Vattimo: intervista su religione e filosofia

12 Novembre 2023

Lei si definisce cristiano.

Sì, anche se inizio a dubitare se definirmi cattolico. Sono cresciuto come cristiano militante, ma a un certo punto smisi di frequentare la chiesa. Negli anni ’50 iniziai a studiare filosofia, appassionandomi soprattutto al pensiero di Heidegger e a una delle sue idee dominanti, ossia che la metafisica, intesa come un pensiero che ritiene di poter cogliere le strutture dell’essere e di poter conformarsi ad esse, è finita. Quando Heidegger parla dell’essere e del nulla, vuole dire in sintesi che la determinata configurazione culturale in cui viviamo non è necessiaramente l’unica. E quindi se è vero che non c’è più un’unica verità metafisica, è altrettanto vero che non c’è più nemmeno una falsificazione unica della religione. Non possiamo provare l’esistenza di Dio, ma non possiamo provare che non esiste. 

Nonostante la mia decisione di allontanarmi dalla frequentazione della chiesa, non mi sono mai sentito di abbandonare la chiesa cattolica, anche se ritengo che essa sia oggi infedele alla parola che lei stessa ci ha insegnato. Dio è al di là di tutte le religioni, ma a noi si è dato in questa forma. Forse Dio non ha niente a che fare con l’esistenza della materia del mondo, ma soltanto con lo spirito che ci salva. Rinuncio a considerare la religione come una spiegazione dell’esistenza dell’universo, e con questo naturalmente urto contro la chiesa, che è letteralista perché è autoritaria.

Ma se Dio è morto, se ognuno può portare la propria interpretazione personale, dov’è il principio  di unità di questa chiesa?

Nella figura di Cristo, anche se qualcuno mi accusa di non essere un vero credente. Facendosi uomo nella figura di Cristo, Dio ha abbandonato la sua trascendenza: questo falsifica la mitologia, ma al contempo la autorizza. Il dono della carità è, secondo me, il principale centro di aggregazione: Gesù stesso dice che quando due o più sono riuniti nel suo nome, lui è in mezzo a loro. Dio non è in cielo, dove ci sono i satelliti e le stelle, e nemmeno sottoterra, io credo che stia tra la gente che si ama. Quando dico che Dio è morto lo dico pensando a un Dio garante dell’ordine supremo dell’universo. 

Come può il cristianesimo manifestarsi in una società senza un ruolo guida, senza un’autorità?

Io dico sempre, scherzando, che grazie a Dio sono ateo: con questo voglio dire che grazie al cristianesimo pian piano sono diventato capace di pensarmi cristiano anche in un altro modo. Sono convinto che i credenti, anche quelli più docili all’insegnamento papale, lo siano proprio nella misura in cui non lo prendono troppo sul serio. Pensi alla pedofilia ecclesiastica. Oggi è diventata uno scandalo, ma possiamo veramente affermare che prima non esisteva? La differenza risiede nella trasformazione della percezione di queste realtà, per cui tutti sono coinvolti in un ripensamento che spaventa molto le gerarchie, anche se credo che tutti i ripensamenti siano salutari. Se la chiesa diventa sempre più autoritaria è perché sta morendo, e alcuni pensano che stia morendo per conservarsi fedele ai suoi principi, ma a me pare una follia. Ha perso il ruolo di guida che ha avuto per secoli e forse la cosa è provvidenziale. La secolarizzazione comporta, anzi, un aspetto di autenticazione della fede, che a questo punto non è più difesa dei privilegi ecclesiastici. La chiesa è un’istituzione tutt’ora necessaria, ma deve essere meno autoritaria e più vicina all’insegnamento del vangelo. Solo i fedeli più passivamente menefreghisti non mettono in discussione l’autorità della chiesa.

Questo cristianesimo consono al pensiero debole, non rischia, anche a contatto con società che non hanno avuto l’opportunità di meditare su se stesse, di diventare una sorta di impero bizantino?

