Un ricordo a 90 anni dalla nascita / Barbara, l’amore assoluto

20 Giugno 2020

L’entrata in scena era la parte più difficile. I francesi lo chiamano le trac, la paura del palcoscenico. Quei pochi metri prima di raggiungere il pianoforte. A una giovane attrice che sosteneva di non aver mai provato paura in scena, si dice che Sarah Bernhardt abbia risposto: non si preoccupi, arriverà col talento. L’amore che Barbara sentiva per il pubblico, meritava quella paura. Un concerto, per lei, era l’equivalente di un rendez-vous al chiaro di luna. E chi diamine si presenta a un appuntamento senza che gli tremino almeno un po’ le gambe?

 

Una volta seduta al pianoforte le cose s’aggiustavano. L’applauso si smorzava e spettava a lei domare il pubblico. La paura si trasformava in controllo. In silenzio, in sussurri. Come ci riusciva? Verrebbe da dire: intingendo la penna nel calamaio o, per meglio dire, ponendosi al pianoforte con le stesse intenzioni di chi, seduto allo scrittoio, s’accinge ad aprire il cuore a un amico o all’amata. Molte delle più belle canzoni di Barbara sono confidenze da separè, e molte di queste si presentano sotto forma di lettera. Per funzionare non devono soltanto colpire l’ascoltatore nell’intimo, ma metterlo nella condizione di sentirsi l’esclusivo ricevente di una confessione. I concerti di Barbara, in fondo, che altro erano se non delle confessioni a cuore aperto? E la sua carriera, che altro è stata se non un’incessante dichiarazione d’amore nei confronti del suo pubblico?

 

Oui, je vous fus infidèle

Mais vous revenais quand même

Ma plus belle histoire d'amour, c'est vous

 

(Sì, vi fui infedele

Ma facevo sempre ritorno

La mia più bella storia d’amore, siete voi) 

 

Nel 1964, l’anno in cui uscì Barbara chante Barbara, il disco che la rivelò al grande pubblico, Barbara fu invitata a tenere un concerto a Göttingen, nella Bassa Sassonia, Repubblica Federale Tedesca. Distanza da Parigi: 600 chilometri in linea d’aria, 800 via terra, ma anni luce sul piano culturale, oltre che una distanza incolmabile sul piano delle ferite aperte fra i due paesi. Sulle prime Barbara esitò. All’anagrafe era registrata come Monique Andrée Serf, figlia di Jacques Serf, alsaziano di origine ebraica, e di Esther Brodsky, di origine ucraina. La famiglia Serf aveva trascorso gli anni della guerra in perenne fuga. Dalla Loira ai Pirenei, dalla Bretagna alla regione dell’Auvergne, ovunque vi fosse qualcuno disposto a offrir loro un rifugio. Di tenere un concerto in Germania neanche vent’anni dopo la fine della guerra, in un luogo dove, supponeva, in pochi avrebbero capito le sue canzoni, Barbara non aveva alcuna voglia. Alla fine però, grazie all’insistenza di Hans-Gunther Klein, direttore dello Junges Theater di Göttingen, acconsentì. Unica condizione: che le fosse messo a disposizione un pianoforte a coda. Giunta a Göttingen, Barbara scoprì che proprio quel giorno era stato indetto uno sciopero che coinvolgeva anche i trasportatori di pianoforti, e che tutto quanto gli organizzatori erano in grado di offrirle era il pianoforte verticale di cui era dotato il teatro. Neanche a parlarne! O saltava fuori un pianoforte a coda, o niente concerto! Alla fine Hans-Gunther Klein riuscì a convincere un’anziana signora di Göttingen a mettere a disposizione il suo pianoforte a coda, e dieci studenti s’incaricarono di trasportare lo strumento in teatro.

 

L’accoglienza del pubblico di Göttingen fu tale che Barbara decise di prolungare il soggiorno in città. Finì con l’esibirsi in teatro per una settimana di fila e nel pomeriggio che precedette l’ultimo concerto, nel giardino dello Junges Theater, buttò giù qualche verso che quella sera lesse al pubblico accompagnandosi al pianoforte, abbozzando una melodia ancora incerta. Si trattava di una lettera di ringraziamento per come era stata accolta a Göttingen, e per l’amore che il pubblico tedesco le aveva riservato:

 

 

Ô faites que jamais ne revienne

Le temps du sang et de la haine

Car il y a des gens que j'aime

À Göttingen, à Göttingen

Et lorsque sonnerait l'alarme

S'il fallait reprendre les armes

Mon cœur verserait une larme

Pour Göttingen, pour Göttingen

 

(O fate che mai più ritorni

Il tempo del sangue e dell’odio

Perché ci sono delle persone che amo

A Göttingen, a Göttingen

E quando risuonerà l’allarme

Se mai dovessimo riprendere le armi

Il mio cuore verserà una lacrima

Per Göttingen, per Göttingen)

 

Poco più di un anno prima, il 22 gennaio del 1963, Francia e Germania avevano siglato a Parigi il Trattato dell’Eliseo, un documento che nel porre fine alla cronica ostilità fra le due nazioni, poneva anche le basi per una futura collaborazione economica e culturale. Nel 2003, in occasione del 40.esimo anniversario della stesura del Trattato, durante la sessione congiunta del Bundestag e dell’Assemblée Nationale nel Regio Palazzo di Versailles, il cancelliere tedesco Gerhard Schröder citò, nel suo discorso, alcuni versi della canzone Göttingen di Barbara.

