Anteprima / Truman Capote

20 Dicembre 2016

Sing for your supper canticchiava ridacchiando Truman Capote sulle ricche barche e ai ricchi pranzi dei facoltosi e famosi che adorava frequentare in un irresistibile blend fra Letteratura & Vita. La popolarissima canzonetta degli anni Trenta veniva da un musical plautino di gran successo a Broadway, The Boys from Syracuse, ma anche a Positano e Taormina e al Lido di Venezia i doviziosi socialites americani applaudivano a colazione. E anzi, quando a bordo coi prediletti Agnelli ‘Trummy’ riconoscente chiese «ma di dove arrivano questi divini meloni?», una sollecita duchessa o principessa gli ricordò: «i Mellon sono originari di Pittsburgh».

Trummy veniva spesso in Italia, fin dai suoi primi anni ‘poverrimi’ quando poi raccontava soprattutto le pensioni e le trattorie di Ischia o Venezia, con grande abbondanza di quei tratti folkloristici tanto apprezzati dai lettori americani e inglesi: scogli, pesci, crostacei, pomodori, vecchiette, stufette, color locale.

 

Ma mentre la sua carriera letteraria e mondana progrediva, diventò sempre più instancabile e infallibile nelle ricerche e incontri con le celebrità della café society e del «jet set cosmopolita», come si diceva allora. Non più «divine bruschette».

Ecco allora i gravi rischi del gossip proustiano, soprattutto a livello eccelso. Infatti, se non si precisano i nomi, e i personaggi non sono piuttosto noti, qualche bicchiere di troppo e «loro hanno perso la casa a Fiesole» o «la vera questione è perché lui ha sposato lei», quelle narrazioni e situazioni possono risultare prive di interesse. Ma qualche anno dopo, anche celebrità come Tallulah Bankhead e Theo Rossi o Estelle Winwood o Harry Cohn richiedono qualche nota esplicativa a piè di pagina o in fondo al volume.

(Una difficoltà anche per chi si è occupato semplicemente di teatro: come ristampare tout court un volume dove si tratta di Luigi Cimara, Lola Braccini, Piero Carnabuci, Sergio Tofano, Evi Maltagliati, Mercedes Brignone?).

 

Inoltre, i personaggi citati, soprattutto con battute di dialogo, generalmente si offendono. Se vengono trasformati in personaggi di fiction, comunemente diranno: «Quella lì sarei io, ma io non sono affatto così». Se invece si ritrovano con nome e cognome, non in una cronaca salottiera ma in una fiction stampata e rilegata, e magari con giudizi virgolettati su gente di conoscenza, allora ecco le ostilità e gli ostracismi di cui Truman fu vittima: per una sconsideratezza incomprensibile.

 

Come mai non capì – si chiesero tutti – che sarebbe stato cacciato e bandito proprio da quell’ambiente ‘ricchississimo’ che gli era indispensabile per continuare il suo promesso capolavoro, Answered Prayers? «Se si blocca l’oleodotto, le fabbriche chiudono» dissero i cinici. Ma il tracollo si verificò. Anche nella vita. L’ultimo passaggio a Roma era stato pressoché trionfale, dopo il grande successo di In Cold Blood. Con festeggiamenti sia dagli Agnelli sia da Judy Montagu, la grande spiritosa londinese che sull’Isola Tiberina ospitava Princess Margaret e Lady Diana Cooper, Cyril Connolly e Marlon Brando e Harold Acton.

Vivevano allora a Roma, per la gioia degli esteti internazionali, e apparivano a Spoleto o nella Dolce vita anche Jenny Crosse, figlia di Robert Graves, Iris Tree, figlia di Beerbohm Tree, Lady Warwick, amica di Arthur Koestler, nonché Muriel Spark e Gore Vidal e un vecchio simpatico monsignore americano che era stato amico e confessore di Scott Fitzgerald al college. Abitava nel palazzo Doria, e rispose «non posso, sono a letto», quando Tyrone Power gli chiese di celebrare le sue nozze con Linda Christian in Santa Francesca Romana.