Capisco l’obiezione, ma credo che il pericolo delle guerre di religione sia più concreto. Mi sembra meno rischioso un cattolicesimo debolista, anche perché più fedele all’insegnamento di Gesù, un uomo che  porgeva l’altra guancia. Tutto sommato credo che se, nei rapporti con le altre civiltà noi occidentali, portassimo, oltre alla tecnologia, una religione meno metafisica, più di amore che di dottrina, sarebbe possibile un dialogo con culture diverse. 

Lei condivide l’affermazione secondo cui tutti i disastri del mondo sono colpa delle religioni?

No. Certo, a volte questo si è verificato, ma il fatto è che chi combatte per la religione è convinto di avere in tasca la verità e questo non mi sembra né serio, né tanto meno ancora sostenibile. La frase che cita non mi disturba, anzi mi diverte e, dal punto di vista storico, non posso che darle ragione, ma i crociati delle religioni non hanno alle spalle delle riflessioni religiose profonde. Allo stesso modo si potrebbe prendere la società sovietica per sminuire l’ideale del comunismo. 

Come si configura nell’epoca del pensiero debole, l’idea di progresso?

È certo possibile valutare il progresso, ma sempre all’interno di un determinato sistema di coordinate. Posso sostenere che vi è stato un certo progresso, se osservo un miglioramento nell’andamento del PIL, ma non posso mai dirlo in assoluto. Del resto vi sono molti, oggi, che sostengono che l’aumento del PIL non corrisponda affatto a una crescita della felicità e del benessere, anzi. Basti pensare che i massimi consumatori di psicofarmaci sono gli americani, anche se questo dipende sicuramente dal’opera di convincimento dell’industria farmaceutica. Io vado spesso in Yucatan e vi trovo un’agricoltura fiorente, dei bellissimi villaggi di capanne col tetto di foglie, gente che sta bene. Li consideriamo poveri perché mancano loro certe cose di cui peraltro hanno sempre fatto benissimo a meno. Se considero il progresso in base alla disponibilità di mezzi, è vero, non c’è l’ascensore, ma in un posto dove non ci sono i grattacieli, nessuno ne sente la mancanza. Queste sono teorie dello strutturalismo francese. Il progresso lo si misura in base alla capacità di una società di sopravvivere umanamente, di dialogare. Certo, possiamo considerare un progresso l’eliminazione della pena di morte, ma se questo significa dover essere sottomessi a un dominio esterno… non ne sono più così sicuro.

Dunque, parlavamo del giusto agire. L’epoca del pensiero debole si emancipa dall’idea di una verità unica e assoluta…

L’elemento positivo del pensiero debole, da un punto di vista etico e politico, è che non ha un modello positivo cui dobbiamo assomigliare a tutti i costi, ma un modello negativo da ridurre progressivamente, quello della violenza. Non un modello cui bisogna adeguarsi, ma il tentativo di  porsi un limite. Ridurre la violenza nei confronti della natura, degli altri individui, degli altri gruppi è qualcosa che si impone quasi naturalmente, fa parte dell’insegnamento cristiano, ma anche della ragionevolezza. Il problema risiede eventualmente nella definizione di “violenza”, e l’unica spiegazione che mi viene in mente proviene dalla tradizione cristiana: violenza come non rispetto della libertà dell’altro. L’unica vera violenza è quella di mettere a tacere l’altro, di privarlo della libertà. È un principio etico e politico che viene direttamente dal pensiero debole. Scomparsa la metafisica come scoperta di verità assolute, ci resta la carità, l’accettare il confronto: e non è poco. Se non posso più muovermi in base alla verità, devo scegliere il mondo della comprensione reciproca, la razionalità non può più essere quella che corrisponde all’ordine eterno delle cose ma quella che porta alla ragionevolezza nei rapporti interumani. Caduta la metafisica dei diritti assoluti può scatenarsi la lotta di tutti contro tutti: ma un mondo fatto di forze in cui bisogna cercare di essere più forti finisce per distruggersi da sé. 

