Soggettivazione interminabile / Recalcati, conversione all'infanzia

10 Marzo 2021

Conosciamo tutti il ritornello. La nostra è una società di eterni adolescenti, addirittura di eterni bambini. L’età adulta resta confinata all’orizzonte, inafferrabile e ormai indesiderabile. Peter Pan è il santo patrono di nuove generazioni di sdraiati. 

 

Naturalmente chi parla degli sdraiati immagina di starsene in piedi, ben dritto, in mezzo a un paesaggio molle, nebbioso, orizzontale. Dimostra una certa fierezza per questa sua stazione eretta. Eppure non è anche questo sogno di essere grandi e di grandezza, un sogno da bambini o forse il sogno da bambini per eccellenza?

 

Massimo Recalcati ha pubblicato due libri, recentemente, contemporaneamente. Sono due libri molto diversi ma molto solidali. Si saldano intorno al tema dell’infanzia, appunto. Consentono di leggerlo in tutt’altro modo. Disegnano una specie di filosofia dell’infanzia perenne, di psicoanalisi dell’infanzia perenne. E poi si saldano intorno al tema della conversione, intorno alla parola conversione. 

 

Ora, si sa che l’infanzia è materia da psicoanalisti, si sa che Freud ne fa l’età decisiva di quello che sarà una vita. Certi primi incontri lasciano il segno, il fantasma di un soggetto prende forma per non smettere mai più di visitare quella vita futura. Meno chiaro è che cosa abbia a che fare la conversione con l’infanzia. A meno di non pensare che la conversione sia sempre il passaggio da una vita vecchia a una vita nuova, il gesto con cui qualcuno tenta di fare qualcosa di nuovo della propria vita vecchia. Allora anche la conversione è materia da psicoanalisti, dopo essere stata, per secoli, materia da teologi. Anche questo passaggio di mano è interessante. Ci torneremo. 

 

Partiamo dal libro dedicato che Massimo Recalcati dedica a Sartre. Ha un titolo che è un manifesto. Ritorno a Jean-Paul Sartre. Chi conosce Recalcati sa che il suo lavoro di psicoanalista e di pensatore si muove nel solco dell’insegnamento di Jacques Lacan, e subito pensa alla dichiarazione altrettanto programmatica di Lacan. Si tratterebbe di tornare a Freud, tutto il lavoro di Lacan sarebbe un ritorno a quell’esigenza in qualche modo sviata, perduta per strada, di cui Freud era stato il primo portavoce.

 

Recalcati invece propone di tornare a Sartre. Non è senza nesso col suo rapporto con Lacan, col suo modo di riprendere in mano l’insegnamento lacaniano. Il sottotitolo del ritorno a Sartre di Recalcati suona “Esistenza, infanzia, desiderio”. E 

dei tre lemmi, “infanzia” è senz’altro quello decisivo. Il Sartre di Recalcati è il pensatore dell’infanzia, è il filosofo che per primo assegna dignità filosofica all’età dell’infanzia, e anzi assegna all’età dell’infanzia un compito decisivo. 

 

È Sartre a dire che l’infanzia è un’età insormontabile. Sartre sembra vicinissimo a Freud, qui. La psicoanalisi in fondo ha assegnato all’infanzia una posizione altrettanto decisiva. Certi primi incontri lasciano il segno. Certe tracce si imprimono indelebilmente. Certi percorsi si disegnano e si dispongono più o meno silenziosamente a veder passare per quelle strade tutta una vita a venire. Ma è in un altro senso che Sartre pensa che l’infanzia sia un’età decisiva. Su questo punto, Sartre formula una specie di mantra, chiarissimo eppure enigmatico. Noi siamo, dice, ciò che facciamo di ciò che gli altri hanno fatto di noi. 

