Michelangelo Pistoletto. Vetrina

1 Febbraio 2013

Pubblichiamo un estratto da Geopolitiche dell'arte di Michele Dantini

 

Il volume sarà presentato al MACRO di Roma giovedì 7 febbraio alle 18.30. Con l'autore interverranno Stefano Chiodi, Francesca Coin, Andrea Cortellessa

 

Il biennio 1965-1966 è cruciale per Pistoletto, che si distacca dalla produzione dei Quadri specchianti e avvia la serie degli Oggetti in meno. Sin dal titolo questi si propongono di essere non opere d’arte, dunque “oggetti” a pieno titolo, ma esperimenti ironici e eclettici volti piuttosto a saggiare una tecnica o una stile per sbarazzarsene subito dopo. “A differenza dei Quadri specchianti”, afferma Pistoletto nel 1966, “le mie cose di oggi non rappresentano,... non vogliono essere costruzioni o fabbricazioni di nuove idee,... non vogliono essere oggetti che mi rappresentino, da imporre e per impormi agli altri. Sono oggetti attraverso i quali io mi libero di qualcosa - non costruzioni ma liberazioni”.

 

L’orientamento è al gioco, al pastiche, alla citazione irriverente: prevale un atteggiamento di sorridente incredulità riguardo a un qualsiasi “stile” (o “tecnica”). Pistoletto appare collocarsi nel punto di intersezione tra New Dada (per il ricorso al ready made) e Pop (per la gaia insolenza). Tra gli Oggetti in meno la Vetrina è particolarmente significativa per l’ironia con cui si riferisce all’arte del recente passato.

 

 

Una teca accoglie la tuta da lavoro dell’artista, gli abiti del pittore. Sono coperti di macchie di colore e riconducono in maniera vistosa, quasi enfatica, all’attività del dipingere. Appaiono dismessi, assieme agli stivaletti. L’artista in questione, non necessariamente Pistoletto, sembra esserseli tolti di dosso per chiuderli nella teca proprio ora. Li ha appesi al chiodo come a comunicare il proposito di smetterla con la pittura.

 

Osserviamo meglio la tuta: ingombra di tracce di colore e sporca di pigmento, rimanda a stili tormentati e concitatamente gestuali, in cui l’artista, immaginiamo, lotta contro la tela per finirla e venire a capo delle sue esigenze espressive. Non dobbiamo credere che la tuta esposta sia proprio quella di Pistoletto: siamo di fronte a un messa in scena. Pistoletto evoca un particolare tipo di pittore, ne crea il personaggio per meglio prenderne le distanze. Nel 1949 la rivista americana Life dedica un ampio servizio a Pollock, supportandone la consacrazione a livello nazionale e internazionale. Pollock è ritratto negli abiti da lavoro e posa aggressivamente davanti a una composizione tra le più recenti. Nell’occasione indossa abiti in jeans vistosamente macchiati di colore. Nel servizio fotografico dedicatogli dal fotografo tedesco Hans Namuth nell’estate del 1950 indossa invece una tuta blu da operaio, simile a quella che troviamo in Vetrina.

 

 

Pistoletto conosce le immagini che hanno accompagnato l’affermazione di Pollock e si riferisce ad esse. Estrae con acutezza il particolare della tuta perché nell’abito si raccolgono tratti importanti e perfino drammatici della personalità dell’artista americano: l’orgoglio di outsider, la concentrazione nel lavoro, la distanza sociale e culturale dalle cerchie della ricchezza industriale e finanziaria che pure lo ha adottato e corteggiato come artista di grande talento. Pistoletto non è interessato alle implicazioni sociali dell’attività di Pollock. Intende invece riferirsi, attraverso le vistose macchie di colore disseminate sulla tuta di Vetrina, alla tecnica di Pollock, e soprattutto alla psicologia del pittore americano: una psicologia presunta, è evidente, assemblata dai luoghi comuni che circolano sui media e semplificata sino a farne il modello di un’intera epoca. Prende le distanze dalle retoriche tragico-esistenziali che caratterizzano gli indirizzi espressionistico-astratti e informali, e si fa beffe di un modo di dipingere oscuramente caotico, candido e eroico al tempo stesso, che attribuisce valori rituali a “inconscio” e “immediatezza”. Dipingere un quadro, afferma, non è la fine del mondo, né muta le sorti della storia. Sceglie per sé un tipo di attività ludica e razionale, antiromantica, che preservi dagli eccessi di inquietudine. Assicura con baldanza da baby boomer: il “tragico” è espunto dall’arte.

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