Recalcati e il resto del padre
Vent’anni fa la psicoanalisi era ridotta a un sapere quasi esoterico, noto a pochi e screditato agli occhi di molti. Era diventata in prevalenza una risorsa psicoterapeutica accanto alle altre. Uno dei tanti modi per promuovere qualche forma di benessere, di ottimizzare la cosiddetta performance del cosiddetto individuo.
Oggi la psicoanalisi è tutt’altra cosa. Più specifica e per questo più ampia. Non una psicologia, non una psicoterapia, non uno strumento riparativo. Semmai uno strumento che è anche terapeutico, e tuttavia è abitato da un surplus che gli consente di uscire da se stesso in tante direzioni. Non mira a eliminare i sintomi di cui si occupa, ma a metterne in valore la singolarità. È un’operazione paradossale, per il senso comune. Non mira a eliminare ciò di cui un soggetto soffre e si lamenta, ma a metterlo in valore come l’elemento che gli è più proprio, mostrando semmai in una luce critica la spinta adattiva che comprime quella singolarità e la rende lamentabile entro la tentazione dell’ortopedia sociale. È su questo punto che si innestano quelle direzioni o diramazioni della psicoanalisi di cui dicevo. Il rovescio della singolarità è appunto nel suo rapporto con la società, col suo elemento normalizzatore, oppure con la sua frammentazione, con la sua caoticità talvolta estrema, ma proprio per questo a suo modo omogenea, priva di singolarità. È qui che la psicoanalisi diventa una lente attraverso cui leggere e decifrare le trasformazioni della società in cui viviamo, un sapere capace di interrogare il mondo accanto ad altre pratiche e altri saperi da cui è tornata a sua volta a lasciarsi interrogare. Come la filosofia, la politica, l’arte, le scienze.
L’autore di questa specie di reinvenzione della psicoanalisi e di questa vastissima disseminazione della psicoanalisi, secondo le linee di un progetto quasi massimalista che del resto appartiene alla psicoanalisi fin dall’inizio, per una volta è facilmente identificabile e ha un nome proprio, che è quello di Massimo Recalcati. E oggi un piccolo libro di Recalcati (Jacques Lacan, Feltrinelli 2023) fa il punto su questa lunga stagione di rielaborazione della psicoanalisi e di rilancio della psicoanalisi.
L’ampiezza e la risonanza dell’impresa di Recalcati è tanto più sorprendente quanto più consideriamo che ruota attorno un autore chiave che è Jacques Lacan. Come sa chiunque abbia provato a leggerlo, Lacan è un autore complesso, per usare un prudente eufemismo. È l’inventore di uno spesso linguaggio gergale, estremamente espressivo ma non di rado criptico. Si impegna in continue incursioni in altri saperi, dalla filosofia alla linguistica all’antropologia strutturale alla matematica, che convoca per un istante, saccheggia con mano felice, mette a frutto in direzioni impensate, e spesso congeda rapidamente. È il più zigzagante, incostante, creativo, enigmatico, spiazzante, multiforme dei maestri della psicoanalisi, e forse in generale dei maestri del Novecento. Eppure, o forse proprio per questo, dovendo fare i conti con una bestia tanto sfuggente, lo sforzo di Recalcati è sempre stato di tutt’altro segno. Lo è anche oggi in questo libro. Il suo sforzo consiste nel proporre una sistemazione armoniosa di queste tante asperità. E così il Lacan di Recalcati è un Lacan hegeliano ma anche strutturalista, formalista ma refrattario a un’idea d’inconscio troppo astratta e logicizzante. È un Lacan sgomento di fronte a quel nocciolo scabroso della soggettività che già Freud chiamava pulsione di morte, eppure fiducioso nella possibilità di tenere insieme l’eccesso e la forma, la cosiddetta jouissance e la forza affermativa del desiderio, l’elemento ingovernabile e il legame d’amore.