 

È una frase che attraversa i testi sartriani in maniera martellante. Ma come intendere questo nodo? Dobbiamo fare attenzione, intanto, a non intenderlo in maniera dialettica. Sartre sta dicendo che noi facciamo continuamente qualcosa di ciò che gli altri hanno fatto di noi. Il che in fondo significa, e guardare questo fondo non è semplice, anzi richiede di smantellare tante abitudini, che gli altri non smettono mai di star facendo ciò che hanno fatto di noi. Il passato non smette mai di stare accadendo. È per questo che il presente non smette mai di riprenderlo, di farne il proprio orizzonte, il proprio compito. L’infanzia è un compito, per Sartre. È il contrario di Freud. 

 

 

A una logica del colpo e del contraccolpo, della traccia che è stata tracciata e della rilettura che ora avviene di quella traccia, dobbiamo sostituire un’altra logica, per la quale la parola traccia diventa insufficiente, a meno di profondissimi rimaneggiamenti, come per esempio quelli a cui la sottopone Jacques Derrida. Al posto del trauma, segno puntiforme su una pagina bianca, incisione su una superficie immobile, dobbiamo immaginare una linea, uno sviluppo, un'insistenza che non cessa mai di insistere. Un seme, magari cattivo, alla Nick Cave, di cui però è interminabile lo sbocciare, insistente e sempre variato, sempre variato ma sempre insistente, inconfondibile. Ogni nuovo incontro è un incontro con un’altra linea, con un altro seme che a sua volta germoglia lentissimamente e incessantemente. È in quel nuovo incontro che il vecchio incontro non smette di accadere. È nel segno di quest’altro seme che il primo seme non smette mai di sbocciare. Due linee che non smettono mai di tracciarsi, e che a un certo punto iniziano a scriversi l’una sull’altra, l’una nell’altra, l’una grazie all’altra. Non distinguiamo più il momento della scrittura e il momento della lettura. Scrivere è sempre un riscrivere e anche leggere è sempre uno scrivere e un riscrivere. 

 

Infanzia, in altri termini, non è un tempo uno, in cui qualcosa è stato scritto, e a fronte dell’infanzia non c’è un tempo due, in cui qualcosa viene letto in ciò che è stato scritto. Infanzia è il nome dell’incrocio. Infanzia è un tempo che è un po' più di un tempo uno benché un po’ meno di un tempo due. Infanzia è il tempo che sta a metà tra ciò che gli altri hanno fatto di noi e ciò che noi facciamo di ciò che gli altri hanno fatto di noi. Infanzia è il punto di indiscernibilità tra i due versanti, non uno dei due versanti. Il nostro sguardo più o meno dialettico solidifica, identifica, reifica, e finisce per credere che ci sia davvero qualcosa che gli altri hanno fatto di noi, senza che noi ci fossimo, e qualcosa che noi facciamo di ciò che gli altri hanno fatto di noi, senza che gli altri ci siano. Invece tutto ciò che accade, accade nel mezzo. Ogni evento è un evento intermedio. 

 

Veniamo all’altro libro di cui stiamo parlando, Convertire la pulsione. Che cosa c’entra la conversione con tutto questo? Potremmo dire che in quel “fare qualcosa di ciò che gli altri hanno fatto di noi”, non siamo mai noi a farlo, è sempre lui a farsi, per conto suo, in nostra assenza. Noi prendiamo atto di quel farsi, dopo che si è fatto. Chiamiamo noi quel che si è fatto, una volta che si è fatto. Il farsi è fuori di noi, o, almeno, fuori dalla presa di quel noi, non in mano nostra. 

 

È per questo che i teologi parlavano di conversione, quando pensavano questo movimento attraverso il quale una vita nuova riprende una vita vecchia, un nuovo noi riprende in mano un vecchio noi. Ed è per questo che i teologi mettevano questo movimento sul conto di quella cosa che chiamavano grazia. I teologi avevano capito. Sant’Agostino, su tutti, aveva capito. Dovremmo riaprire le Confessioni, per riflettere su questo punto. Il processo di soggettivazione è asoggettivo. Non è il soggetto, a far qualcosa di ciò che gli altri hanno fatto di lui. Il soggetto è ciò che resta sul campo, dopo che altri hanno fatto qualcosa di ciò che altri ancora avranno fatto di ciò che quei primi altri avevano fatto. Il soggetto è l’incrocio in cui si sedimentano due linee, o se è per questo, più linee asoggettive.

