Il chip di Elon Musk

17 Febbraio 2024

È di questi giorni la notizia che i laboratori di Elon Musk hanno realizzato e per la prima volta impiantato nel cervello di un essere umano, che secondo il magnate americano “si sta riprendendo ottimamente”, un chip capace di intercettare gli impulsi motori prodotti dalla sua corteccia cerebrale per poi trasmetterli a un dispositivo esterno che dà corso all’azione che il soggetto aveva semplicemente pensato di compiere.

Semplicemente. La questione è tutta qui. Il nome con cui è stato battezzato il chip, Telepathy, non dev’essere infatti liquidato come la brillante trovata di qualche mago del marketing. A meno di non premettere che il marketing è appunto l’arte di frugare nell’inconscio di un’epoca, andando a pizzicare i nervi più profondi che la annodano al suo passato e al suo futuro. Se scorriamo le notizie che annunciano l’ultimo ritrovato dei misteriosi laboratori del megamiliardario, quello che incontriamo è anzitutto il racconto della realizzazione del mito fondativo della modernità. Un’anima straniera innerva da una specie di distanza abissale un’estensione che non ha nulla a che fare con lei, e che tuttavia è perfettamente docile ai suoi impulsi. 

La cosa che pensa

Il grande architetto della modernità, René Descartes, un filosofo e matematico francese vissuto nella prima metà del Seicento, aveva battezzato quelle due regioni sommamente estranee ed enigmaticamente comunicanti res cogitans e res extensa

La genericità e l’impersonalità dei due termini non dovrebbe passare inosservata. Dove i suoi contemporanei vedevano donne e uomini, animali e piante e pietre, Descartes, che come ogni grande pensatore era anzitutto un grande visionario, vedeva solo queste due realtà generalissime, che indicava con parole vagamente cronenberghiane. “La cosa che pensa”. “La cosa che è estesa”. Descartes stava dicendo che ogni realtà nasce dalla composizione di una forza incorporea, eppure capace di muovere i corpi, e di un’estensione materiale, eppure capace di farsi attivare da un impulso immateriale. Tra i due piani non vedeva solo una distanza fisica, ma una distanza metafisica. Le due sostanze non sono solo situate in luoghi distinti, sono fatte di due generi d’essere inconfrontabili. Eppure si parlano. Si commuovono l’un l’altra. Si muovono l’un l’altra.

Il tetraplegico metafisico

Non stupisce allora che Telepathy nasca, o almeno venga raccontato dai suoi artefici, come il meritorio tentativo di restituire a certi soggetti gravemente menomati, per esempio tetraplegici, la possibilità di azionare a distanza, con un puro e semplice atto di pensiero, un qualsiasi dispositivo tecnologico esterno. Un cellulare, la tastiera di un computer, un mezzo di trasporto come potrebbe essere una sedia a rotelle motorizzata. In prospettiva, un paio di gambe o braccia robotiche, magari un intero corpo artificiale.

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Il fatto è che questo vero o presunto destinatario del chip, il tetraplegico, è anch’esso una figura essenzialmente filosofica. Il tetraplegico è il destinatario del progetto elonmuskiano perché ne è anzitutto, da qualche secolo a questa parte, il presupposto epistemologico e il mandante ideale. Questo soggetto strutturalmente privo di corpo ma capace di muovere un corpo strutturalmente immobile non è infatti l’utilizzatore finale di questo ritrovato miracoloso se non perché più nel profondo costituisce il paradigma di quest’idea di tecnologia. Il tetraplegico non è altro che la res cogitans di Descartes, e il computer che potrebbe parlare al suo posto, come le gambe che potrebbero camminare in sua vece, non sono altro che la sua res extensa. Il tetraplegico non è che la mente cartesiana, perfettamente sana, salvo che è malata di questa separatezza irreparabile, dinanzi a cui si distende un corpo infinitamente estraneo e servizievole, e malato di questa immediata efficienza.   

 

Il mio e il non mio

Non dobbiamo sottovalutare la sottigliezza di questa figura metafisica del tetraplegico. Non dobbiamo pensare, per esempio, che è nonostante la sua impotenza che esso raggiunge una qualche forma di efficacia, oppure che è nonostante la sua prigionia in un corpo immobile, che egli infine riesce a smuoverlo e a evadere dai suoi confini. La sua impotenza è infatti la forma specifica di potenza di cui egli dispone. La sua prigionia tra le mura di un corpo nemico è infatti ciò che fa di quel corpo il suo corpo, la sua proprietà, la sua risorsa, la distesa di materia che proprio perché inerte può essere mobilitata a capriccio. La sua malattia è la sua salute. La sua salute consiste in questa specifica patologia. Il confine tra fisiologia e fisiopatologia è in altri termini inoperante. Tutto il nostro tempo è incomprensibile se non alla luce di questo integrale sconfinamento della salute in una forma di regolatissima malattia, e della malattia in una certa forma di indistruttibile salute.