Direi di più. Il Lacan di Recalcati è fiducioso in qualcosa che potremmo chiamare il legame tout court. È fiducioso nel fatto che possiamo disporre di qualcosa come una potenza capace di tenere insieme ciò che in tanti modi e luoghi si presenta come slegato. È fiducioso nella possibilità di raccogliere ciò che in tanti frangenti della vita individuale e collettiva, in tanti aspetti della realtà umana e non-umana si presenta come sparso, instabile, frammentato. Questa fiducia o questa fede sono forse la cifra di questo libro come in generale della scrittura di Recalcati e della clinica psicoanalitica testimoniata da Recalcati. E poi, questa fiducia o questa fede sono una delle ragioni del suo successo nella sfera pubblica. Successo che negli anni è cresciuto esponenzialmente, portandolo a essere uno degli intellettuali più letti e ascoltati in Italia e in Europa, in un tempo in cui gli intellettuali non sono particolarmente ascoltati in Europa, figuriamoci in Italia.
In che cosa ha fede il laico Recalcati? Ha fede nell’unica cosa nella quale un laico può avere fede. Se dovessi dirlo in una sola parola, direi: ha fede nel logos. Ma l’ho già detto, in effetti, quando ho detto che Recalcati ha fede nel legame, se appunto intendiamo la parola legame in senso molto generale; ha fede nella potenza del legare, insomma nella facoltà di tenere insieme ciò che in tanti modi e in tante direzioni si presenta come slegato; ha fede nella possibilità di raccogliere efficacemente ciò che in tanti frangenti della vita e in tanti luoghi del reale si presenta come disperso, minacciato, frantumato. Tutte traduzioni di quell’unica parola che è logos. Tutte operazioni che appartengono al logos nel suo spettro vastissimo eppure insistente. Legare, raccogliere, mettere insieme. Indicare l’unità tendenziale di una molteplicità. Individuare la regola a cui obbedisce qualcosa di apparentemente sregolato. Innervare un campo instabile e plurale tenendone insieme le tante direttrici senza cancellarle ma annodandole in quello che chiamiamo un campo.
In fondo, è quello che fa una vita, un’esistenza singola. È quello che fa la politica, quando lo fa. Raramente lo fa, negli ultimi decenni, e questa caduta della politica dalle parti dello slegame è stato tra l’altro un tema maggiore di Recalcati, già vent’anni fa, nel tempo del berlusconismo ruggente. È quello che fa l’economia, nel suo modo conflittuale eppure inaggirabile e concretissimo. È quello che fa l’arte, quando fabbrica quello che chiamiamo un’opera. È quello che fa la filosofia, che legge in filigrana un certo campo estraendone quello che chiama un concetto. È quello che fa il giurista, quando fotografa una molteplicità di casi in una regola generale, in una legge che compone interessi divergenti, lasciando abbastanza spazio di movimento alla divergenza e abbastanza spazio di manovra alla convergenza. È quello che fa lo stesso psicoanalista, quando estrae dall’avventura di un soggetto un significante, come dice Lacan. Un significante che la orienta, una parola ignota eppure presentissima in ogni parola nota di quel soggetto, un marchio che ritorna in ogni affetto di quell’avventura. Tutti questi saperi, tutti questi personaggi, tutte queste pratiche fanno una stessa cosa. Istituire l’uno-molti. Costruire l’arcipelago.
