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Oggetti d’infanzia | La pila
L’infanzia, si sa, è un tempo magico, e raccontare l’infanzia vuol dire anche raccontarne gli oggetti che più l’hanno abitata. Non solo i giocattoli, ma gli oggetti più comuni e quelli più speciali, e magari anche quelli strani di cui ci vergognavamo un po’: tutti sono diventati parte di noi, ci hanno accompagnato nell’età adulta, dimenticati in un angolo della memoria.
A quel tempo di meraviglia, di scoperte e paure che è l’infanzia si può a volte tornare grazie a un oggetto qualsiasi, che però, sta qui la magia, era il nostro, e ci spiega chi eravamo, cosa desideravamo e cosa detestavamo, anche. E che forse ci diceva, allora, cose che avremmo poi capito solo molto più tardi, quando di quell’oggetto era rimasto solo un ricordo sfocato.
Per questo ricordare un oggetto d’infanzia vuol dire non solo tornare ad affacciarsi su quell’epoca di prodigi e spaventi, ma pensare a cosa siamo diventati, noi, tutti, ormai adulti, a chiederci com’era il mondo che immaginavamo e com’è ora, così grande e terribile.
Oggetti d’infanzia è il nuovo progetto di doppiozero che invita tutti i lettori a raccontare la propria infanzia attraverso un oggetto. Storie, descrizioni, ricordi, che ci fanno rivivere non solo un pezzo della nostra vita ma ci aiutano a capire la storia e le vicende della nostra società.
I migliori tra i racconti pervenuti saranno pubblicati su doppiozero. Al massimo 4000 battute, o, come si sarebbe detto un tempo, 60 righe.
Per partecipare scrivete a oggettidinfanzia@doppiozero.com
La pila
Pensavo che ogni utilizzo della pila, anche il più annoiato e inutile comportasse un sacrificio, la perdita della sua energia. Ma quando sentivo la voce della radio, che biascicava trascinando le parole - come nelle telefonate camuffate e minatorie dei film - ero quasi felice: un’altra pila scarica nella mia collezione. La conservavo in un fustino di detersivo che avevo ricoperto con la carta di giornale. Non ricordo il momento in cui è iniziata questa ossessione, ma all’età di sette anni avevo un fustino pieno di pile, le chiedevo anche agli zii e ai cugini: regalatemi pile scariche, non soldatini. Ogni pomeriggio passavo almeno un paio di ore a giocare alle pile.
Accostavo la porta della camera, sollevavo il fustino - nascosto in un angolo della stanza - e rovesciavo il contenuto sul tappeto. Questi piccoli esseri inanimati a cui davo una nuova vita erano di marche diverse, spesso in coppia e del medesimo colore. Le pile avevano graffi, lievi ammaccature, segni che consideravo importanti per la loro vita futura. Una pila aveva un graffio sulla sinistra: era la pila mancina. Una pila con un segno sul retro, in alto: era la pila con i capelli lunghi raccolti in una coda. Una pila aveva uno strano ghirigoro sulla schiena: era la pila con la maglia numero otto. All’inizio ricalcavo le gesta dei campioni dello sport e adattavo l’esistenza delle pile alla loro forma.
Una pila più bassa delle altre, di colore bianca e rossa, scrostata nella parte anteriore, all’altezza del viso, tanto da farla sembrare una folta barba, era lo sciatore svizzero Heini Hemmi, il più basso slalomista della storia, un bambino barbuto. Heini Hemmi gareggiava sul tappeto, superava Stenmark, il bordo del letto era la catena alpina. Non mi bastava l’evento sportivo. Heini Hemmi dopo la gara indossava un cappotto troppo lungo, sembrava un senza tetto, camminava su un marciapiede di Milano, entrava al bar, fumava come mio padre. Immaginavo la vita grazie alle pile. Il sabato pomeriggio jugoslavo dopo le partite del campionato di calcio a Mostar, Sarajevo. L’autista dell’ambulanza parcheggiata sulla pista sterrata d’atletica, dietro la porta, mentre il pubblico usciva dallo stadio.
Una pila era la ragazza de La farfalla sul mirino, un film giapponese che avevo visto su Koper Capodistria a metà degli anni ‘70. Dopo quel film ho iniziato piccole storie d’amore fra le pile, si strusciavano, si sdraiavano una accanto all’altra, le prendevo per i fianchi e le dondolavo chiedendo loro di spogliarsi. Il tappeto diventava un grande appartamento, una fabbrica, il centro di Milano, la manifestazione per Zibecchi ucciso dalla polizia, il deserto del Nevada. Non volevo mai smettere, sentivo le urla dal cortile, preferivo la vita sorgiva delle pile. Una volta ho fatto convivere le pile con un’estranea, lo stick arancione di Autan, che era più alto delle pile, e così è diventato una ragazza olandese, discriminata dal gruppo a causa della sua altezza.
A tredici anni, alla fine della terza media, i miei genitori mi hanno detto che ero diventato troppo grande per giocare con le pile, iniziavo il liceo, dovevo buttare il fustino. All’epoca non c’era la raccolta differenziata per le pile. Ho portato in strada il fustino e l’ho lasciato accanto al cassonetto. La sera non riuscivo a dormire, ho pensato alle pile abbandonate, sarebbero finite in una discarica.
L’indomani all’alba non ho sentito il camion della spazzatura. Ho sollevato assonnato la tapparella della camera e fissato il vuoto. Diciannove anni dopo ho ricominciato a scrivere.
Giorgio Falco