Muffe, fibre, velluti

3 Settembre 2024

Proviamo a scommettere per un istante che l’arte del tessere, la fabbricazione di fili e cordami, la tecnica dell’intreccio di fibre, giunchi, ramoscelli per dar vita a stoffe, cesti, graticci, palizzate, non siano solo una delle tante invenzioni umane, ma qualcosa come un paradigma. Un grande paradigma tecnologico, anzi, una delle vie maggiori lungo le quali pensare la tecnica oggi. Che è quanto dire pensare l’umanità oggi, l’etica, la politica. 

Quando Martin Heidegger, uno dei massimi pensatori del Novecento, avverte che la tecnica è un enorme impensato in filosofia, elabora qualcosa come un paradigma di ciò che intende per tecnica, di ciò che gli appare essenziale negli artefatti umani e nell’arte umana del costruire. Sceglie insomma una pratica che fa valere come esemplare di ogni altra, e la sua attenzione cade sulla fabbricazione dei vasi. Meglio, sceglie qualcosa come lo schema essenziale del vaso, della brocca, dell’anfora. Lo interroga in una serie di celebri saggi, come La questione della tecnica, Costruire abitare pensare, La cosa, tutti raccolti nei Saggi e discorsi, sotto il profilo del rapporto tra il pieno e il vuoto, tra il contenente e il contenuto, tra il nulla e l’ente. Vedere il vuoto, vedere la possibilità del vuoto costituirebbe il salto tecnico per eccellenza, la tecnica segreta di cui ogni tecnica ulteriore sarebbe conseguenza. Vedere nella massa, nella densità della materia, nel blocco compatto dell’essere la possibilità del vuoto e dello svuotamento, del nulla che può contenere, dell’assenza che può circoscrivere l’ente, ecco la soglia che ci assegnerebbe al campo dell'umano, alla facoltà del pensare, all’esperienza articolata di ciò che è.

L'ipotesi di Heidegger ha avuto così tanta forza, evidenza, successo, che generazioni di pensatori si sono mosse nel suo solco. Come spesso accade, il segno più sicuro dell’influenza di un’idea sta nel fatto che nessuno si chieda più da dove viene, come è nata, e a detrimento di quali idee rivali, e con quali conseguenze una volta dismesse le possibili alternative. Si sarebbero potute scegliere altre tecniche su cui edificare una riflessione complessiva sulla tecnica stessa? Che filosofie della tecnologia ne sarebbero nate? E che antropologie, che immagini dell’umano, e che etiche e che politiche, che idee e che pratiche del legame tra gli esseri umani e non solo umani? 

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Sidival Fila, Senza Titolo, 2020.

È arrivato da qualche settimana in libreria un volume che aspettavo senza sapere di aspettarlo, arrovellandomi da tempo sulle domande di cui sopra. Si intitola Toccare l’intoccabile (Castelvecchi, Roma 2024). Lo ha scritto una psicoanalista, Cristiana Fanelli, accostando un ampio e ricco saggio introduttivo a una serie di conversazioni con Sidival Fila, un artista brasiliano di nascita residente da molti anni in Italia. La sua arte, per una strana coincidenza che la psicoanalista non può non leggere come una specie di destino del nome, ha a che fare da cima a fondo con i filati, le stoffe, i tessuti. Ha a che fare con le tante operazioni del tessere, del cucire, del rammendare, del rattoppare. E con una varietà di usi e riusi di tessuti antichi e moderni, ricche stoffe recuperate da abiti religiosi del Settecento, sacchi di viveri del piano Marshall, coperte provenienti dai campi di sterminio nazisti. E poi queste opere sono popolate da ogni sorta di fili, cordami, cordicelle con cui l'artista mette in tensione quelle stoffe grazie ad appositi telai. Talvolta le taglia, le strappa, le lacera, le smargina, e poi le ricuce, le rammenda con un merletto finissimo, uno zigzag di fili tra i lembi del taglio o dello strappo. Decine di migliaia di punti di sutura che tessono nuovamente quel tessuto sfidato dalle vicende della vita della storia. 

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La messa in tensione, la produzione di strappi, l’introduzione di cuciture non sono del resto le sole operazioni che Sidival introduce in queste stoffe che sono non tanto il supporto della sua arte, come per un pittore quale lui stesso è stato, quanto il luogo della sua arte. Le espone alla formazione di macchie e di muffe, le colora e le decolora, le abbandona all’umidità e alle intemperie, alla proliferazione dei batteri. L’evento imponderabile di questi fattori introduce nei tessuti alterazioni che sfuggono almeno in parte al controllo dell'artista e che ampliano il dominio dell’artistico includendovi l’efficacia di innumerevoli altri fattori. È pur vero che è ancora l’artista a stabilire quando fermare quel processo, quanto includere di quel processo incalcolabile, fino a che punto sopportare le conseguenze imponderabili di quell’esposizione. Che significa del resto sopportare?