La carità di cui parla però è un valore assoluto, e se lo suggeriscono anche altre correnti di pensiero che non hanno addentellati con il cristianesimo, allora possiamo anche fare a meno della religione.

Certo, c’è salvezza anche fuori dalla chiesa. È un’affermazione laica, ma pur sempre derivante da una società educata dal cristianesimo. I greci non erano tanto caritatevoli, i romani neanche, quindi per me è ragionevole dirsi cristiani anche solo da un punto di vista culturale, anche solo dicendo di preferire la carità alle verità assolute, anche se questo limita il potere della chiesa. 

Riguardo al dialogo con René Girard e Flores D’Arcais…

Girard sostiene che la bibbia è un inizio di riduzione della violenza del sacro perché mostra che Dio non vuole vittime a tutti i costi. Gesù è messo in croce non perché è una vittima perfetta ma perché ha predicato che non ci vogliono le vittime: io sono d’accordo, il cristianesimo e per certi aspetti anche il giudaismo riducono questo legame tra sacro e paura, e l’incarnazione è il culmine di questo processo. Girard però resta legato all’idea che la violenza si svela ma non si elimina. Io sostengo che la soluzione di tutto è la secolarizzazione, il cristianesimo che si desacralizza, diventa norma di vita collettiva, di civiltà: mi sembra che sia questa la vocazione dello sviluppo del cristianesimo. Girard invece pensa che il sacro resti radicato nella natura umana: le società desacralizzate, come l’URSS, lo erano rispetto al cristianesimo, ma erano duramente sacralizzate rispetto ad altro; se si toglie il sacro del divino ci si ritrova il sacro del potere, del capitale, del mercato, della produzione. Secondo me il cristianesimo è una critica del sacro in tutte le sue forme: ecco perché i cristiani dovrebbero essere anarchici, antiautoritari, anti mercato e così via. Non credo che dobbiamo conservare il sacro del divino perché il suo posto non sia occupato da altri sacri, penso piuttosto che sia nostro dovere lottare sempre contro tutti i sacri. Secondo Girard, Gesù non ci ha cambiati, ci ha solo un tantino sgrezzati, mentre io non credo che Cristo sia venuto a dirci che il male c’è e che dobbiamo solo un po’ addolcirlo. Girard finisce per dire che il cristianesimo è vero perché ci rivela la verità sulla natura umana, ma a me sembra un discorso riduttivo. Non credo che Gesù sia venuto a dirci che siamo mortali e che moriremo, lo sapevamo già. Girard è più naturalista e pessimista, io più culturalista e ottimista, più speranzoso di un avvicinamento asintotico tra la civiltà umana e la storia della salvezza. Pierre de Chardin non era uno stupido, e neanche Hegel. L’idea che la verità  della religione consista nel prendere sempre più coscienza dalla nostra distanza siderale dal divino, come dicono Barth e Kierkegaard, mi sembra poco ragionevole: valeva la pena farsi mettere in croce per dirci solo questo? 

E l’idea del male come la definirebbe?