Non stupisce che questa fede di Massimo Recalcati trovi tanta eco in un tempo disperato e frammentato. O, meglio, in un tempo che si percepisce come disperato e frammentato. O, aggiungiamo ancora, che percepisce la causa della propria disperazione nella frammentazione o come frammentazione. O, ancora, e più esattamente, che percepisce come frammentazione qualcosa che resta da leggere, da interpretare, da legare in nuovi modi, e che magari è già sul punto di legarsi in modi nuovi, o che noi siamo sul punto di legare in modi nuovi, che tuttavia non sappiamo vedere o riconoscere. Forse, voglio dire, appare come frammentazione il tramonto di una certa legge, di un certo modo di costruire l’uno scegliendo i molti di quell’uno. Appare senz’altro così, il nostro mondo, dal punto di vista di quel certo modo di tenere insieme le cose e dal punto di vista di una certa abitudine a tenerle insieme in quel certo modo. Appare senz’altro così dal punto di vista di chi ha la volontà di dotarsi di una visione del mondo, che sia appunto una, che sia una visione nel senso di un’apprensione di sorvolo, che sia capace di indicare quella cosa che un tempo si chiamava appunto mondo. Cioè un’unità vastissima eppure afferrata da fuori, compresa dall’alto di uno strapiombo che avrà da essere altrettanto vasto, radunata in un’unità dall’enorme trascendenza di quella distanza. Qualcosa di simile a quella sfera blu e bianca che è il nostro pianeta quando viene fotografato da una stazione spaziale. Che è poi la cosa più simile al punto di vista di Dio, tra le tante di cui disponiamo quaggiù.
Ecco, senz’altro oggi il nostro mondo appare così, non più un mondo, non più dotato di una visione, non più dotato di un uno, insomma un cumulo di rovine, un cumulo di frammenti votati allo slegame molto più che al legame, ma appunto appare così dal punto di vista di qualcuno che si aspetti di poter fabbricare l’unità del mondo o l’unità della nostra esperienza dal punto di vista di Dio, e che sia stato abituato da secoli o millenni, come la nostra cultura e i nostri saperi sono stati abituati, ad aspettarsi che si possa fabbricare l’unità dal punto di vista di Dio. Cioè da fuori. Secondo trascendenza. Dall’alto. Secondo discontinuità. Da altrove. Secondo una legge che è la legge di un Altro che è completamente Altro. Dare nome alle cose, avere nel nome e nel linguaggio lo strumento per eccellenza del legame, porta facilmente a quest’idea di unità secondo trascendenza. Nominiamo dall’alto, descriviamo da fuori, parliamo di cose, abbiamo parole che dicono oggetti. Quando questo strumento viene soppiantato da altri strumenti, i vecchi legami si sciolgono e i nuovi legami sorgono dove non noi siamo soliti guardare, e in modi di cui non siamo pronti a prenderci cura.
La dedica con cui Recalcati apre il suo libro suona: “a mio padre, floricoltore”. I suoi lettori lo conoscono, e i suoi amici hanno avuto qualche familiarità con questo padre floricoltore, che mandava avanti una serra alle porte di Milano, che obbligava il figlio a studiare agraria, che scriveva e dipingeva di notte lettere dorate sulle corone floreali destinate ai funerali del giorno dopo. E così destinava il figlio a scrivere contro la morte o a immaginare che la scrittura scriva contro la morte, e anche, più banalmente, a scrivere o immaginare che la scrittura scriva contro l’istituto agrario e contro la tiepida prospettiva a cui doveva avviarlo l’agrario. Cioè a gestire, come spesso racconta Recalcati sorridendo di affetto e scampato pericolo, le cosiddette serre calde, in cui avrebbe dovuto coltivare piante delicate, che l’inverno milanese annienterebbe volentieri e rapidamente.
È una dedica, questa al padre floricoltore, che segnala una direzione di lettura dell'intero libro, e anzi la direzione di lettura che Recalcati adotta e ha adottato negli ultimi venti o trent’anni nei confronti dell’intero insegnamento di Lacan. Passione di Recalcati per la figura psicoanalitica del padre. Ricognizione costante del tramonto di questa figura. Capacità sottile di registrare le sue tante varianti contemporanee. Preoccupata denuncia della sua evaporazione. E fiduciosa, appunto, caccia alle figure della sua persistenza. Teorizzazione della sua presenza in forma di traccia, di resto, di residuo però tenace, o sperabilmente tenace, sperabilmente capace di restare ancora un po’, sperabilmente capace di accompagnarci ancora un po’ nel buio del mondo in frammenti.