 

Scattò qui la definizione di «The Trummy & Mommy Tournée», giacché lui accompagnava per gratitudine la moglie di un giudice che lo aveva agevolato nei contatti con quei condannati a morte così redditizi nel Kansas. E lei non aveva mai visto la città eterna, dunque si divertiva moltissimo anche al Rugantino, l’osteria trasteverina con fiaccole e butteri amata pure dalla «one and only Mrs Stone», orgogliosa protagonista della Primavera romana di Tennessee Williams, in tournée quasi ogni estate da New Orleans. In compagnia di una vecchietta biondissima e piccolissima che aveva fatto un cameo nella Dolce vita, e dunque veniva citata come «Fellini star» soprattutto in Louisiana e a Fregene. Poi, dopo il leggendario ballo al Plaza con «la crème de la crème» di New York e dintorni – minuziosamente organizzato da Truman come auto-apoteosi coi proventi di In Cold Blood, e in onore della potentissima Katharine Graham, padrona del Washington Post – altro che Dopo la caduta. Tanto per citare un famoso dramma di Arthur Miller.

 

 

Non era stata una caduta, in fondo, nemmeno il doppio e irreparabile flop delle imprese di Capote a Broadway: House of Flowers con la leggendaria Pearl Bailey, proprio nella settimana del trionfo di Gian Carlo Menotti con La santa di Bleecker Street (fine 1954). E nel 1971, un fiasco definitivo col musical tratto da L’arpa d’erba con Barbara Cook, già applaudita protagonista del Candide di Bernstein. Ma chissà se lui avrebbe vissuto con pena così grave lo «shock dell’estromissione» da un mondo non solo mondano ma artistico, anche se non tutto proprio amico... Il mondo di Bernstein e Menotti, e di Tennessee Williams, Gore Vidal, George Cukor, Cole Porter, Norman Mailer, Mary McCarthy, Dorothy Parker, Evelyn Waugh, Edmund Wilson...

Qualche caratteristica reazione d’epoca si può riscontrare nell’epistolario tra Victoria Ocampo ed Ernest Ansermet, allora notissimi. L’influente editrice e mecenatessa cosmopolita scrive all’illustre direttore d’orchestra che In Cold Blood le pare un ‘interno’ nella consorteria degli omosessuali: l’autore e i due assassini.

 

Ora, certamente per chi pratica con dedizione professionale il fatale abbinamento fra Letteratura e Vita, l’esclusione dal ristorante La Côte Basque (piacevolissimo, davanti al St Regis e accanto all’eccelso cravattaio Sulka) poteva risultare funesta come un’espulsione di Proust dai vari salons Guermantes e Verdurin, altrettanto ripieni di dame e megere indispensabili per l’ispirazione letteraria. Da noi, forse soltanto Giorgio Bassani narrò il trauma della cacciata da un club sportivo elegante ma antisemita.

 

I paragoni fra epoche e società effettivamente diverse possono attirarci nella sociologia culturale. A partire dall’importanza attribuita ai grandi balli nel «gran mondo» (e dalla sua cultura). Anche in Italia, soprattutto a Venezia, dove il Ballo Beistegui fu un evento epocale nel dopoguerra, e ai balli Volpi o Cicogna arrivavano le maggiori attrici di Hollywood, i massimi musicisti francesi, e anche scrittori e artisti di varie nazioni: come pure ai migliori balli di Milano e Roma e Napoli. Ma senza alcuna conseguenza nel campo della nostra letteratura. Altro che Cronaca bizantina in età dannunziana.

Certamente, contavano soprattutto, da noi, le epurazioni dai ranghi fascisti prima e antifascisti poi. Anzitutto pesano le emarginazioni dalla Rai. Altro che mancati inviti a un Bal Proust dai Rothschild o al Grand Ballet du Marquis de Cuevas.

Specialmente diverso era anche il costume, sia culturale che economico. Gli scrittori come Truman Capote normalmente vendevano le loro novelle a riviste d’alta moda che pagavano molto – come Harper’s Bazaar, Vogue, Mademoiselle –, oltre che ai periodici ricchi come The New Yorker o Esquire.