 

Questo ricorso al termine teologico di conversione è di per sé significativo. Forse è, ancor più che significativo, propriamente sintomatico. Mettere la soluzione del problema sul conto dell’uomo, del soggetto, del noi che facciamo questo oppure quello, del noi che riprende in mano quello che altri hanno fatto, tutto questo non basta più. La questione di Sartre pensatore dell’infanzia insormontabile mette in luce un altro Sartre, un Sartre necessariamente antiumanista, o come diceva il maestro di Recalcati in ambito filosofico, Franco Fergnani, un Sartre necessariamente disumanista.  

 

È strano, perché da un lato Recalcati denuncia nel suo libro sartriano la liquidazione di Sartre in quanto pensatore umanista da parte di tutta una stagione di pensiero successiva. Ma intanto che Recalcati riafferma l’umanismo di Sartre, si trova a far dipendere la fabbricazione continua dell'umano da un dispositivo più che umano o tutt’altro che umano. Cioè, appunto, si trova a far dipendere la fabbricazione continua dell’umano dal dispositivo della grazia. Una conversione è, in termini teologici, un frutto della grazia, un dono più che umano che fa da supporto al farsi dell’umano. La psicoanalisi diventa un preparare il terreno alla conversione, cioè all’evento incalcolabile, all’opera grigia e incalcolabile del divenire. Mai termine così maestoso aveva risuonato di così feconda debolezza. Grazia è qualcosa di così debole che non dà alcuna indicazione di via. Dice che qualcosa è accaduto, ma non dice che cosa sia accaduto, tanto meno che cosa dobbiamo sperare da quell’accadere. Chi lo dice, semplicemente bestemmia.  

 

Il nostro tempo è un tempo adatto a pensare queste cose. Il nostro tempo è il tempo di un’infanzia perenne dei soggetti, è il tempo che fabbrica e mette al mondo soggetti che non crescono mai, che non escono mai dall’infanzia, che non abbandonano mai le incertezze dell’adolescenza, che non congedano mai le esitazioni dell’informe che cerca a tentoni qualche forma. 

 

Sarebbe bello, però, se riuscissimo a smettere di dire queste cose con spirito giudicante, con acidità da vecchi. Il nostro tempo è il tempo di un’infanzia perenne, dunque la filosofia che viene è una filosofia dell’infanzia, dunque la psicoanalisi che viene è una psicoanalisi della soggettivazione interminabile, ed entrambe sono un pensiero dell’umano e una pratica dell’umano che muove dall’impossibilità di pensare che esista qualcosa come il soggetto, che qualcosa come un soggetto esista anzitutto, in prima battuta. Solo linee di soggettivazioni, solo incroci di linee di soggettivazioni, che una volta avvenuti depositano un soggetto che si intesta quelle linee, quegli incroci. 

 

Sarebbe bello, in altri termini, avere la forza di dire affermativamente ciò che ci viene da dire tuttora negativamente. Sarebbe bello assumere come sostanza del presente ciò che tendiamo a rigettare in nome di una nostalgia. Sarebbe bello accogliere che il soggetto è sempre infante, che il soggetto è sempre anzitutto un processo di soggettivazione. Cioè una larva, una larva che non attende compimento, che non diventerà affatto farfalla, anche se sa bene che diventerà qualcosa, e per l’esattezza qualcosa d’altro, dato che divenire è sempre divenire qualcosa d’altro. Che cosa, d’altro? Un’altra larva, potremmo dire intanto così. Perché solo dicendo così la parola grazia non diventa bestemmia. 

 

M. Recalcati, Convertire la pulsione, Pagina Otto, Trento 2021.

M. Recalcati, Ritorno a Jean-Paul Sartre, Einaudi, Torino 2021.

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