Svalutazione competitiva

20 Gennaio 2014

Siamo al campetto, in un pomeriggio del 1992, giochiamo a pallacanestro, tre contro tre, l’altro canestro è occupato da altri sei giocatori, giocano la loro partita, e l’intero campo, al posto di contenere dieci giocatori per un solo incontro, ne ha due in più, sei da un lato, sei dall’altro, due micro partite, risparmiamo sugli spazi sacrificando l’unità narrativa e di intenti, ogni gruppo preso dalla propria storia, lo Stato italiano quasi fallisce, i Titoli di Stato offrono rendimenti superiori al 12,5% per attirare gli investitori stranieri e diminuire il deficit, il debito pubblico al 105% del Pil, il governo preleva il 6 per mille dal mio conto corrente, la retina del canestro è strappata, vorrei giocare dal lato opposto, quello con il canestro intatto e vero, dove ancora si sente ciuff a ogni centro, ma quella parte mi è preclusa, è sempre occupata dagli altri. Finita la partitella, alcuni ritornano a casa, a me piace rimanere a palleggiare e provare nuovi tiri, è la svalutazione competitiva, che produce canestri senza che ve ne sia bisogno, è come se stampassi più moneta, il valore di ogni lira diminuisce ma c’è più denaro in Italia e ho l’illusione che vi sia anche nel campetto, sebbene questa manovra economica finanziaria - così come la mia insistenza - sia una specie di garbage time fuori tempo massimo.

 

Il tempo spazzatura - garbage time - è la definizione coniata dal radiocronista  americano Chick Hearn ed è usata soprattutto nel basket. Il tempo spazzatura comincia a pochi minuti dalla fine di un incontro ormai deciso, irreversibile, gli allenatori schierano le riserve, coloro che mai giocherebbero con la partita in equilibrio. I titolari siedono in panchina, gli inservienti posano asciugamani sponsorizzati sulle spalle dei titolari, i preparatori atletici li preservano da infortuni, l’allenatore della squadra sconfitta lancia ai propri giocatori un avvertimento: la panchina potrebbe essere il vostro futuro prossimo.

 

Uno spettatore distratto può pensare che durante il tempo spazzatura la qualità del gioco cali, in verità è come se la moneta fresca appena immessa luccicasse di qualcosa di contraffatto, svelasse tutta l’impalcatura menzognera non solo di se stessa, ma dell’intero sistema. Lo Stato diventa una sorta di falsario, stampa soldi quasi veri. I ritmi del tempo spazzatura sono accelerati, i giocatori obbediscono all’ordine di far scorrere il tempo fagocitando più azioni possibili, più tiri, per un vertiginoso falso aumento di produzione, che genera solo l’incremento dei rifiuti.

 

Anche il calcio vive il tempo spazzatura ma lo chiama melina, e si basa sul processo inverso: un rallentamento esasperato dell’azione. In entrambi i casi, il risultato è il medesimo: giocare fuori ritmo svela la parte più oscura e oscena, rimanda a un’altra circostanza la fabbrica di cose ed eventi, in modo da avvalorare e rendere indimenticabile il prossimo prodotto, la prossima moneta, quella ritenuta più vera, dimenticando come le stesse azioni considerate eccellenti possano diventare, la settimana seguente, titoli tossici, titoli spazzatura.

 

Siamo sul campetto, io e Dollaro, un pomeriggio dell’estate 1992. Dollaro ha dieci anni più di me, è alto 1,90, magro, il volto scavato, viveva a Londra alla fine degli anni ’70, il suo taglio di capelli conserva qualcosa del periodo, un leggero ciuffo biondo ricopre la fronte sinistra. Palleggiamo e ci passiamo la palla, facciamo un tiro per uno. Dollaro - chissà poi perché qualcuno ha iniziato a chiamarlo così, sebbene abbia vissuto in Inghilterra, e non in America - è disoccupato, gira nel quartiere sempre in tuta e scarpe alte da basket anche per andare in posta, ma nel 1985, poco dopo il suo ritorno dall’Inghilterra, si era abituato in fretta al nuovo mondo italiano, diceva di guadagnare 4.000.000 di lire al mese vendendo cravatte, solo al lunedì pomeriggio.

 

Palleggio oltre la soglia pitturata di giallo stinto sul catrame, l’arco del tiro da 3 punti, a 6 metri e 25 centimetri dal canestro. Nel 2013 è mezzo metro più in là, a 6,75, una sorta di aumento dell’età pensionabile. L’introduzione del tiro da 3 punti, nel basket europeo, risale al 1984. Tra le varie forme di ossessione che ho avuto nella vita, una delle più significative è proprio il tiro da 3 punti. Se riesci ad avere il 40% nel tiro da 3 punti, su 10 tiri tentati, hai un bottino di 12 punti. Per avere 12 punti, con il tiro da 2 punti, devi fare 6 tiri su 10, il 60%. Se su 20 tiri da 3 mantieni il 40%, fai 8 su 20, 24 punti, che con i tiri da 2 sarebbero 12 su 20. Non è mai semplice, né in un caso né nell’altro, però è facile farsi ingolosire dal tiro da 3 punti: e se facessi 12 su 20 da 3 punti? Mi sposto appena oltre la soglia dei 6,25 sulla sinistra del campo, infilo il primo tiro.