Nessun paragone possibile con noi: inammissibile immaginare Moravia o Pasolini o Calvino o chiunque altro come narratori di balli Colonna o Torlonia o all’Ambasciata Francese, su Nuovi Argomenti o riviste simili. O «Un weekend a Villar Perosa» descritto da un romanziere, un saggista, un poeta?

 

Ricordo un lungo e piacevole house-party con Gianni e Marella Agnelli che affittavano a Maiorca una baia con ville e padiglioni. E c’erano appunto Truman Capote e il suo amico, e Audrey Hepburn col marito Andrea Dotti, e vari amici e Brandolini nazionali e internazionali. Insomma, «tutti». In fine di serata «noi giovani» si giocava a tirar fuori il proprio ideale erotico segreto. Per i più: «testare» il proprio charme fisico in spiagge e locali dove nessuno ti conosce. Ma per Truman: chiudersi in un faro isolato col suo prediletto (che era lì, e non pareva ideale a nessuno).

Collaboravo allora al Vogue americano, ancora di alto livello culturale grazie alla mitica direttrice Diana Vreeland, che di solito mi domandava saggetti sulle protagoniste di D’Annunzio, e stavolta mi chiese un reportage sugli Agnelli. «Da noi non si usa» le spiegai modestamente; e allora lei lo commissionò a Truman, che lo fece benissimo. Confidenzialmente, come rivolgendosi a una massaia del Dakota: «Se vi trovate accanto a Gianni che guida in curva, tenetevi ben strette ai braccioli...». Detta a una casalinga di Voghera, ovviamente la cosa non sta in piedi.

 

Ma la fine di Truman fu anche più dolorosa dei tristi sandwich solitari di Orson Welles o Re Faruk nella parte bassa di Via Veneto. A Fire Island, spiaggia gay sofisticata e sfrenata prima dell’Aids, lo si vedeva (o era un sosia? un clone?) in cappello e giacchetta seduto sulla sabbia o al «tea dance» pomeridiano, in crocchi di bermude e bandane, con ampi gesti cordiali e la vocetta caratteristica. «È lui o non è lui?» ci si chiedeva con Egon Fürstenberg. Infatti ci ricordava gentilmente certe belle serate di poco prima (dove non c’eravamo), mentre non ricordava niente di Roma o Maiorca o altri bei pranzi neanche lontani. Egon diceva: «Non pare Truman, ma è Truman». E altri eleganti: «È una copia di Truman che si traveste da Truman per rimorchiare i babbei».

«Il fatto che una cosa sia vera non significa che sia convincente, nella vita come nell’arte. Pensa a Proust. La Recherche avrebbe la risonanza che ha se lui l’avesse resa autentica storicamente, se non avesse cambiato i sessi e le identità e i fatti? Se lo fosse stata sarebbe stata meno credibile, ma poteva essere migliore. Meno accettabile, ma migliore».

 

Questo contorto ragionamento, esposto da Truman Capote nel suo estremo racconto Unspoiled Monsters, finisce per spiegare il deterioramento finale. Quando non si rese conto che per fare «il Proust americano» non bastava cesellare una fiction rapidissima e troppo simile a una cronaca di gossip, a causa dei troppi nomi e personaggi autentici del momento. Gli stessi citati ogni giorno dalle famose ‘columnist’ pettegole. Ma soprattutto, non bisognava citarli in un contesto di malignità che offendono tutto un ambiente, fanno chiudere le porte, e così intanto si bloccano tutti i rifornimenti di maldicenze necessarie per ogni fiction futura.