 

Nella canzone L’enfant laboureur Barbara invece scrive:

 

Que jamais on n'écoute, derrière mes volets,

Pour voler mon piano, pour voler mes secrets.

Mes secrets sont pour vous, mon piano vous les porte

Mais quand la rumeur passe, je referme ma porte.

 

(Che mai si origli, dietro le mie persiane,

Per rubare il mio pianoforte o carpire i miei segreti.

I miei segreti sono vostri, se ne fa tramite il pianoforte

Ma spentasi la voce, io richiudo la porta). 

 

 

Disposta a raccontare tutto, restia a concedere alcunché. Non è un caso se molte delle sue canzoni si presentano sotto forma di lettera. All’intimità epistolare Barbara non affidava soltanto il suo cuore, mettendo l’ascoltatore nella condizione di cogliere tutto quanto sobbolliva e s’agitava al suo interno, ma anche l’impossibilità di trasferire altrove, e in particolare nella realtà, quel dialogo a due. Ciò che si confida a una lettera appartiene a quella dimensione, non è tenuto a sopravvivere altrove. Ed è probabilmente anche l’impossibilità della sua sopravvivenza lontano dalla pagina o, nel caso di Barbara, dalla canzone, a rendere tanto esorbitante la sua esaltazione poetica:

 

Ma plus belle histoire d'amour, c'est vous

 

La solitudine, per Barbara, era anzitutto la condizione che rendeva possibile l’amore. Quando scoprì le Lettere a un giovane poeta di Rainer Maria Rilke, ne fu non solo conquistata, ma letteralmente sconvolta. “Uno choc” confermerà lei stessa nelle note che accompagnano la registrazione in voce dell’integrale del testo di Rilke che la casa discografica Philips pubblicò nel 1991. Un’emozione che la condusse “sull’orlo delle lacrime”. Nelle lettere di Rilke al giovane scrittore Franz Xavier Kappus Barbara trovò conferma dell’eloquenza di una forma, quella epistolare, che in modo del tutto intuitivo aveva privilegiato non appena s’era messa a comporre canzoni di proprio pugno, ma trovò soprattutto il conforto di cogliere, nelle parole di Rilke, delle riflessioni nobili e inattaccabili sul piano morale e poetico riguardo all’amore, motivazioni che davano alle sue scelte di vita – la fugacità dei rapporti sentimentali, la rinuncia al matrimonio e alla vita a due, fino a quella ben più dolorosa della mancata maternità – un valore che poteva almeno in parte lenirne la privazione.

 

 

Rilke scriveva, riferendosi ai giovani che riteneva inesperti nell’arte d’amare: “agiscono per comune sgomento, e capitano, quando vogliano evitare, con la migliore volontà, la convenzione che gli si para innanzi (p. e. il matrimonio), nella rete di una soluzione, meno rumorosa ma ugualmente mortale e convenzionale; ché allora ormai, intorno ad essi tutto è convenzione; là dove si agisce da una comunanza prematuramente confluita, torbida, ogni azione è convenzionale: ogni relazione a cui porti questo smarrimento ha la sua convenzione per quanto inusitata (cioè, nel senso corrente, immorale); anche la separazione sarebbe allora un passo convenzionale, un’impersonale decisione casuale, senza forza e senza frutto”. L’amore dettato dalle convenzioni sociali. Niente, agli occhi di Barbara, meritava di essere rifuggito con maggior determinazione. Una siffatta idea dell’amore, prima ancora che castrante sul piano della libertà individuale, difettava di presupposti morali e poetici, e immiseriva l’essere umano. Molto meglio la solitudine allora, la solitudine come preludio o possibilità, come condizione necessaria al dono di sé verso l’altro, condizione la cui intaccatura non solo rendeva possibile l’innamoramento, ma lo restituiva all’azzardo e a una pristina purezza. La solitudine per amore dell’amore, ha scritto Danielle Moyse in Barbara, “J’aurai vécu d’avoir aimé” (Editions du Grand Est, 2017). Anziché al novero dei mistici però, sarebbe più opportuno assimilare Barbara a quello dei benefattori. A questo proposito dichiarò: “Non conosco gioia più grande che quella di donare, di sacrificarsi, di spogliarsi di tutto a favore di chi si ama o di chi neppure si conosce. In fondo, penso che tutto sia amore. Non avessi fatto la cantante, sarei stata suora o puttana. Bisogna spendersi, vivere fino a lacerarsi, con passione”.