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Frammenti di corda, Ohalo II (Israele), 17.000 a.C. (da D. Navel et Al., 19.000 Years-Old Twisted Fibers from Ohalo II, in "Current Anthropology", 35, 4, 1994.

È interessante che a incontrare l’arte di Sidival Fila sia una psicoanalista di rigorosa formazione lacaniana come Cristiana Fanelli, il cui paradigma di riferimento appartiene interamente a quella logica del vuoto poco fa evocata. Lacan è infatti interamente heideggeriano quando dichiara in uno dei suoi seminari più ricchi e decisivi, L’etica della psicoanalisi, che il vaso è il significante di ogni significante. Il vuoto o lo svuotamento sarebbero il motore di ogni significazione, e in generale gli operatori capaci di incanalare in una direzione articolata una specie di originaria materia vivente che Lacan immagina così brulicante e proliferante da costituire il paradigma di una vera e propria follia fondamentale dell’organico. Tutta una logica, tutta un’etica, tutta una politica conseguono a questa opzione per il vaso come significante del significante. Logos, logica, linguaggio, e poi legge, legame, legamento, e ancora rapporto, misura e commisurazione, conflitto e cooperazione, regolazione del giusto, giustizia e giustificazione, tutto passerebbe dalla porta stretta dello svuotamento, dell’assenza, del nulla. 

E invece. Invece Cristiana Fanelli si imbatte un giorno in un’arte che non ha nulla a che fare con la dialettica del pieno del vuoto, della materia come negatività e della forma come negazione di quella negatività. Iniziare a osservare, maneggiare queste opere, interrogare il loro autore. Conversa con lui per settimane e mesi. La trascrizione di queste conversazioni costituiscono il grosso del libro di cui parliamo, peraltro riccamente illustrato dalle splendide fotografie di Mario Coppola. È interessante, questo incontro, perché nulla o quasi nulla, nell’opera di Sidival Fila, funziona secondo il paradigma lacaniano e heideggeriano del vaso o della brocca. E se è vero che esistono degli antecedenti evidentemente legati alla logica del taglio, del vuoto, della cesura, rispetto all'uso che Sidival fa della stoffa, del tessuto, degli stracci, è sufficiente una rapida occhiata a questi autori, che lui stesso indica come maestri, per capire che si tratta, in realtà, di maestri molto parziali. Lucio Fontana taglia le sue tele con un gesto tanto noto da non dover essere richiamato, se non per ricordare che quel gesto introduce un vuoto, taglia una superficie, innerva la materia con una sorta di attiva negatività. In questo senso Fontana è un heideggeriano, è un novecentesco. I sacchi di Alberto Burri sono bucati, scavati da vuoti e lacerazioni, segnati da ferite talvolta sanguinanti. Burri arriva all’apoteosi dello svuotamento, alla bruciatura che apre con la violenza della fiamma viva la superficie plastica delle ultime opere. La sua estrema dialettica del tessuto e della lacuna, del buco, della scarnificazione è ancora novecentista. Giganteggia perché in essa giganteggia il nulla.

Il terzo maestro nel cui segno Sidival iscrive la sua pratica artistica è Piero Manzoni. È l’unico antecedente da lui ricordato, insieme a Maria Lai, la cui pertinenza mi sembra indubbia, rispetto alla sua stessa opera. Gli Achrome di Manzoni sono fatti di tele bianche nella cui superficie piana Manzoni introduce piegature, arricciature, avvallamenti, insenature, sprofondamenti. Non è evidente che abbiamo messo piede in tutt’altro mondo? 

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Piero Manzoni, Achrome, 1958-59, Collezione privata.