Come mai non lo capì, proprio in mezzo alla più spietata café society, è un piccolo enigma che riviene fuori anche adesso. Ma questa straordinaria incoscienza mondana – ieri ti chiamavano ‘Genius’, oggi ti tolgono il saluto – si spiega talvolta con un mix di arroganza e di alcol. E magari, una certa filologia salottiera nei confronti del «modello Proust», con le tante ricerche su chi era il cugino di questo o la zia di quella, nel bel mondo parigino della Belle Époque. Senza evidentemente badare a quella critica strutturale e formale per cui la Recherche non è tanto un romanzo ‘a chiave’, bensì una cattedrale con le sue ampie navate e i suoi mostricini gotici. E non già una sophisticated comedy uso Hollywood. E così, confrontando i testi, si nota ovviamente che Proust dedica ai personaggi molte pagine labirintiche, mentre Capote li sbriga in poche righe quasi senza aggettivi. Ma allora, da un punto di vista stilistico, un più vero «Proust americano» forse non sarebbero piuttosto altri, anche se i contenuti non sono mondani?

 

Può essere illuminante un paragone fra Truman Capote e Jean Cocteau, giacché frequentavano e descrivevano la stessa alta società cosmopolita nei medesimi anni, soprattutto fra Parigi e Venezia e Roma e St-Moritz. La vera differenza è che Cocteau, fra tantissime attività culturali e mondane e artistiche e mediatiche, scriveva ogni anno centinaia di pagine che teneva per sé. Strapiene di nomi e fatterelli autentici e notizie personali: dunque per un uso strettamente privato. E quindi, nessun risentimento fra gli scrittori e gli accademici, le contesse e le duchesse, Picasso e Clouzot, Genet o Buffet.

Sorprende lì soprattutto l’ottimo stile, benché si tratti solo di appunti. E anche la facilità, confrontata alle fatiche sempre sostenute da Capote per arrivare alla «bella pagina». Ma siccome il volume di Le passé défini dell’anno 1955 – appena pubblicato da Gallimard – è proprio coetaneo delle Preghiere esaudite di Capote, a Parigi e a Roma, nei fatti, la frequenza dei nomi e dei luoghi risulta la stessa. Però Cocteau riserva al suo diario i nomi e le battute dei Pecci e Aldobrandini e Magnani e Colonna e Cole Porter e Volpi e Peyrefitte e Palma Bucarelli e quant’altri, fra i palazzi e le trattorie. Era a Roma per una sua affollatissima mostra alla galleria di Renato Attanasio, con ricevimenti anche alle ambasciate e in Vaticano e a Villa Medici. Ghiotte occasioni. Il microfono davanti alla bocca di Pio XII? «Un arnese da dentista».

 

Ma c’è una curiosa coincidenza (di grandi alberghi e di cacche) anche col celebre erotologo ed economista Georges Bataille. In Dirty, un suo racconto degli anni Quaranta, una ragazzaccia porcellona e verbosa fa i suoi bisogni sui tappeti del costoso Savoy di Londra. (Chissà che spesa). In Preghiere esaudite, il protagonista scivola su un mucchio di cacche di cani e va a finire con la faccia in un altro mucchio, al dispendioso Plaza di New York, nella stanza di Tennessee Williams che vuole spiegare Dostoevskij ai marchettoni, col cane lì. (Lussi d’altri tempi? Bataille era attento agli sperperi).

Altre singolari coincidenze. Il climax del trionfo di Truman, alla vigilia del terribile crollo, fu il celebre ballo da lui organizzato proprio al Plaza in onore di Kay Graham. E i suoi modelli erano i grandi balli tematici o mascherati a Parigi, dati dai Beaumont e Noailles e Rothschild fino ad Alexis de Redé. Talvolta anche con decoratori famosi di New York.

Ora, sono appena uscite a Parigi le memorie riservate e forse manipolate del medesimo «Baron de Redé». Non certo uno scrittore. Mai pubblicata una riga. Però i nomi e i personaggi sono sempre gli stessi. Eventi, trame, gossip, yachts. In più, una quantità di belle fotografie. Kennedy, Agnelli, Windsor, Warhol, Cecil Beaton...

Potrebbero adesso fornire materiali (e aumenti di prezzo) a una edizione illustrata delle Preghiere esaudite, dicono i sopravvissuti dell’epoca. Già questo album Alexis costa 85 euro.

 

Da Ritratti e immagini, Adelphi 2016.

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