 

Bibliografia:

Charles Baudelaire, Les fleurs du mal, 1857, Feltrinelli, 2014 

Franco Brevini, Il libro della neve, Il Mulino, 2019 

Italo Calvino, Lezione americane, 1988, Garzanti

René Char, Le nu perdu, 1971, Gallimard 

René Descartes, Le Meteore, 1637, in Opere scientifiche, UTET, 1983

Gilbert Durand, Psychanalyse de la neige, 1953, in Champs de l’imaginaire, UGA Editions, 1996 

James Joyce, Gente di Dublino, 1914, Baldini Castoldi Dalai, 2011 

Martin Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, 1935, in Sentieri interrotti, Bompiani, 

Orhan Pamuk, Istanbul, Einaudi, 2003

Ivan Peterson, Il turista matematico, Rizzoli, 1991

Antonia Pozzi, Parole in Opera Omnia, Ancora, 2015

Mario Rigoni Stern, Sentieri sotto la neve, Einaudi, 1998

Mario Rigoni Stern, Storie dell’Altipiano, Mondadori, 2003

Leonardo Sciascia, Le parrocchie di Regalpetra, 1963, in Opere I, Bompiani, 2012

Leonardo Sciascia, Todo modo, 1974, in Opere II, Bompiani, 2004

Paul Valéry, Mélange, 1939, trad. it. in Varietà, a cura di Giancarlo Pontiggia, Guanda, 1989 

François Villon, Opere, Mondadori, 1982

Daniele Zovi, Autobiografia della neve, UTET, 2019

 

Leggi anche:

Giuseppe Mendicino, Il libro della neve

Angela Borghesi, I gemelli della neve

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