Gli Achrome di Manzoni mostrano, per così dire allo stato puro, un’arte e una tecnica che senza essere meno capaci e meno determinate nell’articolare, nel distribuire, nell’organizzare, nell’incarnare il fabbricarsi della differenza, nell’articolare il bianco monocromo in una regolarità ordinata di grigi e ombre, tuttavia ottengono questi effetti tramite una logica di tutt’altro genere rispetto a quella di Fontana o Burri. Il segreto degli Achrome di Manzoni è la piega. La differenza di cui essi ci illustrano l’operatività è la differenza che si fa nella continuità anziché nella discontinuità. È l'articolazione che si fa non tramite taglio ma tramite declinazione. La legge, la logica, la significazione che mostrano all’opera non procede tramite cesure, decisioni, negazioni, svuotamenti, ma tramite inflessioni, prolungamenti, prosecuzioni. È una legge o una logica dell’inclinazione, direbbe Adriana Cavarero, che aveva dedicato a un’idea di questo genere un libro, intitolato Inclinazioni, che definirei seminale, non fosse che nasce da una rara sensibilità femminile e femminista.

Sidival Fila muove in direzione analoga. È vero, solo in certi casi piega i suoi tessuti, ne fa sprofondare la superficie producendo qualcosa come delle cavità, delle insenature, dei golfi, degli ingrottamenti. Cristiana Fanelli, fedele al suo sguardo clinico, ricollega questi gesti di Sidival all’impressione depositata in lui bambino da certi paesaggi delle sue terre d’origine. Paesaggi scavati dall’acqua, segnati da maestose pieghe aperte nella terra. Del resto, in un'altra pagina di grande dolcezza e insieme di notevole ferocia, l’artista suggerisce un collegamento tra quest’arte dei fili, dei tessuti, delle tessiture tese allo spasmo, delle linee torte e ritorte, con l’incanto provato da bambino di fronte ai capelli della madre, che si divertiva ad accarezzare, ad attorcigliare, e poi a tirare con tutta la forza, non si sa con quanta felicità dell’amata vittima. Ma oltre alla piega, nella pratica artistica di Sidival, decisiva è la presenza di tutto lo spettro delle gestualità che riporterei a quell’altra logica della piega e della piegatura che è la logica della tessitura, dell’intreccio, dell’inflessione delle fibre l’una nell’altra, e poi della cucitura e del ricamo già ricordati, del rammendo e del rattoppo. È in questo quadro che l’opera complessiva raggiunge una sua leggibilità. L’opera di Sidival è un’enciclopedia delle arti e delle tecniche e delle pratiche del continuum

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Sidival Fila, Metafora bianca 135, 2018.

Così questo libro ha il merito di farci incontrare, oltre all'opera quasi segreta di un grande artista, una grande arte quasi segreta dell’umanità. Arte inaggirabile, arte che infiltra e articola infinite altre arti. Arte fin troppo ovvia e familiare, dato che ciascuno di noi si veste di stoffa, ha tende e tappeti in casa, usa corde e cordicelle per assicurare oggetti ad altri oggetti, chiudere con una zip o un legaccio i due lembi di una borsa, stringere i capelli in una coda o in una crocchia o in una treccia. Arte raramente messa al centro, come tale, di una pratica artistica, e quasi mai di una filosofia dell'arte, o di una riflessione sulle pratiche, o di un pensiero delle tecniche. 

Perché questa trascuratezza, salvo eccezioni talvolta straordinarie come quella di André Leroi-Gourhan, che in un libro meraviglioso, L’uomo e la materia, oppone le tecniche dell’intreccio e della tessitura alle tecniche del taglio, della frattura e della scheggiatura, improntate a quello che il paleoantropologo chiama il rigore della percussione, e si direbbe non estranee alla logica heideggeriana della brocca e del vuoto organizzatore? Forse perché troppo evidenti nel quotidiano, dicevo. Forse perché troppo spesso travolte dal tempo e dalla deperibilità del materiale tessile. Il paleoantropologo ne trova rare tracce, rispetto all’infinita quantità di cocci, pezzi di vasellame, punte di selce, pietre lavorate. Tutta una storia delle tecnologie umane è andata costruendosi intorno a certi presunti archetipi, che erano semplicemente i reperti più resistenti e più numerosi. 

Solo di recente un sito come quello di Ohalo II, in Israele, ha offerto ai ricercatori una quantità significativa reperti tessili risalenti all’ultima glaciazione. Forse invece per una specie di umiltà logica, di discrezione concettuale dei fili, delle corde, dei tessuti, delle loro arti, dei loro artefici e delle loro artefici. Non si tratta, qui, di dare forma alla materia, di tagliare, di frangere, di scavare, di misurarsi con una massa, di domarne la densità dell’essere svuotandola in una specie di sublimata formalizzazione. Tutte operazioni, per inciso, che la psicoanalisi lacaniana potrebbe ascrivere facilmente al dominio di quella cosa che Lacan chiamava il fallo, salvo indicare l’al di là di questa dimensione del significare come godimento illimitato e non come un’altra pratica, come felice e mitica caduta nell’aorgico e non come un altro modo del fare.