 

 

Quando arrivò il successo, Barbara ne fu profondamente turbata. Proprio come Pier Paolo Pasolini, il quale nel corso di un dibattito televisivo condotto da Enzo Biagi dichiarò che il successo è l’altra faccia della persecuzione, così Barbara, dialogando con l’amico danzatore e coreografo Maurice Béjart, rivelò che inizialmente il successo le si presentò come una violenza, come uno stupro. Vendere dischi e fare la vedette non le interessava, le interessava il rapporto con il pubblico. Le interessava stabilire questa relazione di intimità con l’ascoltatore, ma non tollerava il superamento della soglia entro cui si sentiva protetta e autonoma. Nel dire tutto, Barbara aveva pur sempre il pudore di omettere ciò che sapeva avrebbe attirato la morbosità del pubblico. Il caso più eclatante fu con ogni probabilità la canzone Nantes, che chiudeva il disco Dis, quand reviendras-tu?

 

Nella canzone Barbara racconta, in punta di piedi, di quando fu chiamata al capezzale del padre morente. Un padre che le era ormai estraneo, col quale da anni non aveva più alcun contatto:

 

A l'heure de sa dernière heure,

Après bien des années d'errance,

Il me revenait en plein coeur,

Son cri déchirait le silence.

Depuis qu'il s'en était allé,

Longtemps je l'avais espéré;

Ce vagabond, ce disparu,

Voilà qu'il m'était revenu.

 

(All’ora della sua ultima ora,

Dopo anni di vagabondaggio,

Mi tornava in pieno cuore,

Il suo grido squarciava il silenzio.

Da quando se n’era andato,

A lungo l’avevo sperato

Quest’anima in pena, questo scomparso

Ecco che mi si ripresentava)

 

 

Di una delicatezza sublime, la canzone brilla per il non detto. All’ascoltatore la canzone appare per ciò che è: un commosso addio a un genitore di cui s’erano perse le tracce (il perché, in apparenza, è questione secondaria o che non ci riguarda). Straziante, intensa come tante canzoni di Barbara. Solo un tantino più personale. Chi ascolta percepisce che il luogo in cui ci sta conducendo Barbara è un luogo nel quale a nostra volta toccherà entrare in punta di piedi.

 

Il voulait avant de mourir

Se réchauffer à mon sourire,

Mais il mourut à la nuit même

Sans un adieu, sans un "je t'aime".

 

(Voleva, prima di morire

Scaldarsi al mio sorriso,

Ma se ne andò quella notte stessa

Senza un addio, senza un “ti amo”)

 

Dietro la tristezza di questa canzone, forse una delle più intime e laceranti fra le tante intime e laceranti del repertorio di Barbara, si nasconde però un non detto. Ciò che Barbara rivelò soltanto nel memoir incompiuto Il était un piano noir…, che gli eredi si decisero a pubblicare un anno dopo la morte della cantante, nel 1998. E cioè gli abusi che Barbara subì, da parte del padre, quand’era ragazzina. Abusi ripetuti, di cui Barbara mai parlò in vita ma che consegnò alla pagina scritta a fine carriera: “una sera, a Tarbes, il mio universo precipita nell’orrore. Ho dieci anni e mezzo. I bambini tacciono perché non sono creduti, perché si dice che inventino delle storie”. È quel che le successe quando, bambina, si rivolse ai gendarmi. Nessuno le credette. Nel 1949, diciannovenne, ruppe i rapporti con la famiglia, e non rivide il padre se non sul letto di morte, quand’era già spirato.

 

 

Nantes è una canzone straordinaria, a prescindere dal non detto che la pervade. Ma è quel non detto a catapultarla altrove, su un piano che oltre all’orrore chiarisce anche come l’amore assoluto di cui Barbara cantò per tutta la vita non fosse una posa ma la più alta delle conquiste. C’è il perdono, che è cosa buona e saggia, lo stesso che già affiorava nella canzone Göttingen, ma il fascino di Barbara, o meglio, il turbamento che si prova di fronte alle sue canzoni, è determinato in gran parte dall’onestà del sentimento che le sostiene, qualcosa che va ben oltre il perdono o la confidenza fra innamorati. La peggiore delle violazioni non ha facoltà di annetterci all’orrore ma neppure, per assurdo, di certificarci nella prossimità di quella violazione. E Barbara, in Nantes, ce lo suggerì con ineffabile pudore.

 

Barbara, Nantes

 

Bonus Track: Gérard Depardieu, strepitoso interprete di Barbara:

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