Direi che ci sono, in questo libro come nell’opera complessiva di Recalcati, due strategie, quella che chiamerei la strategia del resto e quella che chiamerei la strategia dell’invenzione. Sono avvinghiate l’una all’altra come il diritto e il rovescio di un guanto. Sono la stessa cosa, guardata da punti di vista diversissimi. L’una forse prevale, ed è la prima. L’altra forse è sempre sul punto di fiorire, ed è la seconda. Così, quello che appare come resto del padre, come residua potenza del legame che si fa dall’alto, da fuori, da altrove, dal luogo dell’altro, dalla trascendenza del sorvolo, dal punto di vista dell’esteriorità, dal trono di una legge che piomba dalla distanza del nome e della lingua, proprio quello è il punto in cui pullulano più fittamente le promesse e anche le minacce degli infiniti altri modi di fare legame, che sono modi di fare legame da dentro, secondo una logica che non è di trascendenza, secondo il formicolio di un piano quasi completamente orizzontale, secondo il minuto sollevarsi dell’orizzontalità in un effetto di verticalità tutto interno all’orizzontalità.
È il punto in cui la legge del nome del padre oggi coabita, viene affiancata, talvolta viene sovrastata, talaltra viene semplicemente bypassata, da una legge che non dà nome, non nomina dall’alto, non raduna i fratelli da fuori, non calcola gli eventi dall’esterno, non si applica alle cose del mondo, ma piuttosto si implica nelle cose, si libera dagli eventi, si innalza da dentro i processi. Questa legge convoca le cose da dentro, secondo il logos silenzioso della scrittura dei moderni, che è la matematica e non l’ebraico o il greco o il latino o l’italiano. Questa legge la ritroviamo nel modo in cui gli eventi o i nostri stessi gesti quotidiani vengono convocati dalla logica minuziosa dei nostri algoritmi informatici, che fabbricano letteralmente l’ordine del mondo umano e non-umano. È un movimento che vediamo all’opera in quella cosa che si chiama logistica, questa vera e propria scientia scientiarum contemporanea, che sposta merci disegna lo spazio dall’interno di un reticolo di connessioni minute e locali e occasionali molto più che dal vertice di una visione globale, molto più che dall’unità di trascendenza del mappamondo o del planisfero. Fanno questa stessa cosa Amazon, oppure i cablaggi sul fondo degli oceani, la rapidità dei segnali luminosi delle fibre ottiche, gli sciami di eventi e di individui che le nostre app radunano col metodo del crowdsourcing. Ordinano da dentro. Innervano un certo campo procedendo da un’altezza zero. Vascolarizzano un piano d’immanenza.
Ecco, forse il motivo del successo del Lacan recalcatiano e più in generale del pensiero di Recalcati è nella capacità di suggerire, di mappare, di additare questo punto nel quale la logica del resto sconfina nella logica dell’invenzione, questo punto nel quale il resto di una legge di cui siamo orfani mostra nel suo rovescio il terreno di coltura di innumerevoli nuove forme di legiferazione, di costruzione del legame, di articolazione dell’arcipelago. Ecco perché, se Recalcati non dialoga con tutti, tutti però dialogano con Recalcati, tutte le ipotesi del contemporaneo trovano qualcosa di interessante nel suo discorso, tutte le discipline umanistiche e spesso non-umanistiche avvertono nel suo lavoro qualche risonanza del loro problema. Il resto del padre è il nome che è possibile dare dall’interno della nostra tradizione a quanto ancora non ha nome, a quanto non sarà più dell’ordine di un nome, a quanto non sarà più dell’ordine del padre. Il rovescio del resto del padre è il campo di quest’invenzione ampia e incompiuta, e se è vero che questi altri modi del logos sono tutt’altro che riducibili a un’immanenza piatta, fangosa, psicotica, è ancora da decidere se essi si limiteranno a realizzare la meraviglia di un nuovo regime dell’essere o si avviteranno in una nuova dittatura, non meno terribile solo perché ignara di padri, anonima e illocalizzabile, senza centro e senza volto.