Cosmopolitismo e diversità culturale
Terzo appuntamento con le "Bolle di sapone" di Michele Dantini, serie dedicata all'arte italiana contemporanea nel suo molteplice intreccio con società e politica. I primi due interventi hanno riguardato Giulio Paolini e Marisa Merz. Adesso è la volta di Francesco Vezzoli.
La querelle sullo smontaggio e rimontaggio della vecchia cappella gentilizia della Madonna del Carmine di Montegiordano, Cosenza, ha destato curiosità chiassose e voyeuristiche, nient’altro: eppure non è consueto che l’intervento di un artista finisca per interessare le cronache giudiziarie. Interrotto dalla brusca opposizione della magistratura, il progetto di Francesco Vezzoli è carico di implicazioni artistiche e istituzionali che è opportuno considerare per se stesse.
Le circostanze sono note. Vezzoli aveva progettato di ricostruire la cappella calabrese nel cortile del MOMA PS1 per una sua personale prevista a fine 2013. Aveva anche progettato di allestirla con una scelta di opere precedenti, quasi a proporre una retrospettiva (ma il termine gli è odioso) o narrare la propria autobiografia. Che ha fatto dunque? Ha acquistato online la cappella e fatto partire il cantiere. Dopo un po’ però sono cominciati i guai. Gli abitanti della zona hanno contestato lo smontaggio della cappella, peraltro dismessa e in parte diroccata. La soprintendenza locale ha allertato l’autorità giudiziaria. E a Vezzoli si è contestata la “tentata esportazione di beni artistici senza gli appropriati documenti per l’esportazione” (Comunicazione personale di Francesco Vezzoli all’autore, 1.2.2014). Così le parti già smontate della cappella non sono mai partite per New York: giacciono tuttora al porto di Gioia Tauro alloggiate in otto squadrati container. Un bell’intoppo: occorrerebbe tuttavia interrogarsi sul senso interno dell’operazione prima di schierarsi (come pure si è fatto) pro o contro l’iniziativa del magistrato.
Cappella della Madonna del Carmine di Montegiordano, il cantiere nello stato attuale
Perché un artista di fama internazionale come Vezzoli, da sempre interessato al mondo del glamour nei suoi rapporti anche più oscuri con il potere, tra i più affermati artisti italiani della generazione che va dai trenta ai quaranta, si sofferma su una piccola cappella ubicata in un perduto angolo di mondo rurale? Questa la prima domanda. La seconda: perché proporsi di rimontare la cappella a New York ornandola di mirabilia affettivi, inclusa la madre dell’artista, che avrebbe dovuto essere esposta a mo’ di nume privato, di lare affettuoso e vernacolare?
Il progetto, intitolato la Chiesa di Vezzoli, segna (o quantomeno doveva segnare) un deciso mutamento di prospettiva. Hollywood ha smesso di essere l’ossessione che è stata. Da qualche tempo l’artista colleziona e allestisce sculture antiche. L’“idea dominante”, la “bellezza”, ai suoi occhi si è come dislocata: diserta i corpi delle dive per posarsi sulla candida materia di cui sono fatte le statue. Vezzoli è un artista colto e forse, come suggerisce Miuccia Prada, a suo modo “politico”. In un’intervista recente confida che desiderebbe diventare il presidente del PAC di Milano, assumersi la responsabilità di dirigere un’istituzione, assicurarsi (proprio come artista) un ruolo “amministrativo”. È un’affermazione importante, dalle implicazioni iperconcettuali: cos’altro sono, se non “scultura sociale”, le politiche istituzionali? Se agli artisti italiani fosse dato in sorte di contrastare l’attuale “egemonia dei galleristi”, aggiunge Vezzoli, essi potrebbero “restituire” qualcosa di ciò che hanno ricevuto da un’illustre tradizione culturale: dirigendo o patrocinando musei “che oggi non hanno più una lira”.
(Nel corso di una conversazione privata Vezzoli mi rivela di essere ormai incredibilmente annoiato dai cerimoniali dell’arte e dall’autoreferenzialità degli “artisti”. Una breve memoria di Giosetta Fioroni, apparsa recentemente sul Corriere della Sera, lo entusiasma. Giosetta rievoca le smorfie di digusto con cui Duchamp, in occasione di un soggiorno romano, accoglieva tutti coloro che gli si accostavano proponendosi di parlare di “arte”.)
Consideriamo dunque il progetto della cappella da punti di vista adeguati: né occasionali né (tantomeno) di spoliazione. La cappella doveva giungere a New York ed essere esposta al MoMA come insegna identitaria, diasporica e frammentaria. L’artista, che non nasconde la propria ammirazione per Giulio Paolini, si era proposto di esibire il più indiscutibile “primato” italiano, il patrimonio: che lui definisce umoristicamente “il nostro Fort Knox”. Inutile ai suoi occhi sforzarsi di emulare o di prendere parte a una corsa che altri (parafraso proprio Duchamp) correranno più veloci (e con maggiori motivazioni) di noi. Meglio riconoscere immediatamente cosa è più vantaggioso intestarsi o credibile rivendicare. “Lo so bene”, mi dice l’artista, “proprio perché ho abitato per lunghi anni all’estero”.