Che cosa significa filare, che cosa significa tessere? E che cosa non significa, che cosa non facciamo, quando filiamo, quando tessiamo? Tante cose, evidentemente, ma alcune meritano di essere ricordate prima di altre. Filare, per esempio, non significa dare forma a una materia, ma dare un nuovo statuto materiale a una materialità precedente. O se si preferisce, dare forma ulteriore a una formazione già esistente. Il cotone è tutt'altro che informe, quando è una piccola nuvola bianca attaccata in cima alla pianta di cui è l’infiorescenza. Si tratta di distendere quella nuvola, di prolungare una sua qualità presente, di dare continuità a quella sua virtualità. Chi tesse quel filato, a sua volta, non dà forma di intreccio a una materia grezza, informe, inorganizzata, ma riorganizza una precedente riorganizzazione, riformula quella che è già una formula, una costruzione, un’architettura. Insomma, chi fila e chi tesse non svuota, e se è per questo neppure riempie, ma piega l’una attorno all'altra, l'una in base al senso dell'altra, due o più fibre, due o più direzioni, due o più linee di forza, due o più organismi. Non taglia, non afferma qualcosa negando l'alterità di quel qualcosa, non stabilisce che A è A perché non è non-A, semmai compone, rende compossibili, accoglie nella coesistenza, tiene insieme in una varietà di tensioni, e anche in un certo senso sopporta. Chi taglia sopporta poco, di solito. Chi nega sopporta poco, di solito.

Questa cosa del sopportare, Sidival Fila la ripete più volte e Cristiana Fanelli la sottolinea a sua volta a più riprese. Chi fila e chi tesse sopporta, cioè si lascia abitare da una certa tensione, e allo stesso modo consegna il suo manufatto a quella tensione che non si risolve ma anzi si rende operativa, corre attraverso il tessuto, fa in modo che il tessuto sia quella corsa, quella tensione, quell’eterogeneità portata a un passo dall’omogeneo senza farla precipitare nell’omogeneo. E poi, l’artista della tessitura, il tecnico degli intrecci e degli annodamenti, e in fondo tutta quell’umanità che ha vissuto e pensato a partire dalle stoffe, dalle corde, dagli intrecci, sopportano nel senso che non si chiamano fuori, non guardano da fuori, non immaginano di fronte a sé un mondo di oggetti e di materie morte, non staccano da sé le cose del mondo, non oppongono a sé gli altri esseri. Sopportano l’intreccio, sopportano di stare nell'intreccio come una delle sue tante fibre. Sopportano di stare nel mondo come una tensione operante anziché come un soggetto. Sopportano che l’esito delle loro operazioni non sia quello del loro progetto, ma quello di un’aberrazione del loro progetto, quello di una linea che devia senza sosta secondo l’inflessione che innumerevoli altre linee le hanno impresso, e anche suggerito. Sopportano che il mondo sia il loro suggeritore. 

Forse non è un caso, nonostante tutto, che quest’arte di tessere, di farsi filo tra altri fili, oggetto tra gli oggetti, sia stata incontrata da una psicoanalista che si ispira a Lacan. Nell’estremo periodo del suo lavoro Lacan fa due cose nuove e dirompenti. Definisce lo psicoanalista come qualcuno capace di stare e di agire nella strana e imprevista posizione di un oggetto. Passa il tempo a modellare e rimodellare le sue vecchie teorie entro un sistema di scrittura, anzi un sistema di azioni, movimenti, permutazioni, che è quasi un esercizio spirituale o una coreografia sperimentale, fatta di corde, cordicelle, strisce, stringhe, e nodi tra quelle cordicelle, e annodamenti e snodamenti continuamente avvicendati, fatti, disfatti e rifatti ancora. E poi, non è un caso che quest’arte di farsi cosa tra le cose e di agire come un oggetto anziché come un soggetto abbia un altro luogo di emersione emblematica in quella linea aberrante, in quella declinazione radicale del Cristianesimo che è quella francescana. Linea a cui Sidival Fila appartiene non solo, metaforicamente, come artista dei tessuti, della povertà delle tele sfilacciate e dei sacchi strappati, ma anche, letteralmente, come portatore di uno di quei sacchi, che è il suo saio di frate francescano nel convento romano di San Bonaventura al Palatino. 

In copertina, Sidival Fila, Senza Titolo, 2020.

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