Sa, io al male non ci credo. Certo, Goebbels sarebbe stato mio nemico, l’avrei combattuto, però non potrei dire davanti a Dio che lui era il male assoluto: era un male per le persone che ammazzava, ma i suoi amici erano entusiasti di lui quando regalava loro le case degli ebrei cacciati via. Esiste il male assoluto? Non lo so, per fortuna, altrimenti vivrei sempre spaventato. Come non assolutizzo la mia metafisica tento di non assolutizzare la mia idea del male, che non vuol dire che me ne sto con le mani in mano: quello che ritengo male, lo combatto, perché sono un’entità storica, non Dio. Il pensiero debole è anche questo, la presa d’atto che non abbiamo in tasca la verità assoluta, per cui dobbiamo scendere a compromessi con gli altri, dobbiamo essere caritatevoli perché se ci basiamo solo sull’idea della verità non facciamo altro che scannarci. E anche l’idea del male… come possiamo definirlo, il male? Il mio Dio è un dio di carità e di amore, tant’è vero che premia anche gli operai dell’ultima ora: la carità ha anche una certa libertà, mentre l’idea che si possano definire il bene e il male una volta per tutte, non è libera. L’idea del male è sempre legata a un contesto, a dei beni che sono minacciati. Credo che ci siano dei mali relativi a determinate situazioni e che ognuno dovrebbe sempre cercare di elevarsi al di sopra dei propri meschini interessi, anche se ha il dovere di autopreservarsi. 

Quindi non crede nemmeno nel peccato?

No, e neppure nelle punizioni divine. Come dico in un mio libro, Credere di credere, il peccato consiste nel perdere un’occasione di bene. Prendiamo il peccato originale: visto che i due sciagurati progenitori hanno mangiato la mela, allora Dio punisce anche me: che razza di giustizia è questa? Non ha senso. Se sono figlio di uno scialacquatore, mio padre ha perso dei beni, per cui io non li ho: è una  conseguenza naturale, non una punizione. 

Come spiega il fatto che quasi tutte le religioni predichino l’astinenza sessuale, il digiuno… è una norma pragmatica?

Beh, prima di tutto è una norma di ordine sociale… se tutti stessero sempre a strafogarsi di cibo e a fare l’amore dove e con chi capita, si vivrebbe meno bene. Io non sono contro la famiglia, ma vorrei che fosse meno opprimente. Lévi-Strauss spiega il tabù dell’incesto come un elemento di ordine sociale: se in una famiglia tutti i fratelli volessero accoppiarsi con la loro madre, sarebbe un caos. Ho sempre considerato con indifferenza i tabù della sessualità, anche se mi piace la vita ordinata, e abolirli significherebbe anche togliere la violenza del sacro al sacro. Sono cose che vanno e vengono con le culture, con le civiltà. La civilizzazione è anche capacità di rimandare il piacere, come dice Freud. 

Il cristianesimo si potrebbe considerare un’odissea, un viaggio pieno di rischi, anche quello di non essere più nessuno, di non essere riconosciuto? E dove sarebbe l’Itaca di questo viaggio?

Non sono convinto che il cristianesimo si possa paragonare a un’odissea, anche se il mito della cacciata dal paradiso terrestre potrebbe suggerirlo, però non chiediamo mai a Dio di farci tornare nell’eden. L’idea dell’età dell’oro mi sembra  poco cristiana, lo è molto di più l’idea di una storicità “progressiva”: Hegel pensava a un procedere che, anziché abolire tutto il precedente, finisca per inglobarlo. Anche la mia vita spirituale ha un proprio sviluppo e questo non significa cancellare il passato. Che poi questo significhi tornare agli inizi, su questo nutro dei dubbi.

Possiamo ipotizzare che tra cinquecento anni si parli della famosa, ma ormai scomparsa civiltà cristiana?

Se la civiltà cristiana diventerà qualcosa di così remoto allora non ci saranno nemmeno uomini che parleranno. Il problema è anche la sopravvivenza della specie, benchè nemmeno questo sia un valore supremo. Secondo me la questione è un po’ apocalittica e va posta nei seguenti termini: o il cristianesimo si realizza o noi finiremo nel niente. Non ci si può figurare una civiltà che sostenga che il cristianesimo era soltanto un’illusione e che ora è stata superata, perché se succederà questo, la specie non sopravviverà. Se non si rinnova, la chiesa sarà destinata a morire, ma forse molti possono contribuire a fare in modo che questo non avvenga. 

 

Intervista realizzata nel 2008 per una rivista tedesca e rimasta inedita.

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