 

Dollaro, appostato sotto il ferro, prende la palla e me la passa; tiro senza perdere tempo, faccio un altro canestro; Dollaro prende la palla e me la passa, tiro senza perdere tempo, faccio un altro centro, ogni cosa pare al proprio posto nel mondo, non esistono guerre, carestie, ingiustizie, anche se sono dalla parte della retina strappata, posso sopportare tutto; Dollaro mi passa la palla, faccio un altro canestro, potrei continuare in eterno, se tirassi un satellite entrerebbe anche quello, ho la sfrontatezza di dichiarare, al quinto tentativo, mentre la palla è ancora in volo: metto anche questo! Lo so, è davvero inelegante riportare un proprio successo personale, se non fosse che per me fare 5 su 5 da 3 punti non è un trionfo, è una bizzarria irripetibile, un’impostura che mi inquieta. Dollaro prende la palla, l’appoggia tra il fianco e l’ascella, mi fissa immobile, adesso non ha niente del cinema indipendente inglese anti Thatcher, sembra lo smilzo bambino trentacinquenne di uno spaghetti western scaraventato alla periferia di Milano: scommetto una margherita e una media chiara, se fai altri 5 tiri li sbagli tutti. Penso, mi basta 1 su 5, un 20%, roba da Titoli di Stato dell’infanzia, anche se con l’interruzione Dollaro mi ha tolto dal ritmo, riportandomi nel solito vissuto spazio tempo: si è rotto l’incantesimo, siamo entrambi di nuovo consapevoli delle mie scarse qualità di tiratore.

 

Appena rilascio la palla dalla mano, Dollaro fissa la parabola, lui è sotto l’anello. Sbaglio. Mi sono distratto, divertito nel seguire la faccia di Dollaro e non la traiettoria. Figuriamoci se non metto almeno un tiro, ho appena fatto 5 su 5, dài, non scherziamo. Secondo tiro. Queste piccole sequenze somigliano alle barzellette, quando tra un passaggio e l’altro ci aspettiamo invano un piccolo evento, che tuttavia, non accade mai, eppure ci avvicina al baratro della risata. Sbaglio. Dollaro rimane in un silenzio scaramantico, non vorrebbe rompere l’equilibrio negativo, credo stia aspettando di provocarmi, per distruggermi psicologicamente negli ultimi tiri.

 

Terzo tentativo, la palla ballonzola sul ferro con quel suono di ruggine che aggredisce la retina penzolante come uno straccio, uno scalpo, un suono che sale dal legno mezzo marcio del tabellone fino al paesaggio, ai palazzi, alle donne che parlano da un piano all’altro, da un balcone all’altro, e sale ai musi dei cani infilati tra i ferri, ai pensionati che fumano senza mani, gli avambracci appoggiati alle ringhiere, gli armadietti pieni di cianfrusaglie inutili, fino ai tetti di eternit. Prima il paesaggio alle spalle del canestro era un punto di riferimento presente, aiutava il mio punto di vista ma non lo sovrastava, adesso mi schiaccia, è l’Italia.

 

Dollaro sotto canestro si ingolosisce, intuisce la difficoltà, mi incita all’errore. È il quarto tentativo, faccio un lungo respiro. Se fossimo in una fiction italiana o in un telefilm americano, sbaglierei, così l’attesa sarebbe concentrata sull’ultimo tentativo, l’uso della musica solleciterebbe la compartecipazione, il pathos. Invece faccio canestro, ma non riesco a gioire, è sempre di più tempo spazzatura, è tutto falso, so che Dollaro non mi pagherà la pizza, né tantomeno impreca, ma così come si guarda il cielo alla ricerca delle stelle cadenti senza crederci troppo, Dollaro aspetta l’ultimo mio inutile tiro, nell’ombra della retina strappata.

 

(E poi eravamo andati a mangiare la pizza, ognuno aveva pagato per sé, Dollaro doveva avere una specie di convenzione, ci eravamo seduti nel suo solito tavolo, il locale era ancora deserto, il pizzaiolo in maglietta bianca illuminata dal fuoco, il padrone parlava al telefono appeso al muro, le parole si perdevano tra i rumori dei tizzoni che bruciavano in un disperato rito propiziatorio, Dollaro si era alzato per prendere il telecomando vicino agli stuzzicadenti di un tavolo vuoto, il televisore sospeso a due metri d’altezza, nell’angolo della parete ricoperta di perlinato, Dollaro aveva cercato di cambiare canale senza riuscirci, forse è la pila scarica, avevo detto all’uomo ancora giovane in tuta, colui che aveva trascorso i lunedì pomeriggi del 1985 a vendere cravatte, no, non è questo il punto, aveva varcato il confine di una piastrella e l’invisibile soglia attraverso la quale i sensori del telecomando e del televisore avrebbero dovuto accordarsi all’energia della pila, ma eravamo ancora nel territorio di un giochino d’epoca, Dollaro aveva allungato il braccio digitando tutto se stesso, proteso verso il canale immobile).

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