Una volta aperto lo iato di questo dualismo fondamentale tra mente e materia, l’universo non smette di precipitarci dentro a grandi passi. Non solo un tetraplegico, ma un qualsiasi soggetto in perfetta salute potrà azionare un qualsiasi dispositivo a distanza, facendone un’estensione del suo corpo. Ma questo significa che ogni cosa, ovunque, a qualsiasi distanza, centimetri o chilometri o decine di migliaia di chilometri, diventerà parte del suo corpo, varrà come una parcella della sua intimità. Il suo corpo sarà il mondo. Tutto il mondo gli sarà perfettamente estraneo. Lo stesso dispositivo potrebbe consentire a chiunque di accedere alla più intima interiorità di chi lo portasse impiantato nella corteccia, basterebbe risalire controcorrente il flusso delle informazioni fino a sorprendere in presa diretta la nascita di quegli atti e di quei pensieri. Ma a quel punto, in nessun modo potremmo dire che quegli atti e quei pensieri sarebbero sensatamente qualificabili come suoi, che quegli affetti o quegli impulsi apparterrebbero a quel soggetto che ha avuto la ventura di farsi impiantare Telepathy. E infatti, in che senso i miei pensieri sono miei, se non nel senso che vengono talvolta catturati da un ulteriore pensiero che dice che sono suoi?

Elon Musk, il comunista 

È buffo constatare che è un magnate naturalizzato americano, ma prima di cittadinanza canadese, ma prima ancora sudafricano di nascita, dunque perfettamente coestensivo alla globalizzazione economica e scientifica del nostro tempo, a incamminarsi sulla strada di questo strano comunismo dei corpi e degli affetti. Strano comunismo che naturalmente nasconde a mala pena la minaccia che sempre grava sul bene comune, quella della sua privatizzazione più radicale e capillare. 

Ed è difficile, per altro verso, sperare di fermare questo movimento gigantesco, che con tutta la forza di risorse miliardarie e di infiniti concatenamenti tra pratiche diversissime eppure convergenti sembra orientato a realizzare senza riserve questo divenire comune dei corpi e dei pensieri. Potremo certo obiettare che questi pensieri che sto esponendo sono proprio i miei, e voglio che rimangano tali, o che queste mani che digitano sulla tastiera sono proprio le mie, e che dovremo pur difendere questo confine tra il mio e il non mio. Ma persino la grammatica di queste obiezioni è cartesiana e non fa che ripercorrere la stessa direzione che suppone di contestare. Quel che chiamo mio è semplicemente quel che sta di fronte a un certo atto come l’oggetto di quell’atto. Siccome c’è un atto, qualcosa si dispone nella posizione della res extensa, e sempre quel qualcosa divenuto oggetto riqualifica quell’atto iniziale come res cogitans, e le dà un nome e un proprietario. Chi glie l’ha dato, resta senza nome e senza volto.

Il fatto è che Descartes non ha affatto inventato questo dualismo fondamentale, di cui Telepathy è il frutto più fedele. Ha semmai pensato questa dualizzazione da sempre in cammino e l’ha messa a frutto in una quantità di direzioni che siamo lontani dall’aver esplorato e tanto meno esaurito. Si tratta forse, più che di obiettare qualcosa a Elon Musk o di imbrigliare goffamente le vie che la tecnologia non appena rende possibili rende anche inaggirabili, con buona pace dei nostri tardivi legislatori, di ripensare Descartes e di rivisitare il suo latino austero. È la lingua nella quale sono stati cesellati il segreto del nostro tempo e la direzione in cui sembra procedere implacabilmente la nostra esperienza. Racchiude ancora infiniti segreti, cioè infiniti usi alternativi di quell’unico destino che esso va sillabando. Si tratta, com’è stato detto tante volte, ma appunto i pensieri sono di tutti e di nessuno, di chiederci ancora, da capo, che fare di quella modernità che sembrava alle nostre spalle mentre ci attende all’orizzonte. 

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