“Con New York il rapporto è sempre conflittuale..., più si rendono manifeste le proprie radici meglio è.... Quindi mi porto da casa le mie radici, in questo caso una chiesa e ci metto dentro tutti i miei video e magari anche mia mamma viva... È come dire: ‘Così non mi fate del male’”. Distacchiamoci per un attimo dal piano aneddotico. Vezzoli coglie le condizioni dell’attuale negoziato artistico e culturale. Si ottiene riconoscimento internazionale solo se si riesce a situare criticamente la propria attività nel contesto di una scena storica e sociale determinata: non se si rimuove tutto ciò che per noi, magari in modo dibattuto, è “nativo” o “locale”.
(Nel descrivere i propri video con le celebrità di Hollywood, Vezzoli ricorre più volte al termine di “vendetta”. Esemplifichiamo: rivendicare la superiorità di Luchino Visconti o imporre a Eva Mendes di interpretare marmi antichi, mi spiega, è per lui qualcosa come una ritorsione “geopolitica”. Un dispetto che la Periferia fa al Centro. Una gustosa “vendetta” assaporata ai danni dell’Impero.)
Vezzoli ha sempre scelto i suoi “motivi” con l’astuzia strategica del produttore o del pubblicitario. Non possiamo dunque supporre che proprio oggi, nel volgersi al tema del “patrimonio”, si sia tenuto all’oscuro dell’acceso dibattito italiano tra storici dell’arte e economisti, difensori del ruolo pubblico nella tutela e sostenitori dell’iniziativa privata, benecomunitari e neoliberisti. Un dibattito che ha visto le due parti contendere con asprezza benché con argomenti non di rado ugualmente sommari. Troppo avveduto per polemizzare in modo esplicito con questo o quello, Vezzoli ha trovato un consulente storico-artistico d’eccezione in Antonio Paolucci, certo non schierato su posizioni intransigenti; e condivide verosimilmente con Miuccia Prada, sua amica e sostenitrice, il fastidio per l’eccesso di ideologia che caratterizza la discussione.
Francesco Vezzoli in occasione di un sopralluogo
Nel caso della Cappella della Madonna del Carmine un individuo eroico e fiabesco, l’Artista, avrebbe dovuto sostituirsi ai responsabili pubblici della tutela (o esautorarli del tutto) e diventare esso stesso mecenate, prendendosi la briga di ricostruire altrove un edificio votivo che l’incuria di molti aveva condannato alla distruzione. Questa l’intenzione. Un punto di vista per niente neutro, improvvisato o banale.
Tutto chiaro sin qui. La genealogia come vessillo, l’eredità come Ritornante. Ma cosa sarebbe accaduto alla Cappella non appena la mostra newyorkese avesse chiuso i battenti? Sarebbe stata dispersa sul mercato come una qualsiasi opera d’arte, una lussuosa commodity dell’industria culturale? Se un’intera comunità insorge contro l’ablazione dell’edificio perché non pensare da subito di restituirlo al luogo di origine, magari dopo averlo esposto, restaurato e reintegrato degli arredi originari che si sia riusciti a salvare? La denuncia dell’inadeguatezza dell’apparato pubblico di tutela non sarebbe stata meno veemente, mi pare, se Vezzoli avesse previsto un gesto conclusivo di generosità. Un dono. E poi: l’uso devoto per cui la Cappella era stata concepita in origine non avrebbe creato un contrasto stridente con la possibile destinazione commerciale? La libera circolazione di merci e capitali è solo un cattivo surrogato del cosmopolitismo inclusivo (o “decoloniale”) per cui ci spendiamo.
Ho girato la domanda a Vezzoli. La sua risposta è stata articolata anche se fatalmente vaga. Lo stop imposto al progetto ha forse reso superfluo preoccuparsi della sua conclusione. Eppure, questo almeno il mio avviso, proprio la scelta della destinazione, se fissata in partenza, avrebbe conferito all’operazione una precisione definitiva, conferendo alla Chiesa di Vezzoli l’importanza pubblica (nel senso di “arte pubblica”) cui sembrava (e poteva) ambire.
Nel volgersi alla Cappella come a una propria preda emblematica ha prevalso, nell’artista, la pietà per qualcosa che appare trapassato (come la fede, l’appartenenza o l’“umile Italia”) o piuttosto il desiderio di tradire l’origine? Verosimilmente l’una e l’altra cosa. Il senso del progetto è proprio nella sua ambivalenza. “Come dice Beyoncé nello spot della Pepsi”, confida l’artista, che chiama in suo soccorso una divinità capricciosa e postidentitaria, “abbraccio il mio passato ma vorrei anche gettarlo via”.